Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo IX

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Parte prima — Capitolo IX
Il colpo di testa delle Aquile

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Parte prima — Capitolo IX
Il colpo di testa delle Aquile
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CAPITOLO IX.


Il colpo di testa delle Aquile.


I turchestani non hanno, al pari dei signori e dei feudatari europei, rinunciato alla loro passione per la caccia col falco, perchè gli sconvolgimenti che hanno recato tanti danni nel medio evo, li hanno lasciati perfettamente tranquilli nelle loro steppe.

Essi non contano nella loro istoria un Carlo V, che diede in feudo ai cavalieri di S. Giovanni l’isola di Malta, purchè gli passassero ogni anno un falcone bianco bene ammaestrato; nella loro religione non hanno avuto sacerdoti che si dedicassero come da noi, all’allevamento di quei rapaci volatili, tanto da trascurare le loro pratiche religiose; non hanno avuto di quei baroni inglesi che reclamavano il diritto di collocare i loro falchi sopra gli altari, mentre si celebravano le sacre funzioni; non un Francesco I che aveva un falconiere maggiore, capo di quindici nobili e di cinquanta servi, incaricati delle cure e dell’addestramento dei suoi trecento volatili; nè un Lodovico II che castigava colla pena di morte chiunque rubasse un falco, e con un anno ed un giorno di carcere chi sottraesse un solo uovo da un nido.

Tuttavia tutti i ricchi turchestani, specialmente i beg, i khan e lo sciàh di Persia, hanno una passione estrema pei falchi cacciatori, senza raggiungere le stranezze dei nostri antichi feudatari.

Nell’ammaestramento usano però i medesimi sistemi e adoperano, al par dei nostri antenati, il falcone di passo, eccettuato l’astore, che fa eccezione alla regola e che quantunque nidifichi sul posto si abitua facilmente.

Catturato il volatile, che deve essere sempre un adulto e non già un piccino, per qualche tempo lo lasciano tranquillo su un pezzo di legno piantato nel suolo, non troppo alto, offrendo di [p. 75 modifica]quando in quando qualche piccolo uccello ucciso di fresco o qualche pezzo di montone ancora sanguinante. Sono però così diffidenti e così selvaggi, che per uno o due giorni disdegnano il cibo; ma la fame, quella tremenda fame che doma le tigri ed i leoni, li vince e non esitano più.

Quello è il primo passo. Il falco che comincia a conoscere il suo fornitore, si lascia facilmente collocare sul pugno del falconiere, il quale lo obbliga a restarvi per un certo tempo.

Ordinariamente, quegli uccelli rapaci si arrendono con molta fatica e cercano di gettarsi a terra; ma essendo legati, a poco a poco si abituano, specialmente se si ha cura di privarli del sonno e di trattenerli il più che sia possibile, di notte, alla luce di una lampada. Il falco non tarda allora a riconoscere l’uomo che lo cura e che gli dà da mangiare, anche se lo tiene sul pugno. È sempre questione di appetito.

Solo allora gli si permette di fare qualche volata trattenendolo dapprima con una correggia non più lunga di mezzo metro, costringendolo però a ritornare sul pugno del falconiere.

Ciò ottenuto si sostituisce una funicella di trenta o quaranta e anche più passi ed incomincia il secondo ammaestramento: ossia di partire al fischio e di ritornare al medesimo segnale.

Fino dalle prime lezioni però i turcomanni e anche i persiani, hanno cura soprattutto di abituare i loro falchi alle grida dei cacciatori; ai nitriti dei cavalli ed ai latrati dei cani, onde non si spaventino al momento della caccia e, caso strano, vi si prestano facilmente.

Quando i falchi conoscono ormai il loro falconiere e rispondono alla sua chiamata, tornando sollecitamente sul suo pugno, comincia il secondo periodo d’educazione, ossia di insegnare loro di cacciare al vivo come si dice.

Da principio i falconieri legano per le zampe qualche uccello, che sia piuttosto grosso, poi lo lasciano in libertà, tenendo però sempre il filo in mano ed invitano il falco ad inseguirlo. Questi non si fa quasi mai ripetere l’ordine, parte come un fulmine, raggiunge e ghermisce la preda; bisogna lasciargliela divorare girandogli però intorno e gridando e fischiando onde si abitui a non aver paura e lasciarsi prendere assieme alla vittima.

