Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo II

Da Wikisource.
Parte seconda — Capitolo II
Il tradimento d’Abei

../Capitolo I ../Capitolo III IncludiIntestazione 16 giugno 2013 100% Romanzi

Parte seconda - Capitolo I Parte seconda - Capitolo III
[p. 165 modifica]

CAPITOLO II.


Il tradimento d’Abei.


Non fu che dopo tre giorni di febbre intensissima, accompagnata da frequenti accessi di delirio, durante i quali non faceva che invocare, con voce straziante, Talmà, che Hossein potè finalmente riconoscere il suo fedele turchestano.

Lo stupore del povero giovane fu tale, nel vedersi quasi accanto, [p. 166 modifica]ancora però sdraiato, il gigante, che credette dapprima di essere ancora in preda al delirio.

Tabriz, vedendo che lo guardava cogli occhi sbarrati, senza parlare, aveva indovinato subito ciò che passava attraverso il cervello di Hossein.

— Non t’inganni, mio signore, sono proprio io, il tuo fedele servo — disse il gigante. — Come stai? Meglio di ieri di certo, a quanto mi sembra.

Possiamo dire di essere scampati alla morte per un pelo di cammello.

— Tabriz!.... Tu! — esclamò Hossein.

— Parla sottovoce, mio signore od il capitano medico ti proibirà di aprire la bocca.

Sei ancora troppo debole.

— Che cosa è successo? Che cosa fai tu, li? Dove siamo noi? V’è nel mio cervello una confusione inestricabile.

— Sono accadute certe cose, mio signore, che è meglio che tu le ignori per ora, — rispose Tabriz con voce sorda. — Tu vuoi sapere dove siamo? In un ospedale da campo dei moscoviti, sotto le mura di Kitab.

— E allora?....

— Taci, mio signore, non nominarla. Tu non devi pensare alla fanciulla per ora; ti basti sapere che oramai conosco la persona che assoldò le Aquile della steppa.

Le nostre due ferite mi hanno aperto gli occhi.

— Che cosa vuoi dire Tabriz?

— Che noi non siamo caduti sotto il piombo dei moscoviti.

Un miserabile ci ha colpiti a tradimento alle spalle e quel miserabile era un turchestano al pari di noi.

— Chi? Tu conosci il suo nome?

— Sì, padrone, ma non te lo dirò fino a che non sarai perfettamente guarito. —

Poi abbassando la voce, in modo da non poter essere udito dai feriti che occupavano gli altri letti e che erano tutti russi gli chiese:

— Padrone, avevi dei documenti tu, nella tua fascia?

— Io!.... Nessuno, Tabriz. —

Il gigante si era fatto smorto.

[p. 167 modifica]

— Qualche altro tradimento? — si chiese poscia, aggrottando a più riprese la fronte e tirandosi rabbiosamente la barba.

Il dottore li guardò in un certo modo che sembrava dire: vi terrò d’occhio.

— E dunque, Tabriz? — Chiese Hossein vedendo che il gigante rimaneva muto.

— Quando il capitano medico ti ha levata la fascia ti sono cadute delle carte, signore.

— Non è possibile: io non ne avevo in dosso. Vado alla guerra col kangiarro io e non munito di pezzi di carta.

— Sarà come tu dici, mio signore, — disse Tabriz, vedendolo inquietarsi. — Mi sarò ingannato.

Silenzio, signore: ecco il capitano. —

Il capitano era entrato seguito da alcuni infermieri e vedendo Hossein col capo curvo dalla parte di Tabriz, gli aveva subito piantato addosso gli occhi assumendo un’aria poco benigna.

— Come state, giovanotto? — gli chiese poscia, con accento ruvido.

Lo dicevo che non sareste morto.

— Mercè le vostre cure però e la vostra abilità, — rispose cortesemente Hossein. — Mio zio, il beg Giah Aghà, vi sarà riconoscente, signore.

— Chi lo sa! — disse il capitano, con un certo imbarazzo. — Badate che voi ed il vostro compagno siete in istato d’arresto.

— Come prigionieri di guerra?

— Ah!.... Questo non lo so. Silenzio, non parlate troppo.

La vostra febbre non è cessata. Occorre riposo assoluto a bocca chiusa. Poi, volgendosi verso Tabriz, aggiunse:

— Tu fra un paio di giorni potrai alzarti. Hai una fibra meravigliosa, mio caro. —

Poi, senza attendere la risposta del gigante, passò oltre, visitando rapidamente gli altri ammalati.

