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Le Danaidi/Libro primo/L'ultimo viaggio di Ulisse

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L'ultimo viaggio di Ulisse

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L'ultimo viaggio di Ulisse
Libro primo - Il Titano sepolto Libro secondo

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L'ULTIMO VIAGGIO DI ULISSE(2)








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I.


Già quattr'anni passâr dappoi che Ulisse
     In Itaca tornò. Quattr'anni ei visse
     In compagnia della fedel consorte
     E del caro figliuol: grato alla sorte
     Che dall'ira de' venti e del vorace
     Mar scampato l'avea; godendo in pace
     De' sudati riposi e del sonoro
     Applauso della Fama, e in coppe d'oro
     Bevendo il vin de' floridi vigneti
     Che dal padre eredò. Spesso co' lieti
     Compagni antichi delle sue fortune,
     Sedendo a mensa, o al foco, ei la comune
     Vita di riandar si dilettava
     Col pensier vigilante: e memorava
     D'Ilio le pugne, e dell'invitto Achille
     Il magnanimo sdegno, e di ben mille
     Eroi le gesta invidiate e chiare;
     E memorava dell'incerto mare

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     I portenti e i perigli, e il covo atroce
     Di Polifemo, e la bugiarda voce
     Delle vaghe sirene, e a parte a parte,
     Di Calipso e di Circe i vezzi e l’arte.
     Note cose ei narrava, e già da molti
     E molt’anni trascorse; eppur con volti
     Pallidi d’ansia, e con immote ciglia,
     Come fanciulli a cui di meraviglia
     Nova sieno cagion le antiche fole,
     Bevevan l’onda delle sue parole
     Quei prodi: e in cotal guisa a lui d’intorno
     Spesso li colse, rinascendo, il giorno.

Ma tranquilli, uniformi, in pace e in gioco
     Passar altri quattr’anni: e a poco a poco
     D’Ulisse il labbro ammutolì, l’arguto
     Riso, onde gli atrii già sonâr, fu muto,
     E una torbida nube il guardo acceso,
     L’ampia fronte oscurò. Non già che il peso
     Ei dell’età sentisse, o di celato
     Morbo l’insidia, o di nemico fato
     L’ira funesta paventasse e i danni.
     Non così salde mai come in quegli anni

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     Le membra egli ebbe, né sì pronto e forte
     Mai l'intelletto, né fu mai la sorte
     Alle sue case più benigna e al regno;
     Ma sottil come tossico un disdegno
     Di se stesso e d'altrui lento serpeva
     Nelle vene d'Ulisse; e qual si leva
     Da ree paludi accidïosa e tetra
     Nebbia che infosca il sole, occupa l'etra,
     Tale in Ulisse si levava il tedio
     E al cor poneagli ed alla mente assedio.

Spesso, quando stridea più crudo il verno,
     E i dì volgean più torbi, egli al paterno
     Pio focolare, ove di quercia o d'olmo
     Annoso tronco inceneria, nel colmo
     Della notte sedea tacito e solo,
     Guatando come trasognato il volo
     Delle fulve scintille in fosca avvolte
     E densa onda di fumo. Oh, quante volte,
     Fuggendo ogni uom, veduto fu, nell'ora
     Che il giorno manca e il ciel si trascolora,
     Mirar dal ciglio di scoscesa rupe
     L'arroventato sol che nelle cupe

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     Voragini del mar lento scendea!
     O fantasma d'incognita galea
     Fremebondo spiar, là, dell'acceso
     Orizzonte sul curvo orlo sospeso!
     Ovver d'uccelli peregrini un denso
     Stuolo, di là dal mar, per l'etra immenso,
     A recondite plaghe alto volanti!
     E il cor nel petto gli bolliva! Oh quanti
     Vide egli pur de' suoi compagni, in quello
     Stesso modo, inquïeti, e di rovello
     Tacito pieni, errar lungo le sponde
     Cui sempre sferza il vento e batton l'onde!
     E l'un l'altro squadrava e negli strutti
     Volti un solo pensier leggeasi a tutti.

