Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo XI

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Parte seconda — Capitolo XI
La sconfitta degli usbeki

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CAPITOLO XI.


La sconfitta degli usbeki.


Come abbiamo detto, quella specie di fortino, destinato a difendere i guadi dell’Amur-Darja, che si trovavano in quel punto della frontiera, sorgeva su una collinetta non più alta d’un centinaio di metri e che probabilmente era l’unica che sorgesse nella steppa occidentale.

Non era un gran che, tuttavia si componeva d’un gruppetto di fabbricati costruiti con mattoni cotti al sole e uniti con fango, che si stringevano addosso ad un terrapieno munito di merlature e difeso da quattro falconetti con palle da una libbra.

Tabriz e Hossein, appena chiusa la porta, erano saliti sul terrapieno da dove potevano dominare tutto il villaggio e anche un tratto dell’Amur-Darja.

Di lassù scorsero subito la catapecchia del trattore, che si trovava isolata all’estremità meridionale del villaggio.

Fastelli di legna puzzolente bruciavano dinanzi alla porta, mandando in aria grosse nubi di fumo nerastro e, poco distante, [p. 254 modifica]i bukari in agguato, dietro ai cespugli, coi fucili in mano, pronti a salutare gli assediati con una scarica e impedire la loro fuga.

Erano una quarantina, tutti bene armati; ed a loro si erano aggiunti alcuni pescatori, forse più per curiosità che per aiutarli validamente, non avendo che fiocine e qualche scure.

Tabriz ad un tratto fece un balzo.

— Il loutis! — esclamò.

— Dov’è?

— Eccolo là che attraversa il fiume su una barca, con due cavalli.

— Che fugga?

— Scommetterei che quel birbante ha ricevuto il prezzo del tradimento e che ora si mette in salvo.

— Non dobbiamo lasciarcelo scappare, Tabriz, — disse Hossein con impeto. — Voglio avere quell’uomo nelle mie mani.

— Perchè padrone?

— Perchè ho il sospetto che egli sia una delle Aquile pagate da Abei.

— Aspetta un momento, padrone. Gli fracasserò la barca.

— Lo voglio vivo ti ho detto.

— Farò il possibile. Tu tira sugli usbeki, io su quel cane e sul suo compagno, che mi sembra sia il taverniere. —

Esaminarono i falconetti.

— Carichi tutti, — disse il gigante.

— Mira giusto.

— E tu getta a terra più bukari che puoi. —

Si curvarono sui due piccoli pezzi che formavano le due estremità della batteria, abbassandoli fino al punto esatto di mira, poi diedero fuoco alle micce, che stavano chiuse in una cassetta.

— Ci sono — disse Hossein.

Una fortissima detonazione scosse l’aria e il proiettile andò a cadere in mezzo agli usbeki facendone stramazzare due al suolo.

Un momento dopo anche Tabriz faceva fuoco, spaccando la poppa della barca sulla quale si trovavano Karaval e Dinar.

Vi fu fra i bukari un momento di stupore impossibile a descriversi, poi vedendo ondeggiare sul ridotto due nuvole di fumo e temendo una nuova scarica si dispersero in tutte le direzioni, urlando e bestemmiando.

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— Agli altri due padrone, — disse Tabriz. — Non lasciamo a loro il tempo nè di rimettersi dallo spavento, nè di radunarsi.

— Non aver fretta: non sprechiamo colpi.

— Vi è il magazzino che ci provvederà, signore.

— La barca affonda!...

— Ma troppo tardi, signore.

Ecco che quei birbanti sono già a cavallo e si dirigono verso la riva.

Ecco là il guado!... Ne approfitteremo. —

Karaval e Dinar, vedendo la barca affondare, si erano gettati risolutamente in acqua costringendo i cavalli ad imitarli.

Trovandosi in quel momento a poche diecine di passi dalla riva ed in un luogo ove l’acqua era bassa, avevano attraversata rapidamente la distanza, mettendosi in salvo sotto gli alberi.

— Ah! Signore! — esclamò, vedendoli scomparire. — Perchè non mi hai permesso di ammazzarli.

Hossein non ebbe il tempo di rispondergli. Urla feroci erano scoppiate alla base della collinetta, accompagnate da parecchi colpi di fucile.

I bukari avevano compreso con chi avevano da fare, e chi erano gli uomini che li cannoneggiavano, e forti del numero si preparavano alla riscossa.

