Le Cereali
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LE CEREALI D’ARI-
STOFANE. COMEDIA. X.
Persone de la Comedia.
Mnesiloco socero d’Euripide. | |
Euripide. | Servidore. |
Agathone. | Coro. |
Precone. | Una donna. |
Un’altra donna. | Et un’altra donna. |
Clistene. | Mezzo coro di donne. |
Echo. | Scita. |
mnesiloco.
Mn. Come ditu? dì un’altra volta. non bisogna ch’io oda?
Eu. Non quelle cose, che tu hai à vedere.
Eu. Non già quelle che bisognerà udire.
Mn. A che modo m’ammonisci tu? tu dici a’l meno destramente. non dici tu, che mi bisogna, ne udire, ne vedere. perche la natura de l’uno e l’altro è separata ne d’udire, ne di vedere.
Eu. Ben sai, che.
Mn. A che modo è separata?
Eu. Queste cose à questo modo furono distinte à l’hora: che l’etere in prima quando fu spartito (et in se stesso insieme generava animali moventisci) con il quale bisogna vedere, prima formò l’occhio simile à la ruota de’l sole, et lo udito de’l buco de gli orecchi forò.
Mn. Per il buco adunque, ne odo, ne vego. per Giove m’alegro ben di questo, che sopra habia imparato, di che sorte, e dove sono i savij conventiculi.
Eu. Tu impararessi bene molte tai cose da me.
Mn. A che modo dunque bene?
Eu. Apresso à questi beni trovarei à che modo fin’hora imparasti non esser zoppo de la gamba, và quà, et avertisci.
Mn. Ecco.
Eu. Veditu questa portella?
Mn. Per Hercole penso pur di vederla.
Eu. Hor taci.
Mn. Tacio la portella.
Eu. Odi.
Eu. Quì Agathone glorioso habita, tragico poeta.
Mn. Come è fatto questo Agathone? qual Agathone? è forsi negro, gagliardo?
Eu. Non, ma è un’altro. non l’hai tu mai veduto?
Mn. Ha egli la barba?
Eu. Non l’hai tu mai veduto?
Mn. Non per Giove, non io già, che sapia.
Eu. Et tu forsi hai chiavato, ma per aventura no ’l sai. ma fugiamo fuor d’i piedi, che vien fuora un suo servidore, che ha de’l fuogo, et de le bachette di mirto: par che voglia sacrificare à la poesia.
Ser. A tutto il popolo sia buon’augurio. et chiudi la bocca, perche la festa de le muse e le istesse musiche comincian haver potenza ne le corti de’l patrone, et l’etere habia il siato tranquillo, et la verde aqua de’l mare non strassuoni.
Mn. Bombax.
Eu. Taci, che ditu?
Ser. Et le generationi de gli ucelli s’adormentino, et i piedi de le salvatiche siere che corrono per le selve non si sciolgano.
Mn. Bombalobombax.
Ser. Perche primo il nostro Agathone da le belle parole ha ad essere.
Mn. Che forsi, esser chiamato?
Eu. Chi ha parlato?
Mn. Il cheto ethere.
Mn. Et sbelletta.
Ser. Che villano è quello, che vien ne la corte?
Mn. Quello ch’è pronto à te, et a’l poeta che ha bella loquela di corte, che inrotonda, et contorze questa verga à infundere.
Ser. Sei tu mai stato ò vecchio sprezzatore de’l nuovo certame?
Eu. O huomo da bene lascia andar costui in buon’hora, et tu con ogni arte chiamami quà Agathone.
Ser. Non pregare, che esso tosto verrà fuora, perche commincia à modulare. et essendo d’inverno non è cosa facile à torzere le conversioni, se non andrà fuora a’l Sole.
Mn. Che farò io adunque?
Ser. Aspetta, che verra fuori.
Mn. O Giove che pensitu di farmi hoggi?
Eu. Per i dei io voglio udire che cosa è questa. che piangitu? di che hai tu noia? non bisognava che celasti quello ch’è mio socero.
Mn. Emmi parecchiato un certo gran male.
Eu. Di che sorte?
Mn. In questo dì d’oggi si giudicherà, ò se è vivo anchora, ò se è morto Euripide.
Mn. Questa cosa medesima pur, et il morire aspetto. per ciò che le donne m’hanno aguatato, et ne i sacrifici de la dea Cerere sono per venire hoggi à predicar de la mia morte.
Eu. Et perche mò?
Mn. Perche io fo tragedie, et dico male di loro.
Eu. Per Nettuno tu patiressi anchor cose giuste, ma che machinatione et imaginatione hai tu da questo dì?
Mn. Che Agathon maestro di tragedie creda di venir à i sacrificij di Cerere.
Eu. A che far? dimi.
Mn. A predicare fra le donne, et se bisognerà, à dire per me.
Eu. Palesemente ò secretamente?
Mn. Secretamente, vestito con vesta di donna.
Eu. Cosa e galante et terribile secondo i tuoi costumi. per ciò che la fugazza è nostra per l’imaginare.
Eu. Taci.
Mn. Che cosa gli è mo?
Eu. Agathone vien fuora.
Mn. Et che è costui.
Eu. Quello disregolato.
Eu. Taci, ei parecchia di cantare.
Mn. O che canta qualche cosa de le vie de la formica.
Ag. Giovani vergini pigliate la sacra facella da portar à le inferne dee, à Cerere, et à Proserpina con la patria libera, ballate a’l suono.
Co. A qual de dei si fà hora la festa et il ballo? dimi. et fidelmente, cosa che appartiene à me, puoi adorare i dei.