Volse così lunga stagion, per sino
     A un di che l'immutabile destino
     A novi casi, a novo error non vile
     Prefisso avea. Già l'amoroso aprile
     Discingeva alle rose il sen vermiglio,
     Quando un mattino di Laerte il figlio,
     Levato innanzi al sol, fece da un messo
     I soci suoi richiedere a consesso

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     In cima a un colle che l'aperto grembo
     Scopre del mar, sino all'estremo lembo
     Dell'orïente. Ivi di lucid'oro
     Cinta la fronte augusta, in mezzo a loro
     Egli apparì, tale nel maschio volto,
     Tal nel nobile incesso e nel raccolto
     Vigor marmoreo delle membra, quale
     Apparir già solea nel marzïale
     Cimento, là sui verdi campi dove
     Fu Troja un dì. Ivi, com'uom di nuove
     Speranze lieto e di giocondi auspici,
     Ridente apparve e salutò gli amici:
     Fatto poi dispensar nelle forbite
     Patere il sangue dell'ambrosia vite,
     A ber seco invitolli, ed egli primo
     Bevve, adorando il sol, che fuor dell'imo
     Gorgo spuntava a sfolgorare il mondo.
     Alfin, simile a un nume, e tra profondo
     Silenzio, a favellar prese in tal forma.
     “Compagni, amici! o voi cui sola norma
     Fu sempre e fu solo desio la gloria;
     Avventurosi eroi, la cui memoria
     Non perirà, se fra l'umana gente
     Ogni nobile orgoglio, ogni fervente

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     Spirto, ogni pregio di valor non pera;
     Le mie parole udite. Ad uom di vera
     Virtù precinto e per gran fatti egregio
     È pena l'ozio, onta la pace, sfregio
     La securtà. Qual è di voi che questa
     Vita all'antica, e le passate gesta
     Col presente torpor paragonando,
     Dite, qual è di voi sì miserando,
     Che da vergogna e da rimorso il core
     Addentar non si senta? Oh, tristo errore!
     O, gran viltà! Noi che di Troja l'are
     Vertemmo al suol; noi che per tanto mare
     Gimmo raminghi, d'inauditi mali,
     D'intentate fatiche e di mortali
     Perigli esperti, ora noi gli anni in pigra
     Quïete logoriam, che ne denigra
     Agli stessi occhi nostri e ne fa vili.
     Che più? se in tutto non si fêr servili
     Gli animi vostri; se oblïato in tutto
     Il nome vostro non avete, e il frutto
     Di vostr'opere antiche, or m'ascoltate.
     Già stringe il tempo, già ne son contate
     L'ore. Deh, non lasciam che in tanto oblio
     Pur di noi stessi, in così basso e rio

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     Stato ne colga l'aborrita morte.
     Anzi l'ultimo sol, di noi, del forte
     Nostro lignaggio rifacciameli degni.
     Rompiam gl'indugi; i frivoli ritegni
     Rimoviamo oramai. Tentar ne giovi
     Anche una volta il dubbio caso, e novi
     Mari solcar, premere ignote arene,
     Cercar genti remote; al male e al bene
     Parati a un modo; alla comun salute
     Devoti sempre; e di non più vedute
     Meraviglie i beati occhi pascendo.
     Non io per vano imaginar m'accendo.
     Di là dai segni ond'ha il confin prescritto
     Agli umani ardimenti Ercole invitto,
     Di là da Calpe si distende un mare
     Ignoto, il quale altro confìn non pare
     Aver che il cielo; il cupo mar di Crono,
     Che ribollendo e sibilando il prono
     E focoso tranghiotte orbe del sole.
     Chi potria rinarrar con le parole
     Tutti i prodigi onde quel mare è pieno?
     Molte quivi sbocciar dal vitreo seno,
     Il qual fondo non ha, si veggon, pari
     A canestre di fior nitidi e rari,

