Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo X

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Parte seconda — Capitolo X
L’assedio

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CAPITOLO X.


L’assedio.


Gli usbeki che, dal primo ricevimento avuto, avevano compreso di aver da fare con due, pronti a qualunque sbaraglio e ben decisi a difendere la loro vita, giunti a cinquanta passi dalla catapecchia, si erano fermati per consigliarsi sul miglior mezzo di marciare all’attacco.

Temendo di ricevere qualche scarica, si erano stesi al suolo, dietro una macchia di cespugli, forse coll’intenzione di aprire il fuoco, tenendosi dietro quel riparo che, se non li copriva dalle palle, per lo meno li nascondeva.

— Uhm! — disse Tabriz, che li spiava. — Non mi sembrano molto coraggiosi i soldati dell’Emiro.

Con due dozzine d’uomini, a quest’ora avrei dato l’assalto anche al ridotto.

— La partita non è ancora cominciata, — rispose Hossein, che non condivideva l’ottimismo del gigante. — Tu hai [p. 246 modifica]dimenticato che sul ridotto vi sono dei falconetti e che questa catapecchia ha le muraglie di fango. —

In quell’istante un colpo di fucile partì dietro il cespuglio, ed una palla si piantò profondamente nella tavola che serviva da barricata.

Tabriz fece un salto, riparandosi dietro lo stipite della porta.

— Pare che si siano finalmente decisi, — disse, sorridendo. — Sono di una prudenza che rasenta quella dei conigli.

— Non esporti, Tabriz.

— Lascerò a loro sprecare le munizioni, signore. Ci tengo anch’io a non farmi crivellare, almeno fino al giorno che ti avrò vendicato.

— Taci! — disse Hossein con voce sorda.

— Sì, è meglio lasciar parlare gli archibugi e le pistole, per ora. —

Una scarica tenne dietro alle sue parole. Le palle si piantarono nelle pareti di fango e nella tavola e alcune perfino sul soffitto.

— Padrone, — disse ad un tratto il gigante. — Non spaventarti se io griderò, anzi farai meglio ad imitarmi.

— Perchè?

— Lascia fare a me. La mia idea mi sembra buona. —

Una seconda scarica rintronò, avvolgendo il cespuglio d’una nuvola di fumo.

Tabriz aveva mandato un urlo, come d’un uomo colpito a morte.

— Grida anche tu, padrone, — disse poi subito. — Forte!... Forte!... —

Quantunque Hossein non riuscisse a comprendere il piano del gigante, aveva mandato a sua volta un lungo urlo.

— Ed ora silenzio, — aveva sussurato Tabriz. — Fingiamo di essere morti. —

Gli usbeki, che avevano udite quelle due grida, si erano prontamente alzati coi moschettoni ancor fumanti, guardando la casupola.

Stettero qualche minuto immobili, poi, non udendo alcun rumore, nè vedendo ricomparire i due assediati, fecero alcuni passi innanzi, incoraggiati dai sagrati del capo.

Gli usbeki, credendo che gli assediati fossero stati veramente uccisi dalla seconda scarica, si erano fatti animo e s’avanzavano, [p. 247 modifica]lentamente però, cercando di scoprire, dietro la tavola che ostruiva la porta, i due cadaveri.

Erano tanto sicuri di trovarli morti o agonizzanti, che non avevano nemmeno presa la precauzione di ricaricare i loro moschettoni.

— Attento, padrone, — sussurrò Tabriz che si teneva sempre nascosto dietro lo stipite della porta. — Salta la tavola e piomba su quei furfanti.

— Ho il kangiarro ben saldo in mano.

Il capo degli usbeki, che era dinanzi a tutti e che impugnava una specie di scimitarra assai ricurva e dalla lama larghissima, giunto a quattro o cinque passi dalla porta si fermò, gridando:

— Vi arrendete? —

Nessuno rispose.

— Sono proprio morti, — disse poi, volgendosi verso i suoi uomini. — Non mi aspettavo che tiraste così bene. —

I ventiquattro uomini si fecero coraggiosamente innanzi per rimuovere la tavola, quando d’un tratto videro il gigantesco Tabriz e Hossein varcarla con un solo salto e piombare in mezzo a loro.