Un mese ordinariamente di quell’esercizio quotidiano, basta per addestrarlo perfettamente alla caccia libera.

[p. 76 modifica]Allora il falco è pronto a tutto: ad inseguire e prendere i volatili, a cacciare le lepri e anche a misurarsi colle velocissime gazzelle, alle quali strappa gli occhi, tenendole quasi ferme fino all’arrivo dei cavalieri.

La cavalcata, preceduta sempre da Abei che era un falconiere emerito, con Hossein che le cavalcava a fianco, continuava la sua corsa furiosa attraverso la steppa. La bella Talmà si reggeva molto bene in sella, essendo tutte le donne turchestane abilissime cavallerizze ed anche instancabili.

Col suo lungo velo svolazzante, la sua tiara scintillante, il viso animato dal piacere della corsa, gli occhi vivissimi, era davvero bella e si poteva facilmente comprendere come avesse profondamente colpito il cuore di Hossein e forse di qualche altro ancora.

Le gazzelle, spaventate dalle grida dei cavalieri, dal rombo assordante di tutte quelle centinaia di cavalli lanciati a corsa sfrenata e dai latrati furibondi dei veltri, fuggivano disperatamente, balzando come palle di gomma al di sopra delle alte erbe.

Le povere bestie facevano sforzi prodigiosi per mantenere la distanza e vi riuscivano, almeno pel momento, quantunque i magri e agilissimi veltri avessero già sorpassati i cavalli.

Uran!... Uran!... — urlavano sempre ferocemente i cavalieri, sferzando le loro cavalcature. Era una carica furibonda che passava sopra la steppa e che faceva volare le erbe falciate dai robusti zoccoli di tutti quei cavalli.

— Attenti! — disse a un certo punto Abei che dirigeva sempre la caccia. — A te, Talmà!... Lancialo! —

La fanciulla staccò la catenella d’argento, che tratteneva il volatile e alzò il pugno che era coperto da un grosso guanto, mentre Abei lanciava un fischio.

Il rapace uccello allargò le ali, sbattendole tre o quattro volte, poi spiccò la volata, innalzandosi.

— Avanti gli altri! — gridò Abei, mentre liberava il suo.

Quello di Hossein partì come un fulmine, quasi in linea retta, seguito subito da quello di Abei.

I tre volatili muovevano velocissimi addosso alle povere gazzelle, che sembravano smarrite. Anche quello di Talmà era ridisceso e volava in linea quasi retta tenendosi a dieci o dodici metri dal suolo.

[p. 77 modifica]D’un tratto i tre rapaci piombarono, con un accordo perfetto, fra le corna delle povere bestie, fermandole quasi di colpo e facendole cadere sulle ginocchia.

— Bravi, miei piccini! — gridò Abei entusiasmato.

Le povere bestie si dibattevano disperatamente, mandando lamenti dolorosi, i falchi divoravano loro ferocemente gli occhi.

I veltri arrivavano in gruppo serrato, colle lingue penzolanti, precedendo di duecento passi i cavalieri, latrando spaventosamente.

In un lampo furono addosso alle gazzelle, le quali scomparvero alla lettera sotto quella massa di carne.

Abei, Hossein e Talmà, con un ultimo slancio furono però sopra alle feroci bestie, che già lavoravano di denti sulle carni dei poveri animali e con urla e frustate le costrinsero a lasciare le prede.

Era però troppo tardi per salvarle. Giacevano l’una presso l’altra, strangolate, dilaniate, sanguinanti.

Hossein, che era disceso di sella, tagliò un piede alla più grossa e lo porse galantemente a Talmà, dicendole:

— Alla regina della caccia. —

Poi rimontò a cavallo, gridando:

— Il banchetto aspetta i nostri ospiti. —

I falchi, ad un fischio di Abei, erano tornati docilmente, riprendendo i loro posti, sui pugni inguantati.