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     O a lucenti smeraldi, isole ascose,
     Dove sedi beate, e avventurose
     Genti; incognito il mal, dell'aspro inverno
     Sconosciuti i rigori, e sempiterno
     Della feconda primavera il riso.
     Potrieno queste al decantato Eliso
     Togliere il vanto. Altre ne son cui d'ombra
     Un perpetuo vel fascia ed ingombra;
     Né mai potria le favolose rive
     Prora alcuna toccar; né se di vive
     Genti o di larve sieno stanza è dato
     Sapere ad uom che di mortai sia nato;
     Salvo che spesso su per l'onde i venti
     Ne portan grida e lugubri lamenti.
     Altre di saldo e cristallino gelo
     Irte e rigide sempre; altre che al cielo
     Da' cavernosi baratri muggendo
     Sbuffano acherontee vampe d'orrendo
     Foco e procelle di nigrante fumo.
     Soci, non io tutto ridir presumo
     Ciò che in Egitto da vetusti savi
     Narrare un tempo udii, cui son degli avi
     Note le storie tenebrose, e noti
     Quali più strani lidi e più remoti

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     L'orbe in grembo raccoglie, e di natura
     Ogni occulta possanza, ogni fattura.
     Ma questo ancor vo' che sappiate, e sia
     Pegno del ver l'asseveranza mia.
     Nave che, posto ogni timore in bando,
     Per quel mar lunghi di gisse volando
     Dietro al corso del sol, vedria dal fondo
     Sorger dell'acque alfine un altro mondo,
     Assai maggior di questo nostro, e dove
     Sono incogniti regni e genti nuove,
     E d'inaudite cose e peregrine
     Indicibil dovizia. Or ecco al fine
     Giunto son io di mie parole. Amici;
     Per quell'ignoto mare alle felici
     Plaghe io voglio migrar. Se alcun di voi,
     Che del nome superbi ite d'eroi,
     Voglia meco tentar l'impresa audace,
     Caro l'avrò; ma se desio di pace
     Abbarbicati come piante al suolo
     Vi tenga, sia col vostro danno: io solo
     Novo cammino tenterò di gloria:
     Mia l'audacia sarà, mia la vittoria„.

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Ei tacque a tanto, e dagli ansanti petti
     Dei compagni, che insiem raccolti e stretti
     Ascoltato l'aveano, alto un clamore
     Proruppe allor, che il monte e le sonore
     Sponde empiè di rimbombo e sui veloci
     Flutti corse a dilungo: ed eran voci
     Di baldanza e d'applauso, eran frementi
     Grida di gioja e fervorosi accenti
     D'amor devoto e d'incrollabil fede.
     “Padre! Duce! Maestro! Il sol non vede
     Uomo che in senno ed in valor t'agguagli.
     Tu ne guida e ne reggi. A repentagli
     Nuovi le vite de' tuoi fidi esponi.
     Tutti, tutti con te. Da questi proni
     Ozii oblïosi e da sì vile stato
     Tu ne redimi alfin. Comunque il fato
     Sia per volgersi, o 'l ciel, sino all'estremo
     Nostro di sarem tuoi, teco saremo.„
     E stringeansi le destre, e in caldi abbracci
     Si stringevano i petti, e in nuovi lacci
     Di fraterna amistà l'anime invitte.

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II.


Né dubbiezze, né indugi. Alle prescritte
     Opre vola ciascun. Spandesi il grido
     Dell'alta impresa, e sul lunato lido
     Ferve e suona il lavor. Ecco di bruni
     E di candidi lini, ecco di funi
     Intricata congerie: antenne e travi,
     Assi e panconi alla rinfusa. Gravi
     L'ancore adunche affondan nella molle
     Sabbia. All'intorno splendon fochi. Bolle
     La negra pece nei caldari: e intanto
     Alto e festoso va per l'aria il canto
     Augurïoso de' compagni. Ed ecco
     Traggon co' cigolanti argani in secco
     Le antiche prue che alle fatali sponde
     Approdâr della Troade, e corser l'onde
     D'ignoti mari. Quanto il giorno dura
     Van ristoppando con industre cura
     I fianchi cui la salsa onda corrose,
     E gli spalman di pece. A generose
     Gare incita l'un l'altro, e i giorni in queste
     Opre consuman lieti. Invan le meste

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     Donne traendo i pargoli per mano,
     Empiono l'aria di querele; invano
     Percotendosi il sen, sciolti i capelli,
     Implorano pietà. Non odon quelli;
     Non interrompon lor fatiche; e in core
     Van noverando i giorni e affrettan l'ore.


