Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo XVI

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Parte prima — Capitolo XVI
Il rifugio dei banditi

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CAPITOLO XVI.


Il rifugio dei banditi.


Mentre Abei, colla sua piccola scorta, galoppava verso la catena dei Kasret-Sultan-Geb, per raggiungere la caverna, dove si trovavano rifugiate le Aquile della steppa, Kitab assalita sempre vigorosamente dalle due colonne d’assalto del colonnello Miklalovsky a poco a poco cadeva.

Una larga breccia era già stata aperta a fianco della porta di Ravatak ed i cannoni della torre, tutti smontati, non potevano più far nulla.

Era dunque quello il buon momento per dare il colpo supremo alle orde dei Shagrissiabs.

Questi che si erano ammassati sulle terrazze e sulle mura, non avevano indugiato ad aprire un fuoco vivissimo coi loro moschettoni, non potendo contare che sull’appoggio di pochi falconetti e di qualche racchetta, ancora piazzati sui ridotti della cittadella.

Malgrado quella pioggia di palle, i russi piantarono le loro scale, alcune sulla breccia, altre sulla muraglia e sui parapetti, montando lestamente all’assalto.

I Shagrissiabs, che si erano radunati in buon numero sulla cresta della cinta, già sgomentati per la perdita della loro artiglieria, al primo apparire delle baionette russe, si erano dati alla fuga attraverso i giardini urlando a squarciagola:

— Il nemico!... Il nemico!... Si salvi chi può! —

Secondo le istruzioni ricevute, le due colonne d’assalto, appena superata la cinta, si erano subito messe in marcia verso la cittadella sui cui ridotti i falconetti sparavano ancora.

Una frazione però aveva dato la scalata alla torre di Ravatak ed aveva rovesciato nel fossato i due cannoni che la difendevano.

Le due colonne, dato fuoco ad alcune capanne per illuminare la via, avevano continuata la loro marcia, rinforzate dalla riserva che l’avevano in quel frattempo raggiunta.

I Shagrissiabs nascosti nelle strette vie che dividevano i giardini racchiusi fra le due cinte, pur fuggendo, non cessavano di far fuoco. Anche i ridotti non erano diventati ancora muti.

Il generale Abramow, frettoloso di finirla, lanciò allora [p. 147 modifica]all’assalto una terza colonna, coll’ordine d’impadronirsi della seconda cinta e di entrare nelle vie della città.

Un quarto d’ora dopo i russi superavano anche quella muraglia senza aver incontrato molta resistenza, quantunque Djura bey e Baba, il beg di Schaar, disponessero ancora di circa ottomila uomini fra fanti e cavalieri.

Le colonne, compiuta la loro riunione, s’avanzarono allora senza por tempo in mezzo, verso la terza cinta.

Le vie strette dei giardini erano piene di Shagrissiabs fuggiaschi, coi quali i russi dovettero impegnare delle accanite lotte a corpo a corpo, e giunta la colonna ad un crocivio, fecero alto, incendiando varii mucchi di fieno.

Appena sorto il sole, le truppe moscovite, con pochi colpi di granata, sfondavano le ultime difese.

I Shagrissiabs s’erano riuniti nella torre vicina all’ultima breccia, aprendo nuovamente un fuoco intensissimo e micidiale, ciò che obbligò il generale Abramow a farla prender d’assalto, con non poca fatica, poichè gli assediati non volevano cedere.

La cittadella nel frattempo era stata abbandonata dai due beg e dai loro artiglieri. Vistisi ormai perduti, avventarono sui russi la loro cavalleria e anche quel supremo sforzo non ebbe che un esito infelice.

Alle otto del mattino tutta Kitab era nelle mani dei russi ed i Shagrissiabs facevano atto di sottomissione, esempio che fu subito seguito anche dalla guarnigione di Schaar.

L’assalto era costato ai Shagrissiabs più di seicento morti, ma non si potè sapere il numero dei feriti; ai russi diciannove soli morti, fra cui un ufficiale e cento e due feriti, fra i quali un generale, quattro ufficiali superiori e tre inferiori.

Furono trofei della vittoria quattro stendardi, ventinove cannoni ed un gran numero di falconetti e d’armi da taglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Abei intanto continuava la sua corsa, non essendo stato più inquietato dai russi nascosti nei burroni e che d’altronde, non possedendo ottimi cavalli, non avrebbero potuto dargli la caccia.