La cavalcata si era riordinata attorno ai fidanzati, mandando grida formidabili, poi si era nuovamente sciolta, formando gruppi pittoreschi, i quali non tardarono a slanciarsi ventre a terra in direzione della casa di Talmà.

S’avventavano, poi tornavano indietro, facendo fare ai cavalli dei fulminei volteggi, s’incrociavano come se fossero lì lì per impegnare una lotta spaventosa.

Era la fantasia turcomanna, meno bella forse di quella dei barberi dell’Africa settentrionale, ma più impetuosa.

I kangiarri scintillavano in aria, le pistole ed i lunghi moschetti tuonavano, dando l’illusione d’un vero combattimento fra due corpi di cavalleria nemica, mentre echeggiava l’urlo di guerra di quei terribili nomadi: Uran!... Uran!...

E così, sempre volteggiando attorno ai fidanzati ed al vecchio beg, urlando e sparando, il corteo ritornò dinanzi alla casa di [p. 78 modifica]Talmà, dove i cuochi lavoravano e si agitavano dinanzi alle immense caldaie borbottanti e fumanti.

Ognuno smonta e i cavalli vengono legati a gruppi di dieci o quindici intorno alle pertiche, piantate appositamente; poi tutti prendono d’assalto le tavole che si piegano sotto una moltitudine di tondi e di vasi d’argilla.

Agnelli cucinati interi, vengono portati su grandi lastre di rame e fatti subito a pezzi e subito divorati, mentre veri torrenti di khoumis inebbriante e fiumi di latte di cammella scorrono.

Tutti vanno a gara per dimostrare la potenza dei loro ventricoli. È carne gratuita quella e simili baldorie non succedono di frequente e ne approfittano.

Il beg è ricchissimo, la bella Talmà ha mandrie numerose di cammelli e di montoni, possono quindi pagarsi il lusso di sfamare almeno una volta i poveri nomadi della steppa, che tribolano trecento giorni dell’anno su trecentosessantacinque.

Mentre tutte quelle possenti mascelle triturano carne ed ossa, con un crescendo spaventevole e le pentole e le caldaie si vuotano a vista d’occhio, una banda di suonatori passa attraverso le immense tavole, allietando gli orecchi coi dolcissimi suoni delle guzle.

Alla testa di quei suonatori, sbucati chi sa da dove, vi è il mestvire. Il briccone che ha già mangiato e bevuto copiosamente ad una tavola appartata, sembra allegro e dardeggia di quando in quando uno sguardo ardente sulla bella Talmà, che è seduta a fianco d’Hossein, sotto una specie di padiglione di stoffa rossa e gialla, adorno di nastri molticolori, che il vento fa svolazzare capricciosamente.

Suona e canta nel medesimo tempo, guidando la sua piccola truppa, formata da una diecina di brutti figuri barbuti, che hanno più l’aspetto di briganti che di cantastorie.

Mancava un’ora al tramonto, quando Talmà, Hossein ed il beg si alzarono rientrando in casa.

Era il segnale della fine del banchetto e della celebrazione del matrimonio. Abei era rimasto seduto alla tavola: di fronte a lui si era fermato il mestvire, fingendo di accordare la sua guzla.

Il nipote del beg ed il bandito si scambiarono un lungo sguardo, poi un rapido cenno, quindi il secondo s’allontanò velocemente, intanto che i suoi compagni, approfittando della confusione [p. 79 modifica]che regnava, si sbandavano scomparendo fra le alte erbe della steppa.

I convitati, vuotata un’ultima tazza di khumis, si erano affrettati a raggiungere i loro cavalli dovendo scortare gli sposi e si erano disposti su due lunghissime file, una a destra e l’altra a sinistra della porta principale della casa.

Tutto d’un tratto un grido altissimo s’alzò, perdendosi lontano lontano nella steppa sconfinata:

— Viva gli sposi! —

Talmà era ricomparsa sulla bianca cavalla, sotto un nuovo velo di seta trapunto in oro che copriva quasi tutta la parte posteriore del suo bellissimo animale.

Teneva fra le braccia un agnellino dalla lana candidissima, ucciso pochi momenti prima e adorno di nastri di seta a varie tinte.

