Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo I

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Parte prima — Capitolo I
Un supplizio spaventevole

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Parte prima - Capitolo II
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CAPITOLO I.


Un supplizio spaventevole.


— All’armi Sarti!... Eccolo!... —

Un urlìo assordante fece eco a quel grido; poi un’onda di uomini si rovesciò attraverso le strette viuzze del villaggio fiancheggiate da casette d’argilla grigia, di meschino aspetto come già lo sono tutte quelle che abitano i turcomanni non nomadi della grande steppa turanica.

— Fermatelo con una palla nel cranio!

— Lesti, giovanotti!

— Addosso a quel cane!

— Fuoco! —

Una voce imperiosa, che non ammetteva replica, dominò tutto quel baccano:

— Guai a chi fa fuoco! Cento tomani1 a chi me lo porta vivo! —

Chi aveva dato quell’ordine era un bel vecchio, uno dei più belli che si potessero trovare nelle steppe turchestane, che doveva aver già varcata la sessantina, di forme piuttosto tozze e robuste con spalle ampie e braccia muscolose e la pelle fortemente abbronzata e resa ruvida dagli ardori intensi del sole e dai venti frizzanti della grande steppa, gli occhi neri e ancora pieni di fuoco, il naso un po’ adunco, come il becco dei pappagalli, ed una lunga barba bianca che gli scendeva fino a metà del petto.

Dal costume che indossava si poteva subito capire che apparteneva ad una casta elevata, poichè il suo ampio turbante era di seta, variegata ed intessuta con pagliuzze d’oro, la sua lunga [p. 4 modifica]zimarra di panno finissimo con alamari d’argento ed i suoi stivali, dalla punta assai rialzata, di marocchino rosso.

Inoltre impugnava una vera sciabola di Damasco, una di quelle famose lame che si fabbricavano anticamente in quella celebre città e che pare fossero formate con sottilissime lamine di ferro e d’acciaio sovrapposte, onde renderle flessibili fino all’elsa.

Al comando lanciato dal vecchio, tutti gli uomini che lo circondavano abbassarono i fucili e le pistole e, tratti dalle loro larghe cinture i kangiarri, quelle corte sciabole che somigliano così tanto ai jatagan dei turchi, si gettarono nuovamente a corsa furiosa, urlando:

— Addosso!

— Lesti!

— Non bisogna che ci fugga!

— Ci sono cento tomani da guadagnare! —

Un uomo, che era saltato poco prima giù da un terrazzo d’una di quelle casupole, fuggiva dinanzi a loro, facendo sforzi prodigiosi per mantenere la distanza.

Quantunque non fosse più giovane, balzava coll’agilità di un’antilope, descrivendo di quando in quando brusche curve, onde non lo si potesse prendere di mira e agitando disperatamente le braccia come per darsi maggior slancio.

Era un uomo di forme grossolane, con un collo da toro, il viso angoloso e di tinta quasi terrea, con una lunga barba nera e gli occhi piccoli, leggermente obliqui, simili a quelli che hanno i ghirghisi, quegli irrequieti ed indomabili predoni della steppa della fame, che dove pongono il piede non lasciano più nemmeno crescere un filo d’erba.

In una mano teneva un jatagan dalla lama larga e leggermente ricurva, e nell’altra una specie di chitarra col manico lunghissimo e le corde di seta, uno di quegli istrumenti che i turchestani chiamano la guzla.

L’inseguimento diventava accanitissimo. I Sarti, che all’allarme dato si erano precipitati nelle vie, erano una cinquantina, quasi tutti giovani e lesti di gambe, e gareggiavano fra di loro per guadagnarsi i cento tomani promessi dal vecchio: una somma grande per quegli uomini della steppa, che non posseggono quasi mai denaro.

— Fermati, canaglia! — gridavano tutti in coro, roteando [p. 5 modifica]minacciosamente i kangiarri a rischio di ferirsi fra di loro. — Fermati, cane d’un mestvire2! La tua guzla non ti salverà! —

Il suonatore raddoppiava i suoi sforzi e precipitava la corsa, mugolando ed ansando come una bestia feroce.