I banditi di Hadgi, praticissimi della regione, si erano messi alla testa del drappello, il quale si componeva quasi esclusivamente di Sarti, ossia di amici fedelissimi di Talmà, pronti a qualunque sbaraglio pur di liberare la loro signora.

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La frontiera della Tartara chinese, o meglio della Duzungaria, non era lontana.

I cavalli, da due giorni ben riposati, divoravano d’altronde le miglia, col medesimo slancio impetuoso, senza dar segno di stanchezza.

A mezzodì il drappello saliva già i primi contrafforti, che erano coperti da folte foreste, per la maggior parte da macchie immense di querce, di cedri selvatici, di pini e di ginepri sopra i quali si vedevano volteggiare in gran numero aquile d’Astrakan, falconi, merops e sparvieri.

Giunto ad una certa altezza, dove si cominciava a scorgere un sentiero serpeggiante attraverso ad un burrone, i banditi si erano fermati, guardando Abei.

Questi aveva subito compreso che non dovevano trovarsi lontano dal rifugio delle Aquile e che era giunto il momento di prendere delle precauzioni, onde i Sarti non potessero accorgersi della sua intesa coi rapitori di Talmà.

— Amici, — disse, alzando la voce e volgendosi verso i Sarti che stavano caricando i loro moschettoni, fingendosi in preda ad una profonda commozione, — mio cugino è caduto sotto il piombo dei russi, ma io ho giurato al beg, mio zio, di condurre a buon fine l’impresa che ci ha spinti lontani dalla steppa.

La mia vita appartiene a Talmà, la vostra signora, ed io non tornerò al di là dell’Amu-Darja, senza quella povera fanciulla.

Siete sempre decisi ad aiutarmi?

— Siamo pronti a morire, — risposero i Sarti ad una voce.

— Questi uomini, che ci hanno guidato fino qui, — riprese Abei, — sanno ove si sono rifugiate le Aquile e dove Talmà è stata condotta. Accomodatevi qui e aspettate il mio ritorno.

— Signore, — disse un vecchio Sarto dalla lunga barba grigia, — dove vai tu? Non esporre la tua vita senza che noi ti scortiamo.

Il beg tuo zio ti ha affidato a noi e dobbiamo proteggerti.

— Non farò che una ricognizione, che giudico necessaria, — rispose Abei. — Siamo in numero troppo esiguo ormai per tentare un assalto diretto contro quei banditi e dovremo ricorrere ad una sorpresa, se vorremo liberare Talmà.

Non inquietatevi quindi per me e aspettate senza ansie il mio ritorno. —

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I Sarti, completamente rassicurati dalle parole del nipote del beg, discesero da cavallo, accampandosi in mezzo ad una folta macchia di colossali platani.

Allentò le briglie e riprese la salita, scortato dai banditi.

Oltrepassato il burrone che si estendeva per qualche miglio, fiancheggiato da altissime querce, i cavalieri si trovarono improvvisamente dinanzi ad un gruppo di uomini barbuti, con immensi turbanti sul capo e armati di fucili, di pistole e di kangiarri, che diedero l’alt con voce minacciosa.

— Giù le armi, — disse uno dei banditi della scorta, facendo un segno. — Annunciate il capo Abei Dullah, nipote del beg Giah Aghà. —

Gli archibugi, che erano già stati puntati, furono subito abbassati, gli uomini s’inchinarono profondamente ed i cavalieri continuarono a salire il sentiero fermandosi dinanzi ad un’alta parete rocciosa che mostrava alla sua base un largo crepaccio.

Altri banditi erano comparsi, sorgendo fra i cespugli che coprivano la base della muraglia, puntando anche essi i fucili: poi scorgendo i loro camerati che scortavano Abei, si erano subito messi in posizione d’attenti.

— Andate a chiamare il capo, — disse uno della scorta, mentre Abei scendeva da cavallo e si gettava dietro una macchia d’astrogolli, per timore di venire scorto da Talmà.

Pochi momenti dopo Hadgi usciva dalla caverna e raggiungeva Abei, che si era seduto su un masso.

— Cominciavo ad inquietarmi del tuo ritardo, signore, — disse il bandito, facendo un goffo inchino. — Ho udito tutta la notte a rombare il cannone a Kitab.

L’hanno presa?

— Credo che ormai tutto sia finito per Djura bey, — rispose Abei. — E Talmà?

— È nella caverna, strettamente sorvegliata. Comincia ad annoiarsi quella fanciulla; non fa che piangere.

— M’incarico io di consolarla.

— E tuo cugino, signore? Dove l’hai lasciato?