Era appena uscito quando due cosacchi, armati di fucile, andarono a collocarsi presso i due letti occupati da Hossein e da Tabriz.

— Ecco le nostre guardie, — disse il gigante, che era ridiventato inquietissimo.

[p. 168 modifica]

— Silenzio, — disse uno dei due soldati con un tono da non ammettere replica. — Abbiamo l’ordine d’impedirvi di parlare.

— Di parlare! — ripetè l’altro come un’eco fedele.

Tabriz rispose con una specie di grugnito e si cacciò sotto le coperte mentre Hossein faceva altrettanto.

Sei giorni trascorsero, durante i quali i due cosacchi vigilarono costantemente per turno sui due feriti. Tabriz era già guarito, ma non aveva potuto avere il permesso di mettere i piedi fuori dalla tenda-ospedale, nè di poter scambiare una parola col suo giovane padrone.

La sorveglianza era diventata così stretta attorno al gigante da non poter fare un passo.

— Capitano, — disse il sesto giorno Hossein, vedendo entrare il russo, — mi pare che sia tempo di lasciare il letto.

La ferita si rimargina rapidamente ed il riposo non è fatto per gli uomini della steppa.

— Fate pure — rispose il russo, voltandogli le spalle.

Tabriz era accorso per aiutare il suo padrone a vestirsi, ma il cosacco, che lo seguiva come la sua ombra, fu lesto a fermarlo, dicendogli:

— Siete prigioniero. —

Il gigante inarcò le braccia e strinse le pugna, pronto a fulminare il panduro del Don. Uno sguardo imperioso di Hossein lo arrestò, prima che quei possenti muscoli si stendessero.

— Un momento di ritardo e tu eri morto, — disse, digrignando i denti. — Che cosa si vuole da me?

Un drappello di soldati era nel frattempo entrato. Tutti avevano le baionette inastate e parevano pronti a farne uso, in caso di resistenza.

— Signore, — disse il gigante, che pareva furibondo. — Devo buttar giù questi imbecilli?

— Non muovere un dito, — rispose Hossein, che aveva finito di vestirsi coll’aiuto di un infermiere. — Vediamo di che cosa ci accusano questi moscoviti.

Un prigioniero di guerra non è un bandito della steppa. Il sergente, che li aveva raccolti sul campo di battaglia, aveva assunto il comando del drappello, dicendo ai due turchestani:

— Dovete seguirci: vi consiglio di rimanere tranquilli perchè ho l’ordine di farvi fuoco addosso, in caso di ribellione.

[p. 169 modifica]

Spero che tutto finirà bene per voi, miei poveri ragazzi!

— E di che cosa ci si accusa? — disse Hossein. — Di aver cercato di lasciare Kitab prima che venisse presa, non desiderando noi immischiarci negli affari di Diura-beg e di Baba-bey?

— Ah!.... Io non lo so, signor mio. Andiamo: al maggiore non piacciono i ritardi. —

I cosacchi presero in mezzo Tabriz e Hossein e lasciarono la tenda-ospedale, conducendoli in un’altra più piccola, che si trovava in mezzo ad un giardino, all’ombra di un platano gigantesco e dinanzi alla quale vegliava un soldato del 6° battaglione di linea del Turchestan.

Nell’interno non vi erano che due persone sedute dinanzi a un tavolo.

Uno era un maggiore russo, piuttosto attempato, con una barba rossiccia e già brizzolata ed il petto coperto di decorazioni.

L’altro invece era un bukarino, qualche pezzo grosso dell’Emiro, a giudicarlo dall’ampio turbante verde che gli copriva il capo, dai ricami d’oro che ornavano la sua casacca e dalla ricchezza del suo kangiarro e della sua scimitarra.

Il maggiore, che stava fumando un grosso sigaro, vedendo entrare i due prigionieri, fissò i suoi occhi grigiastri e ancora vivissimi su Hossein.

— Tu sei? — gli chiese, dopo alcuni istanti di silenzio.

— Il nipote del beg Giah Aghà, — rispose il giovane.

— Lo conoscete? — chiese il maggiore volgendosi verso il rappresentante dell’Emiro di Bukara.

— Sì, Giah Aghà è uno dei più noti e de’ più ricchi beg della steppa occidentale, — rispose il buccaro. — Ha dato anzi molto filo da torcere al mio signore, alcuni anni sono.