Aveva il volto congestionato, gli occhi fuori dalle orbite, le sue tempie battevano febbrilmente, e dal suo largo petto uscivano veri sibili, tanta era affannosa la respirazione.

Uscito dalle strette viuzze del villaggio, si dirigeva verso l’immensa steppa, coperta di erbe altissime, forse colla speranza di trovarvi nel mezzo un nascondiglio.

Ad un tratto un urlo di gioia sfuggì agli inseguitori.

— Tabriz! Ecco Tabriz! Ah! il furbo! —

Un uomo di statura gigantesca, che montava un magnifico cavallo persiano dal pelo lucentissimo, era uscito da una via laterale ed era passato come un uragano a fianco dei corridori.

Il fuggiasco, udendo il galoppo del cavallo, mandò una bestemmia e si fermò alzando l’jatagan.

— Non mi avrete vivo! — urlò; — prima ucciderò un buon numero di voi. —

Il cavaliere gli correva addosso con velocità fulminea.

Il mestvire fece un salto di fianco, per evitare l’urto, ma il cavaliere con una strappata a destra e con una stretta delle ginocchia, fece fare al suo destriero un volteggio fulmineo, che nessun altro sarebbe stato capace di fare e lo urtò così violentemente da gettarlo a terra.

— Sei preso, mio caro! — disse il gigante.

Balzò da sella e si precipitò sul fuggiasco ancora stordito da quell’urto violentissimo, gli strappò di mano l’jatagan, poi lo alzò in aria come fosse stato un fanciullo, gridando:

— Eccolo, Giah Agha beg! È tuo, padrone! —

Il mestvire si dimenava disperatemente, digrignando i denti e tentando di colpire, coi suoi pesanti stivali ferrati, l’ercole, senza però riuscirvi.

Gl’inseguitori in un momento circondarono i due uomini, urlando a squarciagola:

— È preso! È preso! Strozzalo, Tabriz! Dàgli una buona stretta di mano! Vendica Talmà! —

[p. 6 modifica]Il vecchio che giungeva ultimo, con un gesto imperioso, arrestò il gigante, il quale aveva già cominciato a stringere il collo del prigioniero colle sue formidabili mani.

— No, Tabriz, — disse. — Deve parlare prima e dirci dove hanno portata Talmà. Egli è un complice, fors’anche uno dei capi di quelle maledette Aquile della steppa.

— Non è vero, beg! — gridò il mestvire, con voce strangolata. — Io non sono che un povero suonatore di guzla e non ho aiutato quei miserabili a rapire la sposa di Hossein! Lo giuro! Lo giuro!

— Taci, cornacchia! — rispose il gigante, scuotendolo ruvidamente. — Taci, o ti rompo le costole con una buona stretta, di quelle che so dare io solo.

— Siete miserabili! assassini! Volete la mia morte per divertirvi!

— Portalo al villaggio, Tabriz, — disse il vecchio beg, saettando con uno sguardo feroce il prigioniero.

Poi, volgendosi verso gli altri, chiese:

— Avete del gesso nelle vostre capanne? —

Udendo quelle parole il mestvire diventò spaventosamente pallido, poi un urlo d’angoscia gli sfuggì:

— Ah! No! No! Grazia!

— Gettalo sul cavallo, Tabriz, — disse il vecchio, senza nemmeno rispondere al prigioniero, nè impietosirsi del terrore immenso che traspariva dai suoi occhi dilatati e dai suoi lineamenti sconvolti. E voi andate a raccogliere tutto il gesso e portatelo sulla piazza del villaggio.

— Un momento, padrone, — disse il gigante. — Bisogna assicurarlo bene; questi rettili mordono. —

Gettò a terra il disgraziato suonatore, gli posò un ginocchio sul dorso per tenerlo fermo, poi levatasi la fascia di grosso feltro che gli stringeva la lunga zimarra, gli legò strettamente le mani dietro la schiena.