Ag. Horsu musa hora arma Febo presidente de gli archi d’oro, che ha edificato i monti de’l paese de la terra Frigia.
Co. Alegrezza ò Febo da le belle canzoni, che preferisci il sacro dono ne i strassuonanti honori.
Ag. Et lodate quella vergine. che ne i monti selvosi habita, cantando Diana agreste.
Co. Seguite celebrando la riverenda, predicando la discendenza beata di Latona, Diana che non conosce il letto.
Ag. Et lodate Latona, et con il piede essercitate i balli de la terra d’Asia et fuor d’ordine, et ordinatamente, et i numerosi cenni, et rotationi de le belle gratie.
Mn. Che soave melodia ò riverende genetillidi, et feminile, et lasciva, et molle, che udendola io, sotto à questa sedia m’è venuta la tentatione. Hor ò giovane voglioti dimandare, che sei, secondo Eschilo da la Licurgia tragedia: donde sei mezz’huomo, che patria è la tua? che vestimenta? che confusion di vita? che parla il barbito co’l crocoto, et che cosa il bocal da l’oglio et il strosio? per che è cosa disconveniente, mò che compagnia di specchio et di spada? che sei poi tu ò giovane? sei forsi nodrigato come un’huomo? ove hai tu il membro virile? ove è la Chlena, ove le vesti Laconice? ma come donna certo sei nutrito. poi ove hai le poppe? che dici? che taci? ma veramente per melodia ti chiedo, poi che tu medesimo non lo vuoi dire.
Ag. O vecchio, vecchio, hò ben udito il vituperio per l’invidia, et non ti hò molestato. io porto la veste insieme con la sentenza. bisogna che un poeta habia i costumi circa à quelle favole che hà da fare. incontanente se alcun facesse favole donnesche, bisogna che’l corpo habia partecipatione de costumi.
Mn. Dunque sei menato su’l cavallo, et lo cacci, quando fai Fedria.
Mn. Quando rappresenterai i Satiri, chiamami, che io t’aiuto di dietro à quel fatto dirito io in piè.
Ag. Poi egli è una cosa de ignorante che’l poeta vega un che sia villano peloso. ma considera che quello Ibico et Anacreonte Teio, et Alceo, che circa la musica et il cantar si sono versati, portavano mitrie da donna et ballavano à la Ionica, et Frinocoo, che l’hai ben’udito à dire, et esso era bello, et da bello si vestiva. et per ciò adunque anchora erano belle le sue poesie et favole, perciò che è forza che la natura facia cose simili.
Mn. Per ciò adunque Filocle ch’è dishonesto, fa dishonestamente, et Zenocle anchora che è malo, fa male, et Theognide anchora ch’è freddo, fa freddamente.
Ag. A tutti è forza far cosi. et perche questo io ho conosciuto, mè istesso hò guarito, et sanato.
Mn. A che modo domenedio?
Ag. Cessa di baiare, per ciò che et io anchora era cosi fatto, essendo cosi grande et grosso, quando cominciai ad essere poeta.
Mn. Non per Giove, non t’hò invidia de la dottrina.
Eu. Ma per che causa sono venuto, lasciamiti dire.
Ag. Dì.
Mn. Agathone è huomo savio, chiunque può in brevità ben comprendere molte parole. et io da la commune calamita percosso son venuto à pregarti.
Mn. Le donne sono per ammazzarmi hogi ne le feste de la dea Cerere, perche dico male di loro.
Ag. Che aiuto puotemo noi darti?
Mn. Ogni aiuto: per ciò che sederò nascosamente frà le donne, tenuto che sia come donna, risponderai per mè et prudentemente mi salverai, perche tu solo dirai cose degne per mè.
Ag. Poi perche non gli rispondi tu personalmente à facia à facia?
Mn. Io te lo dirò. prima io son conosciuto, poi son canuto, et hò la barba, et tu sei bello bianco, raduto, hai la voce donnesca, sei molle, appariscente à veder.
Ag. Euripide.
Eu. Che cosa gli è?
Ag. Hai tu mai scritto poesie? T’alegri veder la luce, e il padre. non pensitu ch’egli s’alegri?
Eu. Io sì.
Ag. Hor non sperar, tuo mal grande, d’haverne noi sotto, per ciò che impazziressimo, ma tu quello che è tuo, portalo domesticamente: perche il dover vuole che si porti calamità non à i pianti, ma à le passioni.
Mn. Et pur tu anchora ò impudico hai largo il buco de’l sedere, non per parole, ma per passioni.
Eu. Che cosa è dunque che hai paura andar là?
Ag. Pegio morirei che tu.
Eu. A che modo?
Eu. U robare, per Giove subagitarla adunque a’l meno.
Ag. Ma la simulation per Giove stà cosi.
Eu. Perche adunque farai questo?
Ag. Non pensar gia tu.
Eu. O me disgratiatissimo, come son’io Euripide morto.
Mn. O carissimo, ò messere, tu medesimo non ti tradire.
Eu. A che modo farò io mò?
Mn. Fa che costui pianga di lungo. et mè pigliami et adoperami à che modo vuoi.
Eu. Hor su quando ti offerisci à me, cavati questo mantello.
Mn. Et gia il getto in terra. ma che mi vuoi fare?
Fu. Raderti qua, et brusciarti di sotto.
Mn. Ma fallo, se cosi à te pare, ò che non doveva mai darmiti ne le mani.
Eu. Agathone portami un poco una volta il rasore, dami adunque il rasore.
Ag. Tu istesso piglialo quà ne la guagina de gli rasori.