— Padrone, — disse Tabriz, la cui fronte si era annuvolata, — scarica gli altri due pezzi, mentre io vado a far provvista di munizioni.

— Porta anche dei fucili e conduci due cavalli dietro la porta, — rispose Hossein. — Teniamoci pronti a fuggire. —

Mentre Tabriz s’allontanava correndo, il coraggioso giovane sporse il capo fra due merli per meglio osservare dove si trovavano i nemici.

Tenendosi nascosti dietro le rocce, erano già giunti alla base del sentiero e si spingevano animosamente innanzi, incoraggiati dai sagrati tuonanti del loro capo.

— Li prenderò d’infilata, — mormorò Hossein. — Si presentano in linea profonda e due palle faranno un bel vuoto se ben dirette. —

Senza occuparsi dei colpi d’archibugio, che non potevano offenderlo, essendo riparato dalle grosse merlature del ridotto, mise in [p. 256 modifica]batteria i due falconetti ancora carichi, in modo che le palle infilassero il sentiero, e uno dopo l’altro, li scaricò!

Il primo colpo portò via la testa al comandante che precedeva la truppa; il secondo mandò a gambe all’aria una mezza dozzina d’usbeki.

Gli altri s’arrestarono un momento, come se indecisi fra il continuare la marcia o darsela a gambe. La morte del loro capo li decise. Volsero le spalle e discesero a corsa sfrenata il sentiero, dirigendosi verso il fiume, dove si trovavano parecchie barche ancorate sulla riva.

Quando Tabriz giunse colle munizioni per le due bocche da fuoco, si erano già imbarcati tutti e aiutati dai pescatori scendevano, arrancando disperatamente l’Amur-Darja.

— Giungi tardi, — gli disse Hossein. — Ormai siamo padroni del villaggio.

— Fuggiti? — chiese il gigante.

— Non si scorgono quasi più.

— Che siano andati in cerca di rinforzi?

— È probabile, Tabriz, e noi non saremo così sciocchi d’aspettarli.

— Lo credo, padrone.

— I cavalli?

— Sono pronti: ho scelto i due migliori.

— I fucili?

— Ne ho appesi due a ciascuna sella. Non vi era da scegliere nel magazzino.

— A cavallo prima che tornino e guadiamo subito il fiume. —

Scesero di corsa lo spalto del ridotto e corsero verso la porta dietro la quale si trovavano i cavalli, i più belli dei quattro, che erano nella scuderia.

Traversarono quella specie di saracinesca gettata su un profondo fossato, balzarono in sella e scesero di galoppo il sentiero.

Il villaggio era stato completamente abbandonato. Usbeki e pescatori, temendo di venire mitragliati dai quattro falconetti, che si trovavano sul ridotto, si erano messi frettolosamente in salvo.

— Se non salviamo la pelle questa volta, non la salveremo più, — disse Tabriz. — Alì e Maometto hanno giurato di proteggerci.

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— Sì, e per punire il miserabile che ha ingannato mio zio, che ha cercato di assassinarci e che mi ha rubato Talmà! — rispose Hossein con intraducibile accento d’odio. — Ecco la vendetta che comincia. La steppa turanica sta dinanzi a noi!.. Al guado, Tabriz!...

— Questi cavalli non avranno paura dell’acqua, — rispose il gigante.

I cavalli non opposero alcuna resistenza e balzarono nel fiume sollevando due altissime ondate. Il fondo esisteva a qualche metro al di sotto, sicchè i due animali poterono avanzarsi senza correre alcun pericolo di sprofondare.

I due turchestani in meno di dieci minuti attraversarono il fiume, salendo la riva che in quel luogo non era molto ripida.

— Sulle tracce del loutis e del suo compagno, Tabriz, — disse Hossein.

— Hanno già lasciato come un varco fra queste erbe, — rispose il gigante. — Non faticheremo molto a seguirli.

Saranno già lontani, tuttavia un’ora di vantaggio non sarà gran cosa.

— Batti i fianchi dei cavalli. —

Si erano appena lanciati sotto le piante, quando un colpo di fucile rimbombò accompagnato dal grido:

— Alt!... Siete presi!...

— L’archibugio, Tabriz! — urlò Hossein.

— È pronto — rispose il gigante.

— Ventre a terra!

— E carichiamo, — aggiunse Tabriz.

Quella minaccia fortunatamente non ebbe altro seguito, sicchè i due turchestani, con non poca sorpresa, poterono oltrepassare indisturbati la zona alberata e raggiungere l’immensa steppa degli Illiati, confinante con quella dei Sarti.