Lo sollevò e lo mise sul suo cavallo, prendendo in mano le briglie.

— Siamo pronti, padrone, — disse poi al beg.

La truppa si mise in marcia ritornando verso il villaggio, ove si erano radunati i vecchi, le donne ed i fanciulli.

Il mestvire non aperse più bocca, nè fece alcuno sforzo per [p. 7 modifica]liberarsi dai legami. Il suo pallore non era ancora scomparso dal suo viso e di quando in quando un forte tremito lo faceva sobbalzare, specialmente quando i suoi sguardi s’incontravano con quelli del vecchio beg.

Giunti dinanzi ad una casupola, che aveva un aspetto migliore delle altre, Tabriz arrestò il cavallo e levò dall’arcione il prigioniero, mentre il beg diceva agli uomini che lo accompagnavano:

— Dieci di voi si mettano dinanzi alla porta colle armi cariche e gli altri vadano a cercare il gesso.

Il supplizio di questo miserabile sarà pubblico.

Ed ora lasciatemi tranquillo.

— Sì, Agha beg, — risposero in coro coloro che avevano preso parte all’inseguimento.

Tabriz, che teneva il prigioniero fra le braccia, con un calcio spostò la pietra che serviva di porta ed entrò in una camera piuttosto vasta, dalle pareti grigiastre, malamente illuminata da due pertugi che somigliavano a feritoie.

Depose il prigioniero su un vecchio tappeto persiano, senza slegargli le mani e si sedette accanto a lui col kangiarro snudato, risoluto ad ammazzarlo come un lupo rabbioso, al primo tentativo di rivolta.

Il vecchio beg stette in piedi, dardeggiando sul miserabile uno sguardo feroce.

— Parla, — gli disse con voce minacciosa. — Dove hanno condotto Talmà?

— Io non so nulla, — rispose il prigioniero. - Io sono sempre stato un povero suonatore di guzla ed un narra istorie e non ho mai avuto nulla a che fare colle Aquile della steppa.

— Tu menti, cane! — urlò il vecchio, esasperato. — Innanzi tutto non saresti fuggito dinanzi ai Sarti, se tu avessi avuto la coscienza tranquilla, e poi vi è un uomo che giura di averti veduto poco prima degli sponsali di mio nipote Hossein, parlare con un ghirghiso, che fu poi notato fra la banda delle Aquile.

— Quell’uomo si è ingannato, beg, lo giuro sulla testa di mia moglie e dei miei fanciulli.

— Non vuoi dunque dirmelo? — gridò il vecchio, alzando il pugno.

— Non posso confessare ciò che io non so, — rispose il mestvire con voce ferma. — Tu puoi uccidermi, farmi subire il tremendo [p. 8 modifica]supplizio del gesso, se lo vuoi; ma da me non saprai nulla, perchè io non ho mai fatto parte di alcuna banda di briganti.

— È la tua ultima parola?

— Sì, beg.

— Sta bene: vedremo se saprai resistere. —

Un forte tremito scosse il miserabile, e la sua fronte si coprì di goccioloni di sudore, tuttavia non aggiunse verbo.

— Tabriz, — disse il vecchio, — non lasciarlo un solo istante. Io vado a preparargli la fossa. —

Era appena uscito, quando entrò nella stanza un giovane di statura appena superiore alla media, dal colorito giallo pallido e di forme esili, con indosso un costume sfarzoso fra il georgiano ed il persiano, con molti ricami d’oro sulla giubba e sui larghi calzoni di seta bianca, ed un superbo sciallo di Kerman annodato intorno ai fianchi, fra le cui pieghe erano passati due kangiarri coll’impugnatura di diaspro orientale.

I suoi occhi che avevano la tinta e anche il lampo dell’acciaio, non possedevano quello sguardo fiero e limpido, che si osserva in quasi tutti i turcomanni; avevano invece qualche cosa di ambiguo, di falso, che metteva un certo malessere in chi doveva per qualche istante sostenerlo. Anche i suoi lineamenti duri, angolosi, erano molto lontani dall’avere quel bell’ovale che si nota nei discendenti degli antichi persiani; il suo naso era molto adunco, la bocca assai larga con labbra sottilissime, atteggiate ad un mezzo sorriso niente franco.