Eu. Sei eccellente, et valent’huomo, sedi, sgonfia la mascella destra.
Mn. Oime.
Eu. Ch’hai gridato? te gli cacciarò un palo, se non taci.
Eu. O tu ove corri?
Mn. Ne la chiesia de le reverende dee, non gia, nò nò per Cerere, non starò quì à farmi uccidere.
Eu. Non ti farai sbeffegiar da ogniuno se vai con una mascella raduta?
Mn. N’hò poco pensier io.
Eu. Non di gratia, non mi tradire. vien quà.
Mn. Disgratiato che son io.
Eu. Stà cheto, et guarda in su, dove ti voltitu?
Mn. My, my.
Eu. Che brontolitu? ogni cosa è stata fatta bene.
Mn. Oime sventurato, soldato legiero un’altra volta andarò à la guerra.
Eu. Non haver pensiere, che parerai molto appariscente. vuoi tu guardarti a’l specchio?
Mn. Se tu vuoi, portalo.
Eu. Ti veditu?
Mn. Non per Giove, ma Clistene.
Eu. Leva su. io ti brusciarò. conciati à guardar in su.
Mn. Oime infelice diventarò un porcellino, ò una rebeba di donna.
Eu. Portimi alcuno de là di dentro una candela ò una lume. inchinati et guarda giu, habi guarda hora de la alta coda.
Eu. Stà saldo, non dubitare.
Mn. Che degio star saldo,abbrusciato da’l fuoco?
Eu. Ma non vi è piu cosa alcuna. tu hai ben sofferito il piu.
Mn. Oime per tal abbrusciamento m’ho fatto brusciar tutto ciò che e à torno a’l culo.
Eu. Non pigliar noia, che un’altro te lo sorbirà via con una spongia.
Mn. Piagnerete dunque se un’altro mi lavarà il culo.
Eu. Agathone quando tu non voglij darneti, imprestane a’l meno la veste à costui, e il pettorale: per ciò che non dirai queste cose che non sono.
Ag. Pigliatela, et adoperatela, non dico de nò.
Eu. Mo perche la toglio?
Ag. Perche? pigliala da vestir prima il Crocoto.
Eu. Per Venere il dolce membro virile sa ben di buono.
Ag. Sottocingiti tosto, leva via hora il pettorale.
Eu. Ecco.
Mn. Hor su acconciami, et mettimi le calze.
Eu. Gli bisogna un sacchello e una mitria.
Ag. Quella è quella che si mette in testa, che io porto di notte.
Eu. Si per Giove et stà molto bene.
Mr. Staralla forsi bene à mè?
Ag. Certamente, ella stà benissimo.
Eu. Portami la veste tonda.
Ag. Tuolla giu de’l letto.
Ag. Piglia queste mie.
Mn. Che mi staranno bene?
Ag. Tu non hai appiacere à portar le scarpe larghe? tu sapi che hai ciò che ti bisogna.
Mn. Tosto tosto alcuno mi involga dentro.
Eu. Huomo è gia costui à noi, et hor semina in tal forma, ma se parlarai, cerca che con la voce sapi far bene da donna et verisimelmente.
Mn. Mi approvarò.
Eu. Và adunque.
Mn. Non, per Apolline, nò, se ben non me lo giurasti.
Eu. Che cosa?
Mn. Che tu m’habi à salvare in ogni guisa, se mi averrà mal niuno.
Eu. Giuro adunque l’ethere, ove habita Giove. che piu che la cohabitatione d’Hippocrate? giuro adunque affatto tutti i dei.
Mn. Arricordati adunque di questo, che ’l cuore hà giurato, ma la lingua non hà mica giurato, ne anche
io t’ho fatto giurare. giubilano, fanno festa, gridano le donne, et la sacrata compagnia et pompa si parecchia.
Eu. Fa tosto, affrettati, che si sente il segno de la predica, che si hà à fare ne la chiesia di Cerere, et io me ne vado via.
Pr. Benedetto sia, benedetto sia. pregate le sante portalege Cerere et la figlia, et Pluto, et la bella Nobeltà, et la Terra nutrice de fanciulli, et Mercurio et le Gratie: che questa predica et questa congregatione presente facciano essere bellissime et buonissime, in grand’utilità de la cità degli Atheniesi, et felici à noi medesimi. et pregate che di queste donne quella che fa et dice cose ottime a’l popolo Atheniese, possa superar tutte le altre. pregate, cosa ch’è anchor à voi buona. iè Peòn, iè Peòn, iè Peòn, alegriamosi.
Co. Di compagnia preghiamo, che queste orationi et preghiere siano fatte compitamente et à la cità, et a’l popolo. son buonissime à che elle convengono, à quelli che si consultano di vincere, et à che ingannano, et sono violatrici d’i patti et giuramenti constabiliti et fermi per le legi, in danno, per guadagno. ò che cercano cangiare et mutare i decreti, et la lege: et dicono le cose secrete à i nostri nimici, ò menano i Medi ne’l nostro paese, per ciò che con suo danno mal si diportano, et fanno ingiuria à la cità. ma ò Giove onnipotente conferma queste cose, à ciò che i dei ne stiano apresso, et siano propicij, anchor che gli siano le donne.
Pr. Oda ogn’un, questo è paruto cosi a’l senato de le donne, à cui Timocle era preside, Lisilla faceva il scrivano: e disse Sostrata, stà mattina de le feste di Cerere, di far la congregatione de le donne à mezzo dì, ne la quale havevamo assai tempo et di trattare prima d’Euripide, che cosa bisogna ch’egli patisca, per ciò che pare ingiuriarne tutte noi. chi vuol predicare?