Si fermò un momento a guardare i cavalieri, poi lanciò la sua cavalla a corsa sfrenata attraverso la steppa, tenendosi ben stretto al seno l’agnellino.

Pochi momenti dopo Hossein usciva a sua volta, montando il suo splendido cavallo e si lanciava sulle tracce della fidanzata, seguito dal beg, da suo cugino e da Tabriz, gridando con voce stentorea:

— Amici, aiutatemi a raggiungerla!... La mia stella fugge!...

— Eccoci! — urlarono in coro i cavalieri, snudando i kangiarri, — Uran!... Uran!... —

Non era che una commedia, poichè Talmà non aveva nessuna voglia di fuggire al suo valoroso fidanzato: ma così doveva fare, poichè nelle cerimonie nuziali si deve sempre simulare il rapimento della fidanzata.

Il ratto della sposa figura sempre presso tutte le tribù turcomanne e anche afgane e belucistane.

I Sarti si limitano a dare la caccia alla sposa e strapparle l’agnello che porta con sè.

Presso altre tribù turaniche invece, s’impegnano delle vere lotte per strappare la sposa dalla sua tenda.

Il giorno fissato pel matrimonio il fidanzato, seguito dai suoi più fedeli amici armati come se dovessero andare alla guerra, si presenta dinanzi alla tenda della fidanzata intimando imperiosamente ai genitori di lei di consegnargli la sua futura sposa, se non vogliono provare la buona tempra delle sue armi.

[p. 80 modifica]La giovine si trova già seduta nel mezzo della tenda, colle sue più belle vesti, circondata dalle sue amiche e dai suoi parenti.

La prima risposta è un rifiuto netto, ma il fidanzato, spalleggiato dagli amici entra a forza e ripete la domanda. Seguono discussioni animate, poi da una parte e dall’altra vengono alle mani; talvolta scorre perfino del sangue, però il fidanzato finisce sempre per vincere ed a portarsi via la fidanzata, malgrado la resistenza che essa finge di opporre.

I suoi amici la gettano su un tappeto, che quattro robusti garzoni sorreggono e fuggono, protetti dai cavalieri, i quali hanno non poco da fare a difendersi dai colpi di pietra e dai pugni di terra, che scagliano dietro a loro le amiche ed i parenti della sposa.

E tutto non finisce sempre lì pel povero innamorato, perchè presso alcune tribù, dopo pochi giorni di luna di miele, la sposa deve fingere una nuova fuga, rifugiandosi presso i suoi parenti più prossimi, dove si ferma talvolta perfino un anno, mentre il marito prende parte ad arrischiate scorrerie, per poter accumulare tanto da riscattare la moglie, quando non rimane fra i morti sul campo di battaglia.

La bella Talmà, che, come abbiamo detto, cavalcava superbamente, faceva galoppare la sua bianca cavalla, allontanandosi nella steppa e aizzandola colla voce e colla frusta dal manico cortissimo.

Rideva forte e di quando in quando si volgeva a guardare l’immensa turba dei cavalieri che galoppava sfrenatamente sulle sue tracce, urlando e sparando, preceduta da Hossein, dal beg e da Abei.

La giovine aveva già percorsi tre o quattro chilometri, avanzandosi sempre nella pianura, quando la sua cavalla fece uno scarto improvviso, poi stramazzò pesantemente fra le erbe, sbalzandola di sella.

Talmà mandò un grido, poi rimase distesa, mezza svenuta.

Quasi nel medesimo istante dieci o dodici uomini, guidati da Hadgi, il luogotenente del mestvire, sorsero fra le erbe altissime, gettandosi su di lei.

— I cavalli! — gridò il luogotenente, afferrando la fanciulla. — Presto!... —

I banditi mandarono alcuni fischi stridenti e dodici cavalli, di forme vigorose, sorsero come per incanto fra le erbe, dove fino allora erano rimasti coricati e nascosti.

[p. 83 modifica]Hadgi si slanciò verso il più vicino, tenendo tra le braccia Talmà che non era ancora tornata in sè, ed aiutato da uno dei suoi uomini, salì in arcione, gridando:

— Via!... Lasciate la corda! —

I banditi erano partiti ventre a terra dietro al luogotenente, mentre urla terribili s’alzavano fra i cavalieri del beg:

— Ferma!... Ferma! —

Alcuni spari rintronarono senza colpire i rapitori, i quali erano ormai troppo lontani.