Uran!... Uran!... —

Il terribile grido degli scorridori della steppa turchestana lanciato dai due assediati, fu accompagnato da due colpi di kangiarro che fecero stramazzare a terra due usbeki colle gole squarciate.

— Sotto, padrone! — urlò Tabriz, che menava disperatamente le mani.

— Cacciamo questi poltroni. —

Quell’attacco fulmineo e soprattutto la vista di quel colosso, sconcertò gli assedianti. Spararono appena qualche colpo di pistola, poi volsero i tacchi come lepri. Anche il loro comandante, che era sfuggito per un vero miracolo ad un colpo di kangiarro, vibratogli da Hossein, se l’era data a gambe non meno velocemente degli altri.

— Credo che per ora ne abbiano abbastanza, — disse Tabriz, rifugiandosi prontamente entro la catapecchia. — Guardati dalle palle, signore.

Ci tempesteranno di certo.

— Finchè adopreranno i fucili non avremo molto da temere, [p. 248 modifica]— rispose Hossein, che si era coricato dietro la parete. — Il mio timore è che si servano dei falconetti che abbiamo veduto sul ridotto.

— Pare che per ora non ci abbiano pensato, signore. La faccenda si guasterebbe troppo presto, non potendo queste muraglie resistere a simili tiri.

— Che cosa fanno dunque quei poltroni?

— Ci spiano, signore, e tengono un secondo consiglio. Pare che piaccia più ai bukari parlare che menare le mani.

To’!... M’ingannavo: ecco che si preparano a consumare un po’ di polvere dell’Emiro. —

Sette od otto colpi di fucile vennero sparati dietro al cespuglio, producendo molto baccano e molto fumo, ma niente di più perchè le palle di quei vecchi moschettoni non riuscivano ad attraversare le muraglie di fango, anzi nemmeno la tavola che aveva uno spessore non comune.

— Avanti!... Musica!... — disse Tabriz che pareva si divertisse immensamente. — Ci vuol ben altro che le vostre palle, stupidi!... Bisogna venirci a scovare col kangiarro in pugno, miei cari, e... —

Si era interrotto bruscamente ed aveva spiccato un salto verso la tavola senza prendersi alcun pensiero delle palle che continuavano a fioccare con un lungo mugolìo.

— Tabriz, che cosa fai? — gridò Hossein.

— Il miserabile!...

— Chi?...

— Il loutis.

— Con gli usbeki?...

— Sì, padrone.... Canaglia, si è nascosto, ma lo terrò d’occhio!... È necessario che l’uccida!...

— Via di lì, Tabriz!...

— Hai ragione, padrone. Sono uno stupido a espormi così... un po’ più basso e la mia testa scoppiava. —

Una palla aveva attraversato il suo cappello portandoglielo via dal capo.

— Hai veduto, Tabriz? —

Gli spari si succedevano senza tregua. I bukari facevano grande spreco di munizioni, senza ottenere alcun successo, poichè i due assediati si guardavano bene dal mostrarsi.

La fucilata durò una buona mezz’ora, poi parve che gli [p. 249 modifica]assedianti si fossero finalmente accorti dell’inutilità dei loro tiri, poichè il fuoco bruscamente cessò.

— Tabriz, — disse Hossein, — che vengano all’attacco?

— Mi pare che non ne abbiano l’intenzione, almeno pel momento, — rispose il gigante, che li spiava per una fessura lasciata fra la tavola e lo stipite della porta.

— Che ci cannoneggino?

— Eh, non lo so, mio signore, tuttavia non sono molto tranquillo.

— Io vorrei sapere come finirà quest’avventura.

— Li vedi ancora?

— No, sono tutti scomparsi, signore.

— Saranno andati a far colazione.

— E noi?

— Cerchiamo: quel maledetto taverniere avrà qualche cosa da porci sotto i denti.

Guarda i bukari tu, signore, mentre io frugo. —

Nella stanza non vi erano che alcune casse addossate alle pareti ed un vecchio cofano tarlato su cui trovavasi un pagliericcio che doveva servire da letto al proprietario della casupola.