— Un pericoloso allora.

— Lo credo.

— Suo nipote non lo sarà meno dunque.

— Certo.

— Correte, a quanto pare, nel giudicare, — disse Hossein ironicamente.

— Nega di aver combattuto contro di noi, se l’osi, — disse il maggiore. — Sei caduto dinanzi al battaglione che io comandava.

— Non dico il contrario, — rispose Hossein, — ma mi preme dirvi, maggiore, che io non volevo misurarmi coi moscoviti, non [p. 170 modifica]essendomi mai interessato nè degli affari di Djura-Beg, nè di quelli dell’Emiro.

Io fuggiva colla mia scorta onde dare battaglia ad una banda di Aquile, che mi avevano rapita la fidanzata.

— Là!.... Là! — fece il maggiore, con un sorriso beffardo.

— Non sono un ragazzo io per bere simili istorie.

Una vampa d’ira salì in viso al fiero nipote del beg, mentre Tabriz faceva come una mossa per slanciarsi sui due uomini e fulminarli con due tremendi pugni.

— Io non ho mai mentito, maggiore, — gridò Hossein. — Non sono un bandito, nè un predone della steppa io!.... Mio padre era un principe!

— Io dico che tu sei venuto qui con un’altra missione e ne ho le prove, — disse il russo.

— Quale missione?

— Di attentare alla vita dell’Emiro di Bukara e anche a quella del maggiore generale Abramow, comandante in capo della spedizione.

— Coloro che vi hanno detto codeste cose, hanno mentito! — gridò Hossein con indignazione.

— E le lettere che ti abbiamo trovate indosso?

— Quali lettere?

— Ah l’infame! — ruggì Tabriz. — L’avevo sospettato!....

— Ah!.... Vedi! — esclamò il maggiore, sogghignando. — Il tuo servo si è tradito e ti ha involontariamente perduto.

— Che cosa volete dire, maggiore? — chiese Hossein smarrito.

— Che quando il capitano medico ti fece spogliare, trovò nascoste nella tua fascia due lettere, le quali ti davano le istruzioni necessarie per compiere il doppio colpo.

— È impossibile.

— Non credi?

— No, è impossibile.

— Ebbene, guarda, — disse il maggiore aprendosi la giubba e levandosi da una tasca interna due fogli. — Riconosci questa calligrafia? —

Hossein vi gettò sopra uno sguardo, poi indietreggiò vivamente, pallido come un cencio lavato, cogli occhi dilatati, mentre un grido straziante gli sfuggiva dalle labbra.

— La calligrafia di mio cugino!.... Ah!.... Il miserabile!.... [p. 171 modifica]l’infame!... È lui che mi ha colpito alle spalle per rubarmi Talmà....

— Sì, mio signore, — disse Tabriz, con accento irato. — Io l’ho veduto a far fuoco su di noi ed ora te lo dico.

È tuo cugino che ha tramato tutto.

— Infame!.... Infame! — urlò Hossein.

Il maggiore ed il rappresentante dell’Emiro non sembravano affatto commossi, nè per l’esplosione di dolore del disgraziato Hossein, nè dello scoppio d’ira di Tabriz.

Anzi il primo sussurrò agli orecchi del secondo:

— Come sono abili commedianti questi selvaggi della steppa! Poi, volgendosi verso Hossein, che si era lasciato cadere su una sedia, nascondendosi il viso tra le mani, gli chiese ruvidamente:

— Dunque l’hai conosciuta questa calligrafia.

— Sì, è di mio cugino Abei, — rispose il giovane.

— Dov’è codesto tuo cugino?

— È fuggito.

— Dove?

— Che ne so io?

— Sarà colle Aquile, mio signore, — disse Tabriz. — È stato lui ad assoldarle, non ho più alcun dubbio.

— Dove si sono rifugiati quei banditi? — chiese il maggiore.

— Sulle montagne, probabilmente, — rispose Tabriz.

— Ed il cugino è con loro?

— Lo suppongo.

— Quello è stato più furbo di voi, — disse il maggiore ironicamente. — Penserà l’Emiro ad andarlo a trovare, se ne avrà tempo. —

Stette un momento silenzioso, poi battè le mani.

Il sergente ed i suoi cosacchi che si erano fermati dinanzi alla tenda, entrarono.

— Conducete questi uomini nella cittadella, — disse loro, doppia sorveglianza, — aggiunse poi.