Alfin, quanto chiedeasi al gran vïaggio
     Tutto fu pronto. Declinava il maggio.
     Il dì ch'estremo al rimaner prescrisse,
     Alla piangente sua consorte Ulisse
     In tal forma parlò: “Sposa, sorella,
     Cessa dal pianto desolato, e quella
     Sii che fosti mai sempre, e or più conviensi,
     D'alto cor donna e di virili sensi.
     Me chiama il fato a nuove audacie. Ancora
     Piena del nome mio tu la sonora
     Tromba udrai della Fama: ancor superba
     Sarai tu d'esser mia. Tale ti serba
     Qual fosti. Addio! Teco rimane il caro
     Nostro figliuolo. Or dunque addio! Se amaro
     Spunta nel ciel della partita il giorno,
     Dolce più spunterà quel del ritorno.„

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     Poscia, tratto Telemaco in disparte,
     Che per girne col padre aveva ogni arte
     Usata invan, parlò pensoso: “O figlio,
     In cui pari al valor splende il consiglio,
     Tu venirne con me né puoi né devi.
     A ciascun propria sorte, e ai giorni brevi
     Del viver nostro fatai legge è scritta.
     Tu qui rimani e della madre afflitta
     Gli stanchi passi e l'animo sorreggi.
     Tu qui rimani, e delle antiche leggi
     Fido custode, finché duri il mio
     Pellegrinaggio, con accorto e pio
     Rigor fa sì che il popol t'ami e tema.
     Ecco lo scettro e l'aureo diadema.
     S'io torno, entrambe queste sacre insegne
     Mi renderai. S'io più non torno, degne
     Di me le serba, e con giustizia e pace
     Regna molt'anni, se ai celesti piace.„


L'alba spuntò del novo dì. Sereno
     Il cielo apparve ed il ceruleo seno
     Del mar tutto ridea. Fresca una bava
     Di vento le lucenti onde increspava,

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     E mormorar nel gracile contrasto
     De' canapi s'udiva. E già sul vasto
     Lido, e del monte in sui petrosi sporti,
     Dei partenti la turba e dei consorti
     Fremeva e il popol tutto. Ultimo giunse
     Con Telemaco Ulisse, il qual consunse
     Vigilando la notte, e in dar gli estremi
     Moniti al figlio, dei reali emblemi
     Fatto e del regno già custode. Emerso
     Il sol frattanto e sfolgorò le terse
     Onde rotanti e di corrusca luce
     Irradiò lo spazio. Allora il duce
     Da patera libò di lucid'oro
     Purpureo vino, e d'un mugghiante toro
     Fece olocausto a Poseidone, e tutti
     Dell'alto cielo e dei profondi flutti
     I santi numi orò. Poscia iterati
     Gli abbracciamenti, i moniti, i commiati,
     Alle trombe accennò, che di squillanti
     Note empierono l'aria, e ai naviganti,
     Cui già troppo incresceva ogni ritegno,
     Dettero alfin della partenza il segno.
     Eran essi dugento, ed eran sette
     Le negre navi al gran cimento elette.

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     Vi saliron gli eroi. Furono a stento
     Levate le pesanti ancore; il vento
     Gonfiò le vele, e il temerario stuolo
     Pronto spiegò verso occidente il volo.


III.


Or sen vanno i compagni alla ventura,
     Nel chiaro giorno, nella notte oscura,
     Combattendo coi venti e coi marosi.
     Passan fuggendo innanzi ai rovinosi
     Dirupi ove i ciclopi hanno lor nido,
     E fra gli scogli, di lontan, sul lido,
     Veggono fiammeggiar l'arse fucine.
     Sempre quivi la spiaggia e le vicine
     Balze del monte avviluppate sono
     Di tetro fumo, e sempre mugghia il tuono
     Delle sonore incudini percosse
     Dai grevi magli, e stridono le rosse
     Tempre del ferro in gelid'onda immerse.
     Ei passan via, tutte al fuggir converse
     Le prue, che il vento van tagliando a sghembo.
     E dopo alquanti dì veggon dal grembo