— Tu padrone? — disse Tabriz, salutandolo con un cenno del capo.

— Sono giunto in questo momento precedendo mio cugino Hossein, — rispose il giovane, fissando con uno sguardo inquieto il prigioniero.

— Non avete trovato nulla?

— Abbiamo rovinati inutilmente mezzi i nostri cavalli.

— Dov’è mio zio?

— È uscito poco fa, onde preparare a questo miserabile, che si ostina a non parlare, una tomba che lo stringerà per bene. —

Un fremito fugace corse pel corpo del giovane, ed i suoi occhi irrequieti tornarono a posarsi sul prigioniero.

— Non vuole parlare? — disse, dopo un momento di esitazione.

[p. 9 modifica]— No, signor Abei.

— Lasciami solo con quest’uomo, Tabriz. Voglio provare io a farlo cantare.

— Guardati, padrone: questo è pericoloso e capace di tutto.

— Ho due kangiarri che tagliano come rasoi, non ho quindi nulla da temere da costui.

Mettiti di guardia fuori dalla porta. Farai presto ad accorrere.

— Sì, padrone, — rispose il gigante alzandosi.

Appena furono soli, il giovane si curvò rapidamente sul prigioniero, dicendogli sottovoce:

— Tu ormai sei perduto e, se anche tutto confessassi, non usciresti egualmente vivo dalle strette del gesso, perchè mio cugino Hossein, fra poco, sarà qui, e quello non ti farà grazia.

— Lo so, signor Abei Dullah, — rispose il prigioniero. — io sono uomo finito ormai.

— Tu hai moglie e figlioli.

— È vero, signore.

— Io m’impegno di far giungere alla tua famiglia duemila tomani se tu manterrai il segreto e non pronuncerai il mio nome. D’altronde nessuno ti crederebbe svelando me.

— Me lo giuri, signore?

— Sul Corano.

— Ora che so che mia moglie ed i miei figli non soffriranno la fame, morrò più tranquillo, — disse il mestvire con rassegnazione, — e sopporterò da ghirghiso gli spasimi delle tremende strette.

— Bada!

— Non temere, signore. —

Abei si rialzò e chiamò Tabriz, il quale fu pronto ad accorrere.

— Quest’uomo non parlerà, — gli disse. — Lo uccideremo inutilmente senza cavargli dalla bocca se ha preso parte al rapimento di Talmà, e senza sapere il luogo ove l’hanno condotta le Aquile. Povero Hossein! Impazzirà dal dolore! —

Grida feroci coprirono le sue ultime parole.

— Il prigioniero! Il prigioniero! —

Una banda d’uomini irruppe nella stanza, armati di kangiarri e di fucili dalla canna lunghissima.

— Tutto è pronto, Tabriz! — gridò uno di loro. — Il beg lo aspetta.

[p. 10 modifica]— L’ora suona, — disse il gigante, alzando il prigioniero. — Preparati pel gran viaggio e raccomanda la tua anima al Profeta. —

Il mestvire curvò il capo senza rispondere e si lasciò spingere fuori dalla stanza.

Subito la scorta lo circondò, quantunque Tabriz lo tenesse strettamente per un braccio.

Attraversate tre o quattro viuzze che erano ingombre di persone, di cavalli e di cammelli, il drappello giunse ben presto sulla piazza del villaggio, dove si trovava il vecchio beg circondato da altri uomini armati, fermo sull’orlo d’una fossa profonda un metro e mezzo, e larga appena sessanta centimetri, sia da un verso che dall’altro.

Il mestvire, nel vederla, impallidì, spaventosamente ed i suoi occhi, che erano diventati sanguigni, cercarono ansiosamente quelli di Abei Dullah, il nipote del beg. Un rapido cenno fattogli dal giovane, parve rasserenarlo ed infondergli un po’ di coraggio.