— Signore, che cosa volete fare di noi? — chiese Hossein, balzando in piedi.

— Deciderà il rappresentante del Khan, — rispose il russo. — D’altronde la vostra sorte mi pare che sia oramai decisa.

Voi siete due pericolosi che meritereste, per mio conto, un po’ di Siberia, in fondo a qualche miniera.

— Dunque voi non credete a quanto vi abbiamo detto?

[p. 172 modifica]

— Bah!....

— Ci trattate come banditi....

— No, come ribelli dell’Emiro di Bukara.

— Non abbiamo preso parte alla ribellione noi!.... ve lo giuro!....

— Avete fatto fuoco contro di noi e basta.

— Perchè i vostri c’impedivano di andarcene. Siete miserabili che abusate della vostra forza.

— Ehi, giovinotto, non siamo nella steppa qui, ricórdatelo e pensa a quello che tu devi dire. Vi è del piombo nei nostri fucili.

— E del buon acciaio, nei nostri kangiarri, — rispose fieramente Hossein.

— E dei pugni che accoppano, nelle nostre braccia — aggiunse Tabriz.

— Conduceteli via, — disse il maggiore, volgendosi verso il sergente. — Ne ho abbastanza di costoro.

— Andiamo — disse il cosacco, spingendo fuori Hossein e Tabriz.

Rimasti soli, il maggiore riaccese il sigaro che aveva lasciato spegnere, poi guardando il rappresentante dell’Emiro, che conservava un’impassibilità strabigliante, gli chiese:

— Credete a quanto hanno narrato quei due prigionieri?

— No, — rispose asciuttamente il buccaro.

— Non credete neppure che quel giovane sia un personaggio distinto? Veramente mi ha l’aria di un pezzo grosso della steppa.

— Può darsi che sia un nipote del beg Giah Aghà.

— Un uomo forte quel beg?

— Che gode d’una grande autorità nella steppa occidentale, per aver purgato il suo paese dai banditi che lo infestavano e per aver sventato, sia coll’astuzia, sia colle armi, le mire, sia pure ambiziose, del mio signore, che desiderava estendere i suoi domini al di là dell’Amur-Darja.

— Credete che quel giovane volesse proprio attentare alla vita dell’Emiro?

— Non ho alcun dubbio; anzi aggiungerò che io sospetto appartenga alla setta dei babi1.

[p. 173 modifica]

— Dei Babi? Chi sono costoro?

— Fanatici che vorrebbero rovesciare tutti gli Emiri e anche lo sciah di Persia, e che hanno già dato molto da fare a quest’ultimo.

Quei furfanti, malgrado abbiano già ricevuto delle tremende lezioni in Persia, a Zindjan specialmente, dove tutti i loro compagni furono passati a fil di spada dalle truppe di Nasser-el Din, si sono infiltrati anche nel nostro kanato.

— Sicchè, cosa volete concludere?

— Che quei due prigionieri devono essere condotti a Bukara, insieme coi ribelli catturati. Tale è l’ordine del mio signore.

— E se non fossero due affiliati alla setta dei Babi?

— Deciderà l’Emiro, — rispose il buccaro, con voce ferma.

— Ricordatevi però che dopo l’interrogatorio, voi dovete riconsegnare a noi tutti i ribelli, e vivi.... ricordatevelo bene, vivi. L’Europa tiene gli occhi su di noi.

— Noi non uccideremo nessun ribelle, ve lo prometto a nome dell’Emiro. Noi rispetteremo i trattati.

— Anche quei due sono vostri, ma, Babi o no, ce li ritornerete. Abbiamo troppe terre disabitate intorno al Caspio, e quella gente non si troverà male laggiù e taglieremo nello stesso tempo le ali ai pretendenti come Djura-Bey e Baba Bey.

Noi già non lavoriamo sempre per i begli occhi del vostro signore.

Domani adunque i ribelli di Kitab saranno a vostra disposizione e avrete il permesso di trattenerli in Bukara per una settimana, non di più, m’intendete? Io parlo a nome del maggior generale Abramow e del governo del Turchestan.

Ora potete andare. —

Note

  1. Questa setta che pretendeva di armonizzare la religione mussulmana colle idee moderne, era stato fondata da Mullah Alì che fu uno dei seguaci che uccise, nell’aprile del 1904, lo sciah di Persia Nasser-el-Din, con un colpo di pistola.