Una d. Io.
Un’al. d. Per dir poche parole io son venuta. per ciò che de le altre cose questa donna ha ben ripreso. ma quello che ho patito, ciò voglio dire, che à me è ben morto il marito in Cipro, che mi ha lasciato cinque figliuolini, che io à pena facendo de le corone ò ghirlande, gli faceva le spese fra i mirti. à l’hora adunque, ma ancho malamente mi spesiava. et mò costui ne le tragedie ha fatto che gli huomini credono che non vi sono i dei. onde piu non vendiamo ne anche la metà de le corone. hor dunque tutte vi aviso, et dico di punire quest’huomo per molte cause. perche ei ne fà ò donne di male villanie, come se fosse allevato ne le berbe salvatiche. ma vomene in piazza, perche bisogna far vinti corone sacrificatorie.
Co. Un’altra donna anchora un poco piu ornata di questa audacia, che la prima, hora è apparuta. come ha ella detto saviamente, non cose fuora di proposito. et ha ben buon cervello, et un sentimento di molte doppie. ne cose imprudenti, ma tutte probabili. et bisogna che questo huomo ne paghi la pena manifestamente di questa ingiuria.
Co. Questo è pur maraviglia, d’onde sia trovata questa cosa, et che paese habia allevato costei cosi arrogante. che non haverei mai stimato che questa scelerata e rea femina fosse stata per dire queste cose sì manifestamente senza rispetto ò vergogna alcuna, ne che mai fosse stata per haver ardimento. ma ogni cosa può ben già essere. et laudo quest’antico proverbio, che sotto ogni pietra da per tutto bisogna guardare che ’l dicitor non ti morda. pur tuttavia che le donne siano per natura imprudenti, niuna cosa è pegiore fra tutte le cose, eccetto che le femine.
Don. Non per la cacciatrice Diana ò donne, non ben la intendete. ma ò che sete state incantate, ò che vi è intravenuto qualche altro magior male, che noi tutte lasciamo che costei de’l diavolo ne facia si fatte villanie, se pur v’è alcuna? se nò, noi medesime, et le fanticelle togliamo de la cenere in qualche luogo, et andiamole à pelar la natura, à ciò che à questa femina essendo femina, sia insegnato à non dir mal da quì inani de le donne.
Soc. Nò, nò, la natura ò donne. che se gli è la libertà de’l dire, ciò sia lecito à noi medesime tutte, che quì siamo. poi dissi quello che seppi cose giuste in favor d’Euripide. per questo bisogna che io sia pelata et pagarvi la pena?
Soc. Io so bene la causa, che non diresti già una essere Penelope di queste femine di questo tempo, et Fedre le potresti dire tutte universalmente.
Don. Udite ò donne che ha detto questa ribalda et trista anchora à noi tutte.
Soc. Et in fè di dio non ho anchora detto ciò che so. volete un poco che ne dica di piu?
Don. Ma piu non potresti, perche ciò che tu sapevi l’hai butato fuora.
Soc. Non per Giove, ne anche di mille parti una di quelle cose che faciamo. poi non ho gia detto (veditu?) che togliamo qualche ghiozza d’oglio, poi pigliamo il mangiare per una canna.
Don. Postu crepare.
Soc. Et che diamo la carne à le ruffiane ne le feste Apaturie, et poi diciamo che gli è stato il gatto.
Don. Trista me, tu dici de le baie.
Soc. Ne anche non ho detto, che una moglie percosse il marito con la segure: ne che un’altra volta con un beveragio fece impazzire il marito, ne che altre volte una gli fece una busa sotto a’l bagno.
Don. Fusti morta.
Don. Queste cose sono mò da tolerarle?
So. Ne anchora che tu, la fante partorendo un fanciullino, te l’hai posto sotto à te medesima, et la tua fanciullina hai posta sotto à quella.
Don. Non per le dee, non la fugirai tu, dicendo questo, ma ti pelarò giu i peli.
So. Per Giove tu non mi toccherai ne anche.
Don. Et pur ecco, et pur ecco, piglia sta vesta ò Filista.
So. Fatti in quà un poco, et io tè, per Diana.
Don. Che farai?
So. La fugazza sesamina che hai mangiata, tè la farò cacare.
Co. Cessate di gridare, che una femina à noi corre con fretta. Hora adunque che noi siamo insieme, tacete, à ciò che possiamo udire saviamente, che cosa ella dirà.
Cli. Care le mie donne, parenti de i mei costumi, che io vi sia amico, le ree femine lo sanno bene. per ciò che impazzisco come fanno le donne, et sempre son vostro interprete, et hora udita una gran cosa di vuoi poco piu avanti detta per tutta la piazza, vengo per dirla, et farlavi sapere, à ciò che vegiate et osservate, et che non n’intervenga sendo di sproviste et non fornite una cosa terribile e grande.
Cli. Dice che Euripide hoggi quà hà mandato un’huomo vecchio, suo socero.
Co. A che fare, ò per cui consiglio?
Cl. A ciò che di ciò che vi consigliate et sete per fare, egli fosse spione et de i consiglij et de le parole.
Co. Et à che modo è stato nascoso trà le donne egli ch’è huomo?
Cli. Euripide gli hà dato il fuoco, et eglile hà stirpato i peli, et de’l resto come una donna l’ha adornato vestito.
So. Credete voi à costui queste cose? qual huomo sì pazzo, chi sofferisse che gli fossero cavati i peli? non credo miga io che la sia cosi. ò dee honorande.