— I russi l’hanno ucciso insieme a Tabriz.

— Ne sei bene sicuro? Io ho più paura di quei due uomini, che di tutti i Shagrissiabs di Djura bey.

— Io non ho potuto bene accertarmi se Hossein sia proprio [p. 150 modifica]morto, perchè i russi non me ne hanno lasciato il tempo. L’ho visto cadere, assieme a Tabriz, colpiti entrambi alle spalle...

— Alle spalle! — esclamò Hadgi, guardando maliziosamente Abei. — Da palle di piombo o da palle rivestite di rame?

— Non occuparti di ciò, — disse Abei, seccato.

— E se fossero stati solamente feriti?

— I russi non ischerzano colle spie: le deportano nelle steppe del Don o le fucilano.

— Non ti comprendo, signore.

— Ho fatto scivolare ieri sera, nella fascia di mio cugino, delle lettere compromettenti. Non sono uno sciocco io.

— Anzi, un uomo meraviglioso, — disse il bandito, con sincera ammirazione.

— Basta, lasciamo i morti e occupiamoci dei vivi. Hai preparato il tuo piano? Ricordati che io devo comparire come un salvatore, o tutto l’edificio che ho innalzato con tanta pazienza e tanta abilità, andrà a catafascio, insieme ai tomani che devo sborsarti.

— Tu hai una scorta, — rispose il bandito, dopo qualche istante di riflessione, — è vero?

— Una quindicina d’uomini.

— Io farò credere a Talmà che devo assentarmi colla maggior parte dei miei banditi per accorrere in aiuto di Kitab e non lascerò che una diecina d’uomini a guardia della caverna.

Questa sera tu darai l’attacco, i miei, alle prime fucilate, scapperanno come lepri, per un passaggio che è noto solo a noi e ti prenderai la fanciulla.

Che cosa vuoi di più semplice?

— Sei furbo.

— I tomani, ora, signore, perchè noi non ci rivedremo forse mai più.

Ritorno nella steppa della fame e non ripasserò, per parecchi anni di certo la frontiera di Bukara... —

Abei si tolse dall’ampia fascia due carte e le consegnò al bandito.

— Una per te, una per la famiglia del mestvire. Presentati a Jurtschi Omar, banchiere a Samarcanda e ti verrà subito versata la somma. Egli è già stato avvertito da parecchie settimane.

— Grazie, mio signore.

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— Sii leale colla famiglia del povero mestvire.

— Giuro sul Corano che non mancherò di versarle fino all’ultimo tomano. Addio, signore, questa sera io sarò ben lontano. —

Abei lo congedò con un gesto, raggiunse il cavallo e ridiscese verso il campo, sempre seguito dai banditi che l’avevano fino allora scortato.

I Sarti lo aspettavano, in preda ad una vivissima ansietà, colle armi in mano, temendo qualche improvviso attacco da parte delle Aquile.

— Accampatevi pure, amici, — disse loro Abei, smontando. — Sono riuscito a scoprire il rifugio dei banditi e quello che maggiormente ci interessa, ho anche saputo da un pastore che quasi tutte le Aquile hanno lasciato queste montagne per accorrere in aiuto dei Shagrissiabs di Schaar e che solo un piccolissimo drappello veglia su Talmà.

— Signore, — disse un vecchio Sarto, che pareva esercitasse una certa influenza sui suoi compagni, — se è vero quello che ti hanno raccontato, partiamo subito, invadiamo la caverna e facciamo a pezzi quei miserabili.

— No, — rispose Abei, con voce ferma, — aspetteremo questa sera per sorprenderli.

— Tuo zio, il beg, non avrebbe esitato un solo istante. Abei aggrottò la fronte.

— Sono sì o no il capo io? - rispose poi. — Sono io che comando ora e non già il beg mio zio.

Accampatevi e lasciatemi riposare. So bene quello che faccio. —

Levò al proprio cavallo le briglie e la sella, onde potesse pascolare liberamente; stritolò una galletta di granoturco che uno dei banditi gli aveva offerto e andò a sdraiarsi all’ombra d’un platano, mentre i superstiti della scorta, vedendolo così tranquillo s’affrettavano ad imitarlo, in attesa di menar poderosamente le mani contro le Aquile.

Nessun avvenimento turbò il loro riposo. Quando il sole fu prossimo al tramonto, Abei, che aveva sempre dormito o forse aveva voluto farlo credere, si alzò e dopo d’aver insellato il cavallo disse:

— Avanti, amici: il momento è giunto di riprenderci una buona rivincita. Pensate che la liberazione di Talmà, la vostra signora, dipende dal vostro valore.