Il beg gli si era appressato, chiedendogli:

— Vuoi parlare?

— Ti ho già detto che non so nulla. E poi, — aggiunse con amarezza, — anche se io ti dicessi od inventassi qualche cosa, non salverei egualmente la mia vita. Tuo nipote Hossein non mi risparmierebbe.

— No, di certo, perchè sei tu che hai organizzato il rapimento di Talmà, miserabile! Ormai sei uomo morto, ma prima di comparire dinanzi al Profeta pel giudizio supremo, dovresti dirci dove le Aquile hanno nascosta la fanciulla.

Le buone azioni non vengono scordate dal grande giustiziere.

— Non so nulla e non mi strapperai altra parola. Vuoi la mia morte? Ebbene sono pronto a subirla.

— Calatelo, — comandò il beg.

Tabriz tolse al prigioniero le vesti, lasciandolo quasi nudo, gli legò strettamente le gambe, poi lo assicurò ad un grosso piuolo che era piantato profondamente nella fossa.

— A voi, ora, — disse l’implacabile vecchio volgendosi verso alcuni uomini, che tenevano in mano sacchetti coperti di una polvere bianca, che altro non era che gesso.

Cominciarono a vuotarli entro la fossa, coprendo a poco a poco il disgraziato mestvire, poi, quando il gesso gli giunse alle spalle, vi gettarono sopra parecchie secchie d’acqua.

[p. 11 modifica]Il condannato, che fino allora aveva dimostrato un grande coraggio, non potè frenare un urlo d’angoscia.

Lo spaventevole supplizio cominciava, spaventevole perchè è ben più terribile della decapitazione, dell’impiccagione e fors’anche del palo. Inventato dai Persiani, che si sono, in tutte le epoche, mostrati crudelissimi nei mezzi di dare la morte e che lo usano tuttavia in certe provincie, quantunque sia stato soppresso nelle grandi città ove vi sono consoli europei, è stato subito adottato dai turcomanni, dagli afgani e dai belucistani, più feroci degli stessi persiani.

Il gesso, dopo bagnato, come si sa, non tarda a rapprendersi ed espandersi, chiudendo come entro una morsa di ferro l’oggetto che gli si affida. Ognuno può facilmente figurarsi quale pressione deve esercitare su un corpo umano che non può offrire la resistenza del metallo.

Il sangue sotto la formidabile stretta, che aumenta di momento in momento, si arresta, le gambe e le braccia si immobilizzano, le costole cedono, il corpo si schiaccia.

Il disgraziato mestvire che aveva la sola testa fuori dalla massa che gli si serrava addosso, aveva cominciato a urlare spaventosamente. Il suo viso, disfatto da un terrore impossibile a descriversi, si copriva d’un freddo sudore.

Il beg assisteva impassibile all’agonia del miserabile, guardandolo freddamente. Anche gli altri non dimostravano alcuna compassione per le sofferenze atroci del povero suonatore di guzla. Solo Abei Dullah, il nipote del beg, di quando in quando dava in un sussulto.

— Confesserai? — chiese ad un certo momento il vecchio, curvandosi sul moribondo.

Questi gli lanciò uno sguardo carico d’odio, e non aprì le labbra.

— Dell’altra acqua! — disse il beg.

Due altri secchi furono vuotati, insieme ad un altro sacchetto di gesso. Il collo del mestvire fu subito imprigionato ed il suo volto divenne paonazzo.

L’asfissia cominciava.

— Parlerai? — ripetè il beg.

— Sì, — rantolò il moribondo.

— Dove hanno condotto Talmà?

[p. 12 modifica]— A... a... Samar... —

Non finì la frase. Roteò gli occhi all’ingiro, aprì spaventosamente la bocca come per aspirare l’ultima boccata d’aria, poi la testa cadde all’indietro.

L’asfissia lo aveva ucciso.

Note

  1. Il tomano vale 11 lire e 60 cent.
  2. Suonatori ed insieme narratori di leggende turchestane.