— Ecco la libertà! — gridò Tabriz.

— E la vendetta, — aggiunse Hossein i cui occhi si erano accesi d’una terribile fiamma. — Siamo sempre sulla traccia del loutis?

— Sì, padrone, non la perderò più. Ecco dove sono passati i due cavalli. Le erbe non si sono ancora raddrizzate.

— Che gli usbechi si siano rassegnati?

— Lo credo, signore. —

La steppa verdeggiante, quella superba pianura che pareva un [p. 260 modifica]oceano di erbe, quasi sempre in movimento come le onde instabili, quantunque non ne possedesse il muggito sinistro ed impressionante, s’apriva dinanzi a loro.

In mezzo si vedeva netto il solco aperto dai due cavalli montati dal loutis e dal suo compagno, non avendo avuto il tempo, le erbe, calpestate dai robusti zoccoli dei due corridori, di rialzarsi.

Il sole volgeva ormai al tramonto e si tuffava in un nimbo d’oro porpureo, ma la luna non doveva tardare ad alzarsi e piena di splendore.

Sull’immensa pianura non si scorgeva nulla, affatto nulla: nè tende d’Illiati, nè gruppi di cammelli o di cavalli pascolanti, nè i due fuggiaschi. Tuttavia nè Tabriz, nè Hossein disperavano di raggiungere l’uomo che li aveva così vilmente traditi e che per poco non era stata la causa della loro morte o per lo meno della loro prigionìa.

— Prima che raggiungano le rive del mar Nero o le frontiere della Persia, piomberemo loro addosso, — diceva Tabriz. — È impossibile che abbiano potuto trovare cavalli più rapidi dei nostri.

— Dove credi che fuggano?

— Verso la frontiera persiana piuttosto che verso il mar Nero.

— In tal caso saranno costretti a passare per la steppa dei Sarti.

— Certo, padrone.

— Quell’uomo mi occorre, Tabriz. Sarà un testimonio prezioso.

— Che io vorrei uccidere prima di tradurlo dinanzi a tuo zio.

— E avresti torto.

— Può darsi, signore. Eh!...

— Cos’hai!

— Due punti neri all’orizzonte.

— I fuggiaschi?

— Potrebbero essere anche lepri, signore. Il sole sparisce e la luce fugge rapidamente.

Aspettiamo la luna. —

Hossein con una strappata improvvisa arrestò il suo cavallo e guardò attentamente la sterminata pianura, che si estendeva a perdita di vista dinanzi a lui.

— Sì, due punti neri — disse poi. — Lupi no, mi sembrano cavalli.

— Ragione di più per affrettarci, signore. I due cavalli, che valevano i farsistani del vecchio beg, ripartirono ventre a terra, aspirando rumorosamente l’aria.

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In quel momento il sole scomparve e l’oscurità piombò sulla steppa, dopo un brevissimo crepuscolo.

— Signore, — disse Tabriz. — Rallentiamo e aspettiamo la luna. Non tarderà a mostrarsi.

— Allora li raggiungeremo di notte.

— È quello che desidererei. In qualche luogo si fermeranno, signore. I loro cavalli non sono già di ferro e avranno bisogno di un po’ di riposo. —

Misero i due corridori al passo, attendendo pazientemente il sorgere dell’astro notturno. Una pallida luce, che accompagnava quella delle stelle prossime all’orizzonte, annunciava già la sua imminente comparsa.

Tabriz teneva gli occhi fissi sul sentiero aperto dai fuggiaschi, temendo di smarrirlo, quantunque quel solco fosse così largo e così marcato fra le altissime erbe, da non potersi ingannare sulla sua direzione.

Non era trascorso un quarto d’ora, quando un grande disco, simile ad una lastra di rame infuocato, sorse quasi improvvisamente all’estremità dell’immensa pianura erbosa, proiettando per alcuni minuti, un immenso fascio di luce rossa che diventava rapidamente azzurrognola.

— Ecco la luna che viene in nostro aiuto, — disse Tabriz. — Ci vedremo come in pieno giorno e scopriremo ben presto i fuggiaschi.

Su questo mare di verzura i loro cavalli si distingueranno senza alcuna fatica.

To’, non vedo più le due macchie nere. Che si siano fermati in qualche luogo?

— O che accorgendosi di essere seguiti abbiano forzate le loro cavalcature e che abbiano guadagnato su di noi qualche altro miglio?