Cli. Tu cianci. io non sarei gia venuto à farlo sapere, se non havesse udito questo da quelli che’l sanno certo.
Co. Questa cosa si annuntia grave, ma ò donne non bisogna dimorare, ma spionare et cercar l’huomo lì ove egli s’è ascoso, à noi sedendo. et tu anchora trovalo à ciò che habi ò compagno questa et quella gratia.
Cl. Lasciami un poco vedere, che sei tu per la prima?
So. Ove si voltarà alcuna?
Cl. Perche sete ad esser cercate.
So. Disgratiata me.
Don. Mi domandi tu che sono? son moglie di Cleonimo.
Co. La conosciamo sì, hor guarda le altre.
Cl. Et questa ch’ella, che ha ’l fanciullino?
Don. Questa ella è la mia balia.
So. Me ne muoio.
Cl. O tu dove vai? stà quì, che mal è questo?
So. Lasciami andare à pissare, senza vergogna che tu sè.
Cl. Tu fa ciò, che dici, che io l’aspetto quì.
Co. Aspettala pur, et cerca ben se è quella: perche ò ’l mio huomo quella sola non conosciamo.
Cl. Tu pissi pur ben’ assai.
So. Sì veramente ò povero, che hò male ne la vesica. hieri mangiai d’i cardami.
Cl. Che? cardami? non verrai tu quà à mè?
So. Perche mi tiri tu, che sono ammalata?
Cl. Dimi, chi è tuo marito?
So. Tu domandi ch’è mio marito? conoscitu cotal, quello da Cothocidi?
Cl. Cotale. quale? è egli quel tale che è stato altre volte?
So. Cotale figliuol di cotale.
Cl. Tu mi pari dir de le zancie. sei tu mai piu venuta quà de le altre volte?
So. Sì per Giove.
Cl. Quanti anni sono? et qual è la tua compagna?
So. N’hò ben io una.
Cl. Oime meschino, niente dici.
So. Bevevamo.
Don. Qual era ’l secondo doppo questo?
So. Avanti bevevamo.
Don. Questo certo l’hai udito da qualch’uno, qual era il terzo?
So. Un vasselino mi domandò una donna fuorastiera. non era mica una mastella da l’orina.
Don. Niente dici. quà, vien quà ò Clistene, questo è quell’huomo che dici.
Cl. Che farò io poi?
Don. Spoglialo, per ciò che non dice niuna cosa di vero, ne di stabile.
So. Et poi spogliarete una madre di nuove figliuoli.
Don. Slargati presto il pettorale ò senza vergogna. come pare ella robusta et gaiarda. et per Giove non hà gia le poppe si come habiamo noi.
So. Ma sono sterile, et non ho mai havuto ’l ventre.
Don. Hor dunque sei madre di nuove figliuoli? leva su diritto, dove cacciatu sotto la verga? questo gia l’hà abbassato et è ben grossa, et ben colorita.
Cl. Et ove è?
Don. Un’altra volta và à la parte dinanzi.
Don. Mà qui viene un’altra volta.
Cl. Tu tiri fuora il membro piu grosso d’i Corinthij.
Don. Questo ribaldone adunque di queste cose n’accusava per Euripide.
So. Tristo che son io, in che travaglij m’hò io involto?
Don. Horsu che facciamo? guardate ben costui, che ei non fuga et vaga via. et io trà cotanto ’l farò sapere à quelli di consiglio.
Co. Noi dunque doppo questa nouella, bisogna che habiamo le torze accese sotto cinte molto bene et da huomo. et cercate tutte ignude, se per sorte gli fusse entrato alcun’altro huomo, et à torno correte à tutta la corte, et cercate le sceme et i passagi.
Co. Ma pare à noi che ogni cosa quasi sia stata ispianata bene. però non vego niuno altro chi sega.
Don. Lascia e dove fugitu? tu, tu non starai? meschiana che son io, meschina, et se mi toglie ’l fanciullino da la tetta, legiero che mi è.
Mn. Grida, tu non allattarai mai questo fanciullo, se non mi lasciate andare: ma quì ne le gambe ferito con questa spada sanguinarà l’altare con le rossegiante vene.
Don. O trista me, donne non mi aiutarete? non dirizzarete lo stendardo per lo gridore grande. e mi sprezzarete lasciandomi privar de’l figlio unico?
Mn. Come vi cominciarò io à dire la sua troppa insolentia?
Co. Queste cose (dimi un poco) et questi oltragi sono da tolerare?
Don. Non da sopportar nò, che hà un mio fanciullino che mi ha rapito.
Co. Che direbe mò un’altro circa questo, che costui non si vergogni à far tai cose?
Mn. Et non hò io anchora finito.
Don. Ma tu sei pur venuto, onde vieni et facilmente fugi no ’l dirai, come bai fatto et fugito la sceleragine? tu patirai ben le pene.
Mn. Pur à ciò che questo non si faccia, non mi tiro in dietro.
Co. Chi è stato adunque, chi è stato tuo coagiutore de gli dij immortali à venir con inique opere?
Mn. In darno parlate, et io non lasciarò questa giovane.
Mn. Impizza sotto et abbruscia tu, et spogliati presto questo Cretico vestimento, et tu de la morte
ò fanciulla incolpa tua madre sola de le donne. che cosa è questa? un’utre pien di vino è diventata la putta, et con questo ha le scarpe à la Persiana. ò donne mie caldissime ò bibacissime, et che con ogni arte vi sforzate et pensate da bevere, ò gran guadagno à gli hosti, et à voi danno anchora, à i vasetti, et a’l sottocoprimento de le vesti.