Hossein, pallido, smarrito, cacciò gli sproni nel ventre del suo persiano, facendogli fare dei balzi immensi.

— Talmà!... Mia Talmà! — urlava con angoscia. — Miserabili!... Fermatevi o vi uccido tutti! —

I cinque o seicento cavalieri si erano messi in caccia, sferzando rabbiosamente i loro cavalli, i quali ormai stanchi dalla fantasia fatta prima del banchetto, non potevano competere con quelli freschi e ben riposati dei banditi.

D’improvviso, i cavalli di Hossein, del vecchio beg, di Abei e di Tabriz, che erano giunti nel medesimo luogo ove Talmà era stata sbalzata di sella, a loro volta stramazzarono, scaraventando a destra ed a sinistra i loro cavalieri.

Gli altri, che giungevano in gruppo serrato, non fecero in tempo a frenarsi e andarono a catafascio fra una confusione indicibile.

Per alcuni minuti fu un dibattersi spaventevole di uomini e di cavalli, fra urla, bestemmie e nitriti: gli animali, spaventati, appena in piedi si davano a una corsa disperata attraverso la steppa, fuggendo in diverse direzioni; i cavalieri, sagrando, si alzavano, tastandosi le costole ammaccate.

Parecchi perdevano sangue dal naso, altri zoppicavano, avendo ricevuto dai cavalli dei calci poderosi. Grida ed imprecazioni s’incrociavano:

— Canaglie!...

— Banditi!...

— Ci hanno giuocati!...

— Hanno tese delle corde sotto le erbe!...

— Furfanti!...

— E scappano!...

— Diamo loro la caccia!...

[p. 84 modifica]— A cavallo! — tuonò in quel momento una voce.

Era Hossein. Il bravo giovine, quantunque fosse stato scaraventato a dieci passi dal suo cavallo, non aveva riportata alcuna ferita essendo le erbe, in quel luogo, altissime e anche foltissime.

Venti o trenta uomini, quasi tutti Sarti, quindi fedelissimi, che avevano potuto trattenere a tempo i loro cavalli, avevano risposto prontamente all’appello.

— Eccoci, signore!...

— Diamo addosso a quei banditi! — gridò Hossein, che pareva impazzito. — Su, in sella, avanti senza tregua!...

La mia Talmà!... Bisogna che li uccida tutti!... A me, Tabriz! —

Il gigante era già in piedi; ma appena montato in sella il suo persiano gli era caduto sotto, mandando un nitrito doloroso.

— Signore, non posso! — esclamò con terrore. — Il mio povero animale si è spezzato le gambe anteriori.

— A me, zio!... A me, Abei! — gridò Hossein. — Distruggiamo quei miserabili! —

Il beg aveva fatto un gesto disperato. Il suo cavallo al pari di quello di Tabriz si era rotte le gambe nella caduta.

— Avanti, nipoti! — gridò poi.

I venticinque o trenta cavalieri si slanciarono dietro Hossein, urlando ferocemente: — Ammazza!... Ammazza!. —

Ma le Aquile della steppa erano troppo lontane, per avere qualche speranza di raggiungerle.

Approfittando di quel colpo maestro, dovuto a parecchie funi tese abilmente un po’ al di sotto delle cime delle erbe, i banditi avevano ormai guadagnato più d’un chilometro e filavano, a corsa sfrenata, attraverso la steppa infinita, risalendo verso il settentrione.

— Abei, — disse il beg, vedendo che non era ancora salito in arcione, — che cosa fai? —

Il giovine stava per rispondere, quando alcune scariche risuonarono in lontananza.

— Padre; — disse Abei, — assalgono i Sarti!... Andiamo a dare una lezione a quelle canaglie, così mio cugino non avrà nemici alle spalle. Sbarazziamogli la via.

— Un doppio attacco, — mormorò il beg, mentre i suoi occhi avvampavano d’ira. — Ah!.. È troppo!... Bisognerà sterminare quei banditi!... Tabriz, un cavallo!... —