Tabriz aprì le une e l’altro e fu tanto fortunato da trovare una mezza dozzina di gallette di maiz, nonchè una terrina di pesci già cucinati e conservati nel grasso di cammello.

— E vi è anche lì in quell’angolo un fiasco di kumis, — disse il brav’uomo, fregandosi le mani. — Per un paio di giorni i viveri sono assicurati ed in quarantotto ore possono succedere molte cose.

Padrone, si degnano mostrarsi?

— Non vedo nessuno, Tabriz, — rispose Hossein. — Si direbbe che hanno abbandonato il villaggio.

Che se ne siano proprio andati? —

Il gigante non rispose. Il giovane, non ottenendo risposta, si volse e vide Tabriz curvo verso una delle quattro pareti, che rimuoveva una tavola di quercia che era incastrata nel fango.

— Che cosa cerchi? — chiese Hossein.

— Dietro questa tavola vi deve essere qualche cosa, — rispose il gigante. — Resiste!... Eh cederà alle mie braccia!... —

Con uno sforzo la strappò mettendo allo scoperto un’apertura che aveva non meno di un mezzo metro di circonferenza, che [p. 250 modifica]pareva mettesse in qualche caverna sotterranea o per lo meno in qualche cantina.

— To’! — esclamò.

— Signore, mettiti a guardia della porta: io parto in ispezione.

— Per dove?

— Lo saprai presto.

Il gigante scivolò attraverso l’apertura e scomparve.

Hossein si era subito ricollocato dietro alla tavola che serviva di barricata, senza però riuscire a scorgere nessun usbeko.

Erano occupati gli assedianti a studiare qualche nuovo mezzo per far capitolare gli assediati o, disperando di riuscire nel loro intento, avevano preso il largo sulle loro barche? A dire il vero Hossein non prestava molta fede alla loro scomparsa, essendo in buon numero e potendo reclamare per di più l’aiuto dei pastori, pure loro sudditi dell’Emiro.

Il giovane era a questo punto delle sue riflessioni, quando un getto di fumo irruppe bruscamente attraverso la porta, costringendolo a dare indietro.

Qualcuno doveva aver gettato qualche fastello di legna accesa alla base della parete, coll’evidente intenzione di allontanare i due assediati.

— Altro che scappati! — mormorò Hossein.

Un colpo di tosse gl’impedì di parlare. Un altro getto di fumo era entrato, proveniente dall’altra parete ed era quello così acre, così puzzolente, da obbligare il giovane a fare altri due passi indietro.

— L’alfek! — esclamò. — L’erba puzzolente degli stagni amari!... Ora ci affumicheranno per bene e non so se potremo resistere a lungo.

— Per tutti i diavoli dell’universo! — gridò in quel momento una voce dietro di lui, interrotta da due colpi di tosse. — Giungo in buon punto.

— Tabriz!...

— Eccomi, signore.

— Stanno per prenderci. Il vento soffia dinanzi a noi e fra poco la camera sarà piena.

— Non siamo presi affatto, signore. Seguimi subito, prima che s’accorgano della nostra fuga dobbiamo essere lontani. Ah!... Ah!... Che bel giuoco! —

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Se il gigante rideva, voleva significare che le cose non andavano così male come credeva Hossein.

Questi senza perdere tempo in chiedere spiegazioni, si era slanciato dietro al fedele servo che si era nel frattempo riempito le tasche di gallette e anche di pesci, poco badando se si ungeva di grasso di cammello.

— Attàccati alla mia zimarra, padrone — gridò Tabriz. — Tu non hai gli occhi dei gatti.

— E dove mi conduci?...

— Non occupartene pel momento. Corri sempre dietro di me, o quel fumo puzzolente ci raggiungerà e cadremo a mezza via. —

Il gigante camminava in fretta, colle braccia allargate, per toccare le due pareti del passaggio e pareva proprio che ci vedesse, perchè non esitava un solo istante a spingersi innanzi.

Hossein invece non riusciva a scorgere assolutamente nulla, non filtrando il menomo raggio di luce in quel corridoio tenebroso.