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     Dell’oceano fiorir le sovrumane
     Di Calipso e di Circe isole arcane,
     Pari sull’acque a due natanti cigni,
     Dense di tenebrose arbori, insigni
     D’aurëi tetti, in lucida quiete
     Divinamente tacite e secrete.
     Trascorron oltre, e van radendo il passo
     Ove, acquattate nel ferrigno sasso,
     Latran Scilla e Cariddi. All’orizzonte
     Fra le nuvole appar lo scabro monte
     Che folgorando e rintonando il cielo
     Empie di pigro fumo e al sol fa velo,
     E nel notturno tenebror d’orrende
     Funeree vampe alto rosseggia e splende.
     Piegano verso mezzogiorno il corso,
     Come il vento li caccia; e volto il dorso
     Al periglioso mar delle sirene,
     Corrono lungo le infeconde arene
     Dell’arsa Libia; indi, scampati agl’irti
     Scogli di Sidra e alle malvage Sirti,
     Solcan felicemente a tutto spiano
     Il numidico mare e il mauritano,
     E alfin son giunti alla famosa stretta
     Di Gade, ove il pugnace Ercole in vetta

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     A due colli drizzò contro l'insonne,
     Sterminato oceàn l'erte colonne.
     Quivi posâr l'intero giorno, orando
     Propizii i numi al gran cimento, e quando
     Fu nuovo dì, tutte in un punto solo
     Sciolser le vele all'inaudito volo.


Vider poc'oltre, a manca man, fra morti
     Macigni e nude, orride sabbie, gli orti
     Delle gelose Esperidi, beati
     D'ogni delizia, a ciascun uom vietati;
     E l'arbore fatai cui l'auree poma
     Gravan di sacra e prezïosa soma,
     E in mezzo ai fiori onde il terreno è vago
     Veglia, strisciando, il tortuoso drago.
     Quello l'estremo suol fu che gli eroi
     A tergo si lasciâr: da indi in poi,
     Sfidando i venti incerti e l'onde amare,
     Non vider più se non il cielo e il mare.


Lunghi giorni passar. Vedeano il sole,
     Rutila, immane, mostruosa mole
     Di foco, fra le nuvole errabonde,
     Sorger dall'onde, traboccar nell'onde.

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     Spïatrice vedean di lor fortuna,
     Ne' vasti cieli sfavillar la luna,
     Crescere, sminuir, poi la fatica
     Ricominciar di sua vicenda antica.
     Vedean da un lato declinar le stelle
     Che fan corona al polo, e di novelle
     Candide luci, a tutte genti ignote,
     Ingemmarsi del ciel l'ultime rote.
     Veleggiando n'andavano le sette
     Navi così pel mar profondo, e rette
     Dal volere d'Ulisse e dai consigli
     Correan fidenti a incogniti perigli.


Uccello più non si vedea le immense
     Plaghe varcar, ma lievi solo o dense
     Nubi fuggir per l'alto, ovver l'estreme
     Onde lambir, sciorsi, raccorsi insieme,
     Come de' venti le traea lo spiro.
     E sempre il mar si dilatava in giro
     Sino al ciel: solitudine infinita,
     Misterïosa, eterna, onde ogni vita
     Parea rimossa, se non che, tra' scissi
     Flutti talor, da' paventosi abissi

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     Ignoto mostro scaturia repente,
     Balenava, spariva. E già la mente
     Di tutti e il core una inquïeta cura
     Giva occupando, una secreta e scura
     Apprensïone di quel mondo ascoso,
     Di quel tacito andar senza riposo
     E senza fine. Dalle aguzze prore
     Fissi gli occhi tenean lunghe e lungh'ore
     Neil'arcano ponente: e oh quante volte
     In un ammasso d'avvallate e folte
     Nubi lor parve di scoprir la nova
     Terra agognata, e giubilando, a prova
     Alte grida levâr! poi, conosciuto
     L'error, d'un tratto ciaschedun fu muto,
     E alla patria lontana e al caro tetto
     Pensando, sospirò dall'imo petto.