— È impossibile signore che i loro cavalli possano competere con questi. Devono essersi fermati in qualche luogo e ti consiglierei di procedere con cautela.

Sono in due e noi pure siamo in due e potrebbero essere buoni bersaglieri, quantunque non abbia mai udito che un loutis ed un taverniere siano diventati di punto in bianco guerrieri.

— Ti ho detto che io sospetto invece che quel falso ammaestratore di scimmie fosse un bandito della steppa.

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— Ah!... La cosa sarebbe ben diversa. Ragione di più per diventare prudenti.

— Mettiamo allora i cavalli al trotto.

— E armiamo gli archibugi, padrone. Possiamo essere costretti a rispondere da un momento all’altro. —

Strinsero le briglie e le ginocchia, obbligando i due persiani a moderare il loro slancio impetuoso e si rizzarono sulle staffe per abbracciare maggior orizzonte. Cercavano un punto luminoso che indicasse l’accampamento dei due fuggiaschi.

— Nulla, — continuava a brontolare Tabriz. — È un agguato che ci preparano. Io lo sento o meglio lo fiuto come i lupi che sentono la preda.

Ecco il momento di stare in guardia e di sorprendere invece loro, giacchè il padrone vuole averli in mano vivi. —

Continuarono a galoppare per una quindicina di minuti, poi Tabriz, che precedeva Hossein per difenderlo da qualche improvvisa scarica, rattenne violentemente il proprio cavallo, dicendo rapidamente:

— Alt, padrone!...

— Siamo giunti?

— Inalbera il cavallo! —

Un lampo illuminò la steppa a dieci o dodici passi dinanzi a loro, seguito dal rombo d’un grosso moschetto.

Il cavallo di Tabriz che sotto un vigoroso colpo di tallone si era alzato sulle zampe deretane, cadde di quarto trascinando il cavaliere.

Hossein afferrò uno dei due archibugi che gli pendevano dalla sella e sparò a casaccio a fior di terra.

Un grido echeggiò fra le erbe.

— Karaval!... Son morto!...

— Ed io invece sono vivo, — urlò Tabriz, alzandosi.

Da abilissimo cavaliere, nel momento in cui il suo persiano riceveva la scarica in mezzo al ventre, aveva allargate le gambe e abbandonate le staffe, sicchè era caduto molto più lontano senza rimanere sotto l’animale.

Intanto un uomo si era alzato fra le erbe e si era dato a fuga precipitosa. Era Karaval.

Il bandito non aveva avuto il tempo di montare a cavallo e contando sulla propria agilità e credendo di sfuggire meglio ai [p. 263 modifica]colpi dei suoi nemici e di nascondersi, al momento opportuno, fra le erbe, aveva preferito giuocare di gambe.

Tabriz lo aveva però scorto e quantunque non avesse preso con sè nessun archibugio, si era slanciato risolutamente sulle sue tracce, contando sul proprio kangiarro.

Hossein si era provato a sua volta ad inseguirlo, però non aveva percorsi dieci passi che si era sentito scaraventare in aria.

Il suo cavallo aveva urtato in qualche ostacolo, probabilmente contro qualche fune tesa fra le erbe, ed era caduto sbalzando di sella il cavaliere.

Quel capitombolo non poteva avere tristi conseguenze fra quelle masse erbose alte un paio di metri.

Tabriz intanto continuava ad inseguire accanitamente Karaval, urlando senza posa:

— Fermati, birbante, o ti spaccherò il cranio! È Tabriz che ti dà la caccia, il gigante!...

Mi basta un pugno per accopparti!... —

Il bandito, pazzo di terrore, continuava a scappare, sbuffando come una foca. Aveva le ali ai piedi e pareva che avesse ritrovata l’agilità dei suoi vent’anni.

Tabriz però non lo lasciava e colle sue lunghe gambe e i suoi slanci di cavallo selvaggio guadagnava sempre più.

Ad un tratto il bandito incespicò e cadde. Tabriz d’un colpo gli fu addosso afferrandolo pel collo e sollevandolo come un fantoccio.

— Sei preso, miserabile! — urlò.

— Grazia! — rantolò il miserabile che non osava più dibattersi.

— Sì grazia, se parlerai. Dammi intanto il tuo kangiarro e anche il tuo archibugio, che vale in questo momento meno d’un bastone e aspettiamo il padrone.

— Il signor Hossein?

— Come! — urlò Tabriz stringendolo con maggior violenza, fino a fargli uscire la lingua d’un buon palmo. — Tu lo conosci?... Ah!... Ti sei tradito!... Il nipote del beg non si era ingannato.