Don. Fà venir de le fascine assai ò Mania, et cacciale sotto.
Mn. Ma tu rispondimi di questo, ditu che questa fanciulla hai partorito?
Don. Diece mesi io l’ho portata.
Mn. Tu l’hai portata?
Don. Sì per Diana.
Mn. Che tien tre hemine? ò à che modo? dillomi.
Don. Che m’hai fatto? hai spogliato la mia fanciullina ò sfaciatazzo?
Mn. Si fatta, si grande?
Don. Piciola per Giove.
Mn. Quanti anni ha ch’è nata? tre stari, ò quatro?
Don. Quasi tanto quanto è da le feste di Bacco. ma rendilami.
Mn. Non per Apolline questa fanciullina.
Don. Abbrusciaremo dunque te.
Don. Ah di gratia non fare, ma condannami in ciò che vuoi per questa.
Mn. Naturalmente sei amatrice de figliuolini. ma nulla di meno questa sarà strangolata.
Don. O figliuolina mia: dammi un vase ò Mannia da tuore il sangue dentro, à ciò che a’l meno possa pigliar il sangue de la mia figliuolina.
Mn. Metti sotto quel vase, che gli voglio var questo apiacere.
Don. Postu morir malamente come sei tu invidioso, et inimico.
Mn. Questa è la pelle de’l sacerdote.
Don. Perche è ella de’l sacerdote?
Mn. Piglia questa.
Un’al. d. O ben sventurata Mica, chi t’ha tolto la figliuolina? chi t’ha portato via la cara figlioletta?
Don. Questo boia. ma poi che sei quì, falle la guarda, à ciò che io me ne vaga con Clistene, et dica à i consuli ciò che ha fatto questo ribaldo.
Don. Che parecchi tu anchora, ò che t’imagini tosto vedrai l’amara Helena, se non stai savio, fino à
tanto che alcuno de supremi magistrati apparirà.
Mn. Queste sono pure e belle correnti vergini del Nilo, che in luogo de la piova celeste adaqua la
terra bianca d’Egitto, e bagna il popol negro.
Don. Sei trincato et tristo per Hecate lucifera.
Mn. Et io ho per patria una terra di non poca nominanza che è Sparta, e mio padre è Tindaro.
Don. Et tu ò morbo hai quello per padre, anzi hai Frinonda?
Mn. Et io sono chiamata Helena.
Don. Un’altra volta diventi femina, avanti che facij la penitentia de l’altra simulation di donna?
Mn. E molte anime per me ne l’onde de’l Scamandro sono morte.
Don. Piacesse à i dei che tu anchora.
Euripide in forma di Menelao. Chi è patrone di queste case sarate et chiuse? chi allogiarebe quelli che hanno patito naufragio e fortuna ne’l mare?
Mn. Questi sono i palazzi di Proteo.
Eu. Di qual Proteo.
Don. O sventuratissimo, ei se ne mente, sì per le dee. che diece anni fà che è morta quella femina.
Eu. Et in che paese siamo noi venuti con la barca?
Mn. In Egitto.
Eu. O infelice me dove habiamo navigato?
Don. Creditu niente à questo mal aviato che dice baie? questa è la chiesa di Cerere.
Eu. Et esso Proteo è dentro ò di fuora.
Don. Non vi e. à che modo ò forastiero non ti vien nausea, come che hai udito che è morta Protea? poi
domandi se è dentro ò di fuora?
Eu. Oh, oh che è morta, e dove è stata sotterata?
Mn. Questo è il suo sepolcro, ove stiamo à sedere.
Don. Ti venga la morte e moriresti bene, che tu osi di chiamare questo altare un sepolcro.
Eu. Et perche tu ò forastiera coperta di velo, stai à sedere su queste sedie de sepolcri?
Mn. Sono costretta immescolare il letto con le nozze a’l figliuol di Proteo.
Mn. Baia e feriscimi il corpo di vituperio.
Eu. Forastiera, che vecchia è questa che ti vitupera?
Mn. Costei è Theonoe, figlia di Proteo.
Don. Non per le dee, son io Critilla per la dea da Gargetto. et tu sei mal’huomo e ribaldone.
Mn. Dì pur ciò che vuoi non mi maritarò mica io mai à tuo fratello, tradendo mio marito Menelao chi è à Troia.
Eu. Donna che hai detto? volta mò in quà le punte de gli occhi.
Mn. Mi arrossisco per te, havendo havuto male à le guancie.
Eu. Che cosa è questa? io ho che non posso ragionare. ò dei mò che facia vegio? che donna sei tu?
Mn. E tu che sei? dirò ben’anchora io come dici tu.
Eu. Sei tu una qualche donna di Grecia, ò da quei luoghi?
Mn. Di Grecia, ma voglio sapere anche io che sei tu e d’onde.
Eu. Parmi ò donna che molto somiglij ad Helena.
Mn. Et tu à Menelao, in quanto mi dimostrano i ceglij.
Eu. Hai dunque conosciuto veramente un’huomo sventuratissimo.
Don. Piagnerà, per le dee, chiunque ti menerà via, battuto con la facella.
Eu. Tu mi vieti che io meni mia moglie figliuola di Tindaro, in Sparta?
Don. Oime, come pari tu d’esser cattivo e malitioso, et un qualche compagno de gli consiglij di costui. non senza consideratione poco sa dicevate molte cose d’Egitto. ma costui farà ben la penitentia, che quì viene il soprastante, et arciero, ò sbirro, ò zaffo.
Eu. Questa è una mala cosa, ma nascosamente bisogna partirsi.
Mn. Et io meschina che farò io?