Avvenne allor che d'improvviso un giorno
     Tutti tacquero i venti, e intorno intorno,
     Quanto l'occhio scorrea, tutto dell'acque
     Si ripianò lo specchio e immobil giacque.
     Lo scialbo ciel parea piovesse foco
     E impallidiva il sol. Nell'aer fioco

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     Lente pendean le inerti vele, e avanti
     Alle pendule prue, nelle stagnanti
     Acque, non bolla si vedea, non lieve
     Gorgo che moto rivelasse. Greve,
     Sonnolenta, mortai calma affogava
     Il cielo e il mare. E dopo un dì passava
     Un altro dì, nè che l'orribil mora
     Cessar dovesse apparia segno. Allora
     Una torbida angoscia, una crudele
     Ansia gli animi strinse, e le querele
     Alto sonâr. Dall'una all'altra nave
     Sen giva Ulisse, e col parlar soave
     Raccendea le speranze, e di coraggio
     Era esempio a ciascuno, e del viaggio
     Prossimo e certo prometteva il fine.
     E passato alcun dì, sulle supine
     Onde un mattino agile corse un fiato
     Di vento, e imbaldanzì, finché con grato
     Impeto tutte empiè le vele. I neri
     Scafi ondulâr, balzarono, e leggieri,
     Solcando l'acque di spumosa scia,
     Corser di nuovo la deserta via.

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Nasceva il sol, moriva il sol; scemava,
     Ricresceva la luna; e per la cava
     Etra fuggian le nubi; e la procella
     Succedeva alla calma, e questa a quella:
     E sempre, sempre le stess'onde amare,
     Quel voto, cupo, sterminato mare.
     E già tre navi dal corroso fianco
     Facevan acqua; e già venivan manco
     Le vettovaglie, e ogni opra ed ogn'ingegno
     Alla fame cedea; quando alcun segno
     Apparve a un tratto di vicino suolo.
     E fu dapprima un numeroso stuolo
     D'augei che, forse di lor patria in bando,
     Per l'altissimo ciel givan volando.
     E fu, poco più tardi, in mezzo all'onde,
     Un ramo, tutto di sue verdi fronde
     Anco vestito, e che d'ignoto aroma
     Fresche traeva e delicate poma.
     Tutte nel cor dei naviganti allora
     Rifiorîr le speranze; e volto ancora
     Un altro dì, come, serena e scialba,
     Si diffondea per l'orïente l'alba,
     Essi, fra mare e ciel, vidersi a fronte
     Sorgere un fosco e dirupato monte

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     Che tra le nubi nascondea la cima.
     Oh vista! oh gioja non sognata in prima!
     Oh come allora alto sonò d'Ulisse
     L'applaudito nome, e benedisse
     L'ora ciascun che nelle sue parole
     S'era fidato! Scintillante il sole
     Dall'onde si levò: prospero il vento
     Facea volar le pinte prore, e lento
     Parea l'andare a paragon del voto.


Ma d'improvviso, ecco si stanca il moto,
     Fluttua, manca. Attonita quïete
     Incombe intorno, e viscide, concrete,
     S'adeguan l'onde. Ed ecco, dall'estremo
     Orlo dell'occidente, ove lo scemo
     Arco s'indugia della luna, spunta
     Una torbida nube, e la consunta
     Luce divora, e già da tutte bande
     Tumida, enorme, si solleva e spande.
     Allividisce il sol nello squallente
     Cupreo cielo, e repentinamente
     Sull'onde morte rovinoso balza
     Di venti un groppo. Il sol si spegne. Incalza

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     Infurïando il turbine. Squarciato
     Insorge il mar rugghiando, e d'ogni lato,
     Bianchi di bava, a mostruosi agoni
     Corron confusamente i cavalloni.
     Rota e si torce tenebrosa in cielo
     La nube, e scissa da focoso telo,
     Stride, rintrona, e il mar bevendo, mesce
     A quei del mare i proprii gorghi. Cresce
     Il tumulto, il fragore e la ruina.
     Invan le navi alla mortal rapina
     Tentan fuggir. Manca ogn'ingegno, è franta
     Ogni virtù. Strappa le vele, schianta
     Gli alberi il turbo, e con orrendo spiro
     Trae le carene in vorticoso giro.
     Ed ecco, sotto a lor, nell'onde crude
     Una immensa voragine si schiude,
     E roteando e spumeggiando inghiotte
     Carene e vite nella eterna notte.