Dapprima scesero, poi, dopo aver percorso un centinaio di metri, cominciarono a salire, senza però che l’oscurità si dileguasse.

— Ci siamo, — disse ad un tratto il gigante. — Ecco l’aria fresca del colle che giunge.

Ancora quindici o venti passi ed i falconetti lavoreranno.

— I falconetti!... Sei diventato pazzo, Tabriz.

— Oh! Vedrai padrone, come li prenderemo alle spalle! Voglio affogarli tutti nel fiume, compreso il loutis.

Alt!... Ecco la porta! —

Tabriz si era fermato di colpo.

Le sue mani scorsero su una superficie metallica, poi, trovata la maniglia, spinse con forza.

Tosto un fascio di luce illuminò il corridoio.

— Una porta di ferro? chiese Hossein sottovoce.

— Sì mio signore.

— Dove mette?

— Non saresti capace d’indovinarlo.

— Non farmi perdere la pazienza.

— Vieni. —

Attraversarono la porta e si trovarono in una specie di magazzino che era ingombro di casse e di botti e che riceveva la luce da due strette feritoie.

— Dove siamo dunque? — ripetè Hossein, impazientito.

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— In una polveriera. Queste botti e queste casse sono piene di munizioni. Me ne sono assicurato prima.

— Tabriz, mi hai condotto nel ridotto che abbiamo veduto quando siamo sbarcati?

— Sì, mio signore.

— Siamo entrati nella tana dei lupi di Bukara. Non ci faranno a pezzi ora?...

— Non lo credo. Intanto chiudiamo la porta e spranghiamola giacchè vedo qui delle sbarre di ferro.

È solida e non cederà facilmente ed i bukari, che ci assediavano, non potranno entrare nel corridoio prima di parecchie ore.

— Sei certo che non ci sia nessuno nel ridotto?

— Prima non ho udito alcun rumore e non ho veduto nessuno. Tutti i bukari devono trovarsi sulla riva del fiume in attesa di vederci uscir dalla taverna.

Seguimi, signore. —

Attraversarono il magazzino e si trovarono in una specie di scuderia, dove quattro bellissimi cavalli persiani stavano riempiendosi di erbe profumate.

— Ecco, per guadare il fiume e correre attraverso la nostra steppa, — disse Tabriz.

— E superbi, — aggiunse Hossein.

— Taci, padrone.

— Che cos’hai udito?

— Una porta scricchiolare.

— Che i bukari vengano a rifornirsi di munizioni?

— Non ci mancherebbe altro! —

Vedendo in un angolo un mucchio di fieno abbastanza alto da celarli entrambi, vi si gettarono dietro armando precipitosamente le pistole.

Un passo pesante e cadenzato s’avanzava risuonando entro una specie di corridoio, che poteva anche essere un’opera coperta conducente al ridotto, avendo Tabriz scorto delle feritoie.

Poco dopo un vecchio bukaro, armato d’archibugio, entrava nella scuderia dirigendosi verso il magazzino delle munizioni.

Tabriz aveva fatto atto d’alzarsi, ma Hossein l’aveva subito trattenuto, sussurrandogli:

— Lascialo andare: potrebbe dare l’allarme. Quando si sarà rifornito di palle e di polvere tornerà sulle rive del fiume.

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Così infatti accadde. Il bukaro uscì dal magazzino, portando due sacchetti che dovevano essere pieni di munizioni e se ne andò come era venuto, senza essersi accorto di nulla.

Quando non udirono più i passi, i due turchestani balzarono in piedi nel medesimo tempo.

— Presto, padrone — disse Tabriz.

Attraversarono rapidamente l’opera coperta e sbucarono finalmente all’aperto, dinanzi alla batteria che era composta di quattro falconetti installati su un terrapieno.

Nessuna sentinella vegliava. A quanto pareva, il capo, sicuro di non venir assalito da nessuno, aveva fatto scendere tutti i suoi uomini per dare l’attacco alla casupola.

Tabriz fece una rapida esplorazione e trovata la porta che, dal sentiero fiancheggiante la collinetta, metteva nel ridotto, la chiuse con fragore, sbarrandola con una grossa trave.

— Ed ora, padrone, rideremo, — disse il gigante.