— Grazia... mi strangoli.

— Non ora, — rispose il gigante, allargando il pugno.

— È necessario che tu parli prima, furfante. Gli tolse il kangiarro ed il fucile lo depose dinanzi a sè, sull’erba, dicendogli con voce minacciosa:

— Un moto, una parola e ti accoppo con un pugno, e bada [p. 264 modifica]che con un pugno io un giorno ho ammazzato un cammello. Mi hai capito?

— Non sono sordo, signor Tabriz, — rispose Karaval con voce tremante.

Una voce in quel momento si alzò fra le erbe!

— L’hai preso? Era Hossein che si avanzava conducendo per la briglia il proprio cavallo, non che i due dei banditi.

— È in mia mano, signore — rispose il gigante — e non mi scapperà più, te l’assicuro. —

Hossein legò i tre cavalli insieme, li fece coricare fra le erbe, poi impugnato il kangiarro si precipitò come una belva addosso a Karaval. Una collera terribile avvampava nei suoi occhi.

— Miserabile! — urlò. — La morte causata da un colpo d’arma bianca sarebbe troppo dolce per te, come sarebbero pure troppo dolci le più atroci torture.

— Grazia, signore, — balbettò Karaval che tremava come se avesse la febbre. — Io non ho agito per mio conto.

— Che cosa vuoi dire? — chiese Hossein stupito.

— Che se fosse stato in me non vi avrei tradito. D’altronde, voi, mi dovreste un po’ di riconoscenza, perchè senza di me, voi non sareste mai usciti vivi dalla steppa della fame.

— Questo briccone è più furbo del diavolo, — mormorò Tabriz.

— Per conto di chi hai agito? — chiese Hossein che aveva alzata la terribile lama sulla testa del bandito. — Del capo delle Aquile?

— No, signore. Dopo che Talmà fu liberata da vostro cugino Abei, io non l’ho più riveduto, quindi egli ignorava che voi foste ancora vivi.

— Di chi dunque? —

Il bandito ebbe una lunga esitazione.

— Parla o ti faccio arrostire a lento fuoco.

— Di vostro cugino.

— D’Abei! — ruggì Hossein.

— Sì, m’aveva preso ai suoi servizi onde tornassi a Kitab a cercare i vostri cadaveri.

— Per quale motivo?

— Per assicurarsi se voi, signore, eravate proprio morto.

— Ah!... Canaglia!... Anche quello voleva!

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— Come avrebbe potuto sposare Talmà? Ci voleva qualcuno che testimoniasse la vostra morte.

— L’infame!...

— Una parola, padrone, — disse Tabriz.

Poi rivolgendosi verso il bandito:

— Tu sai chi è stato a colpirci a tradimento con due colpi di pistola, mentre noi facevamo fronte ai moscoviti.

— Sì: mi hanno detto che è stato Abei.

— Hai udito, signore?

— Sì, — rispose Hossein coi denti stretti. — Quell’infame voleva la mia fidanzata e anche la mia vita.

Prosegui: che ordini ti aveva dato mio cugino quando tu tornasti a Kitab?

— Di riportare nella steppa i vostri cadaveri, se l’avessi potuto.

— E se ci aveste trovati solamente feriti?

— Di perdervi a qualunque costo e di consegnarvi all’Emiro, avendoti egli messo, nella fascia, dei documenti compromettenti.

— Vedi, padrone, che io non mi ero ingannato, — disse Tabriz.

Hossein stette qualche minuto silenzioso, poi volgendosi verso il bandito che si teneva le mani sul capo come per difenderlo da qualche colpo di kangiarro, gli disse:

— Sarei nel mio diritto di ucciderti, invece io ti farò dono della vita, ad una condizione. —

Tabriz fece una smorfia e scosse il capo, come se fosse poco contento di quelle parole.

— Parla, mio signore, — disse Karaval, respirando a pieni polmoni.

— Che tu deponga dinanzi al beg, mio zio, di quale infame missione ti ha incaricato mio cugino.

— Sono pronto a farlo.

— Tabriz, lega le braccia a quest’uomo e mettilo in sella.

— Partiamo?

— Subito: ho sete di vendetta.

— Ecco la fine della tragedia, — mormorò il gigante.

Legò poi solidamente le braccia al bandito, lo pose su uno dei tre cavalli e ripartirono a piccolo trotto attraverso la steppa sconfinata.