Eu. Stà cheta, che io non t’abandonarò mai, se haverò vita, se non mi lasciaranno le infinite machinationi.
Don. Questa corda da piscatore non hà gia tirato à se niente.
Soprastante. Questo è ’l sciagurato, che diceva à noi Clistene. ò tu che fugitu? ò zaffo menalo dentro e ligalo. in su quell’ascia, e poi quì fallo stare et habine guardia, et non gli lasciare andar niuno. ma tien la scoriata et batti color che gli vogliono andare.
Mn. O soprastante per la man destra concava che sei solito à sporgermi, se alcuno mi darà danari, fammi questa gratia e concedimi una poca cosa, ben che habia à morire.
Pri. Che gratia degio farti?
Mn. Comanda che quel zaffo che mi spoglia, mi lighi su una tavola, à ciò che io vecchio huomo non dia riso à i crocoti et à le mitrie, dando da mangiar à i corvi.
Pri. A’l senato è paruto di legarti sendo cosi fatto, à ciò che sij essempij à gli altri che sono circostanti.
Mn. Iappapeax ò Crocoto che cosa hai fatto? e non vi è piu speranza alcuna di salute à noi.
Zaffo. Quì piangerai hora à l’aere.
Mn. O zaffo ti prego.
Z. Non mi pregar tu.
Z. Ma che farò io questo?
Mn. Aime meschino, tu glie’l cacciarai anchor piu.
Z. Anchor piu se vuoi.
Mn. Attatè, attatè fosti isquartato.
Z. Taci disgratiato vecchio. horsu ti porto una stuora per custodirti.
Mn. Queste cose sì buone hò acquistato per causa d’Euripide ah ah ò dei ò Giove salvatore, egli è la speranza. un’huomo pare non volermi lasciar perire, ma Perseo celatamente di lungo correndo mi dimostra un segno, che mi bisogna diventar Andromeda, et hò ogni modo i legami. chiaro è dunque che ei venirà à liberarmi, per ciò che di quì oltra non sarebe volato.
Euripide in fogia di Echo. Care giovani, care, à che modo mi partirò io e pigliarò la Scita. odi ò che guardi le nimfe ne le spelonche fammi cenno, lasciami venire à trovar mia moglie.
Euripide come echo. Ben ti venga ò cara figlia, et il padre tuo Cefeo, che quì t’ha posto, i dei ammazzino.
Mn. Et tu che sei mai, che hai compassione de la mia calamità?
E. Echo ribattitrice de le parole, risibillatrice, che pur anchor l’anno passato in questo medesimo luogo io istessa difesi Euripide. ma ò figlia bisogna che tu facci tante cose, e piagnere miserabilmente.
Mn. Et che ne’l pianto poi tu mi rispondi.
E. Mi curarò ben io di questo, ma comincia à dire.
E. Per l’olimpo?
Mn. Che cosa mò io Andromeda, che parte de gli altri mali m’è toccata?
E. Parte m’è toccata.
Mn. Meschina per la morte.
E. Meschina per la morte.
Mn. Tu mi rovini ò vecchia cianciando.
E. Cianciando.
Mn. In fe di Dio tu sei fastidiosa, tu se venuta à ’mpiecarti bene.
E. Bene.
Mn. O da bene lasciami cantar sola, et à me sarà molto à grato. cessa.
E. Cessa.
Mn. Va à le forche.
E. Va à le forche.
Mn. Che disgratia è questa?
E. che disgratia è questa?
Mn. Baie.
E. Baie.
Mn. Piangi.
E. Piangi.
Mn. Gemisci.
E. Gemisci.
Sc. O tu che cianci?
E. O tu che cianci?
E. Chiamarò i signori de la cità.
Sc. Che disgratia?
E. Che disgratia?
Sc. Che voce è questa?
E. Che voce è questa?
Sc. Che cianci?
E. Che cianci?
Sc. Piangerai.
E. Piangerai.
Sc. Ti lamentarai.
E. Ti lamenterai.
Sc. Non per Giove, ma questa donna è quì apresso.
E. Quì apresso.
Sc. Qu’è la scelerata?
Mn. Et pur fuge.
Sc. Ove fugi? ove? non sarai pigliata? tu brontoli pur anchora.
E. Tu brontoli pur anchora.
Sc. Piglia la trista.
E. Piglia la trista.
Sc. Femina loquace et scelerata.
Euripide in forma di Perseo. O dei di qual terra de Barbari siamo arrivati, co’l veloce talare? per ciò che per mezzo l’ethere toglio la via, hò ben il piede alato io Perseo navigando ad Argo, et porto la testa di Gorgone.
Eu. Sì dico io.
Sc. E dico anchor io la Gorgone. lascia, che dosso vegio, che vergine à le dee simile, à guisa di nave à la riva aggiunta?
Socero in fogia d’Andromeda. O forastiero habia compassione di mè mal’aventurata, disligami da queste catene.
Sc. Non cianciar tu. ribalda hai tu ardimento? tu cianci, che sei per morire?
Eu. O giovane di te hò compassione vedendoti appiccata.
Sc. Non è una giovane, ma è un vecchio scelerato e ladro e malfattore.
Eu. Tu cianci ò Scita. perche costei è Andromeda figlia di Cefeo.
Sc. Guardale ’l tanferlone, ti pare forsi picciolo?
Eu. Hor qua, dà quà la mano, che io toccarò una putta, dà quà Scita. perciò che si come ogni huomo è pigliato da qualche difetto, cosi l’amor di questa giovane me hà preso.