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— Siamo pronti, signore, a dare la vita per la padrona, — rispose ad una voce la scorta.

— Seguitemi dunque: è il nipote di Giah Aghà che vi guida, — gridò Abei sfoderando il kangiarro.

— Sono cariche le vostre armi?

— Sì, signore!...

— Avanti, cavalieri della steppa! —

Si misero a salire la montagna, seguendo un sentieruzzo che era fiancheggiato da folte piante, le quali nascondevano completamente uomini e cavalli. D’altronde l’oscurità era diventata profondissima, essendosi steso al di sopra delle montagne un denso velo nebbioso.

Il drappello, giunto a tre o quattrocento passi dall’entrata della caverna, si arrestò e gli uomini saltarono a terra onde poter avvicinarsi inosservati e sorprendere i banditi, che forse, ritenendosi perfettamente sicuri fra quelle aspre montagne, non vegliavano.

— Signore, — disse un Sarto, rivolgendosi ad Abei. — Attaccheremo a fondo o assedieremo i banditi?

— È necessario prendere la caverna d’assalto, — rispose il nipote del beg. — I banditi che si sono recati a Schaar potrebbero ritornare e sorprendere invece noi.

Seguitemi e appena saremo dinanzi al rifugio fate fuoco, e poi avanti coi kangiarri. —

Si spinsero innanzi, tenendosi nascosti fra le piante e procedendo curvi.

Abei ed i banditi che lo avevano scortato, camminavano in testa a tutti, non desiderando questi ultimi separarsi dai loro camerati.

Erano giunti ad una trentina di metri dalla caverna, quando si udì una voce a gridare:

— All’armi!...

— Sotto, amici! — comandò Abei, slanciandosi innanzi.

I Sarti, in pochi salti, superarono la distanza, fecero fuoco attraverso la fenditura, poi s’avventarono risolutamente innanzi coi Kangiarri e le pistole.

Nella caverna si udirono alcuni spari, poi delle grida che pareva si allontanassero rapidamente.

Abei stava per guidare i suoi uomini entro il rifugio, quando una voce che gli fece battere il cuore lo arrestò:

— Non fate fuoco, amici!...

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— Talmà! — esclamò Abei.

— Sì... sono io... cognato! — rispose la fanciulla, correndogli incontro.

— I banditi?

— Fuggiti tutti!...

— Viva la nostra signora! — gridarono i Sarti, circondandola.

— E Hossein? — chiese con angoscia Talmà. — Perchè non è qui?

— È presso il beg, — rispose Abei. — Una ferita lo ha costretto a ritornare con Tabriz.

— Lui ferito!...

— È nulla, sorellina. Un semplice colpo di baionetta ad un braccio, datogli da un russo durante l’assalto di Kitab.

Quando giungeremo nella tua steppa sarà guarito. A cavallo Talmà. Fra due giorni saremo alla tua casa. Tornarono frettolosamente là dove avevano lasciati i cavalli, e pochi momenti dopo il drappello scendeva frettolosamente la montagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Verso il tramonto del secondo giorno Abei, che aveva preceduto la scorta di qualche miglio, lasciando Talmà sotto la protezione dei Sarti, entrava nella tenda del beg, che era stata alzata di fronte alla casa della signora della steppa.

— Padre, — disse al vecchio, fingendo di asciugare due lagrime, — ti riconduco Talmà, che io ho strappata ai banditi; ma devo annunciarti che tu ormai non hai più che un figlio solo che rallegri, se lo potrà, la tua vecchiaia. —

Giah Aghà, udendo quelle parole, si fece pallidissimo e si slanciò verso il nipote, afferrandolo per le braccia:

— Hossein! — gridò, con un singhiozzo.

— È morto assieme a Tabriz sotto le mura di Kitab. Il piombo maledetto dei moscoviti ha ucciso entrambi. —

Il vecchio beg si era tenuto per alcuni istanti ritto, cogli occhi sbarrati, il viso sconvolto da un dolore intenso, poi si era lasciato cadere su uno dei divani che circondavano la tenda, scoppiando in singhiozzi.

— Padre, — disse Abei, — tu hai perduto un figlio, ma potrai ancora avere una figlia perchè Talmà è viva e salva.

Se tu lo vorrai, surrogherò mio cugino e avrai una famiglia.

— Sì, — mormorò il beg.