Sc. Non te n’hò invidia punto. ma se non le havesti havuto invidia de’l culo ch’hà voltato in quà, gliè lo inficcaresti menandolo via.
Eu. Mò che non mi la lascitu disligare ò Scita, et che mi venga su’l letto, et ne la camera sposalitia?
Sc. Se n’hai sì gran voglia, chiava costei ch’è un vecchio. tu farai un buco ne la tavola, e glie lo puntarai suso.
Sc. Ti darò de le busse.
Eu. Ma pur farò questo.
Sc. Questa spada adunque ti taglierà via la testa.
Eu. Ah ah, che farò io? à che consiglij mi volgerò? ma non pigliarebe la natura barbara. perche apportando ad ignoranti nuovi consigli, indarno spenderesti il tempo e la fattica. ma un’altro buon consiglio è da dare à costui, conveniente.
Sc. La malitiosa volpe com’ella fà ben la simia.
Mn. Arricordati Perseo ch’abbandoni me cattivella.
Sc. Anchor tu disideri pur de le botte.
Co. Io ho per lege di chiamar quà à me la dea Pallade ne’l coro de le vergini, giovane non maritata che habita ne la nostra cità et ha sola il manifesto imperio, e si chiama difensatrice. fatti vedere ò tu che in grand’odio hai i tiranni, come è ’l devere, il popolo de le donne t’invoca, ma vien à me, et habi teco la pace amica de le feste. venite alegre, propitie, riverende ne’l vostro bosco, ne’l qual à gli huomini non è lecito guardare i sacrificij venerabili de le dee, à ciò che faciate luce immortale con le facelle, fatevi inanzi, venite, vi preghiamo ò Cerere e Proserpina molto honorande: se ancho in prima sete mai venute propitie e favoreuoli, venite adesso di gratia qui à noi.
Co. A che bisogno poi ne portitu questo consiglio?
Eu. Questo mio socero è qui alligato ad una tavola. Se dunque io pigliarò questo, non sentirete mai da me male parole. ma se non farete secondo il mio volere, di quello che à casa fate nascosamente, ne accusarò à i vostri mariti ritornati da la guerra, et che vi sono apresso.
Co. Questo, quanto sia per noi, sapi che ti sia persuaso, ma questo barbaro persuadi, et fà ch’ei facia à tuo modo.
Eu. E ben cosa che importa à me e à te ò Elafione, à far ricordar di quello che ti diceva su la via. primieramente adunque vieni et balla con la veste tirata su. e tu ò Teredone sgonfiati à la Persiana.
Sc. Che romor è questo? che m’invita, che m’incita à questa festa?
Eu. La giovane ha da far bei giuochi ò zaffo. ch’ella viene à ballar in presenza di questi huomini.
Sc. Balli, et giuochi, non le vietarò io. come è ella agevole, à guisa d’un pulice sopra d’una coltra pelosa.
Euripide vestito da vecchia. Portami su quella veste ò figlia, e sedi giu su i ginocchi de’l Scita. aslonga in fuora i piedi, che ti discalzarò.
Eu. Suona tu presto. anchora hai tema de lo Scita?
Sc. Che buon culo.
Eu. Piangerai tu se non stai dentro. egli il tira fuora e dentro nudo e dritto.
Sc. Stà bene, ell’hà la bella forma à torno à la moglie de’l capello.
Eu. La cosa và bene, piglia la vestazzuola. già è hora che noi andiamo.
Sc. Che non mi lasciarai tu in prima?
Eu. Sì sì, bascialo.
Sc. Papapa pe che lingua dolce come il mele Ateniese? che non dormitu apresso di me?
Eu. Stà con dio ò zaffo che non si potrebe mica far questo.
Sc. Sì la mia vecchietta cosa che à grado mi fia.
Eu. Mi darai tu adunque la drachma?
Sc. Sì, sì, che te la darò.
Eu. Porta adunque i danari.
Sc. Ma non ho niente.
Eu. Ma piglia da chiavare. poi li porterai.
Sc. Seguimi figlio. ma tu habi discretion à costei per amor de la vecchiarella. e come hai tu nome?
Eu. Artemisia.
Sc. Aricordati dunque de’l nome d’Artomussia.
So. Io haverò ben cura di questa, se una volta sarò liberato.
Eu. Sij disligato cosa che è per te, fugi avanti che ’l zaffo venga à pigliarti.
So. Et io facio cosi.
Sc. O vecchietta, che bella figliuola tu hai, e non dispiacevole, ma mansueta. ove è la vecchia ch’era
quì? oime oime son io rovinato. ove è il vecchio ch’era quì? o vecchietta, ò vecchia, non mi piace ò vecchietta. Artamussia m’ha ingannato. corri tu quanto tu puoi. e tu chiavi ben, che m’hai ingannato. oime che farò io? ove è andata la vecchietta, Artamussia.
Co. Tu cerchi la vecchia, che ha portato i suoni?
Sc. Sì, sì l’hai veduta?
Co. E andata via di quà, ella medesima, et un vecchio le andava dietro.
Sc. La vecchia haveva per ventura la crocota?
Co. Sì dico io. anchor tu l’arrivaresli se le andasti dietro.
Sc. O trista vecchia. è corsa per questa via l’Artamussia?
Co. Và in su di lungo, corrile dietro. dove corri? non vai un’altra volta per di quà? per contrario corri.
Co. Corri mò à le forche con il vento à seconda. Ma bastevolmente da noi s’è udito. onde è hora che ciascuno vaga à casa sua. e le dee legifere ne ritribuiscano per questo buona gratia.
Fine de le Cereali d’Aristofane.
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