Le Mille ed una Notti/Storia d'Abdallah, Figliuolo di Fazl, e de' suoi Fratelli

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Storia d'Abdallah, Figliuolo di Fazl, e de' suoi Fratelli

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Storia d'Abdallah, Figliuolo di Fazl, e de' suoi Fratelli
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NOTTE CMLXXI-CMLXXXII

STORIA

D’ABDALLAH, FIGLIUOLO DI FAZL, E DE’ SUOI FRATELLI.

— Sotto il regno del califfo Aaron-al-Raschild, accadde un anno che furono esattamente pagati i tributi delle diverse province dell’impero, tranne quelli della [p. 335 modifica] città di Basra. Avendo il califfo dimostrata la sua maraviglia per simile ritardo al gran visir Giafar, questi lo consigliò di mandare Ishak di Mossul in qualità di commissario ad Abdallah, figliuolo di Fazl, governatore di Basra, per riscuotere gli arretrati. Il califfo approvò l’idea, ed Ishak partì alla testa di cinquemila cavalieri. Il governatore gli venne incontro, fece dare alle truppe vittovaglie ed alloggio, e poi, conducendolo in persona nella città, lo fe’ sedere nel posto d’onore del divano, e gli domandò che cosa il conducesse. Ishak adempì alla commissione avuta dal califfo. — Mi dispiace,» ripigliò Abdallah, «che vi siate preso questo disturbo; il denaro è pronto, e dovea partire domani con buona scorta: ora ve lo consegnerò, ma vi prego di restar tre giorni, dovendo adempire con voi ai doveri dell’ospitalità. —

«Sedettero quindi a mensa per partecipare ad una cena squisita, dove furono serviti di caffè e sorbetti1 di varie sorta. Giunta l’ora, d’abbandonarsi al riposo, si apparecchiò per Ishak di Mossul, nella camera stessa del governatore, un letto d’avorio circondato di cortine di seta rossa, ov’egli si coricò; ma non potendo dormire, per aver la testa al quanto turbata dai fumi del vino, si avvide che il governatore, il quale credeva l’ospite addormentato, alzossi, e preso da un armadio uno staffile, uscì dell’appartamento. Curioso di sapere chi andasse a castigare, Ishak si alzò, e seguì il governatore di lontano, senza essere veduto. Prese questi, in un gabinetto un desco con due posate, e lo portò in una vasta camera, ov’era [p. 336 modifica] un letto d’avorio circondato da cortine di seta rossa. Due cani stavano su quel letto legati con catene d’oro; scioltone il governatore uno, l’animale si mise a leccargli i piedi e le mani, e lo accarezzava in mille maniere, sospirando dolorosamente; ma lungi dal parerne commosso, il governatore si pose a batterle in modo sì spietato, che la povera bestia non potè a lungo resistere, e cadde a terra priva di sensi. Allora il governatore la ricondusse alla catena, e sottopose a simile trattamento l’altro cane. Poi, preso un fazzoletto, ne asciugò le lagrime, dicendo: — Non vi sdegnate contro di me; ciò avviene per vostro bene, e Dio muterà in gioia i vostri patimenti.» Quindi li fece mangiare, mettendo loro in gola egli medesimo i bocconi, e facendoli bere in un vaso che aveva portato: infine, riportato al posto il desco, tornò nella camera da letto, dove Ishak l’aveva preceduto, e fingeva di dormire. Il governatore ripose nell’armadio la frusta, e si ricoricò.

«Ma Ishak non potè chiuder occhio pel resto della notte, chè mille pensieri diversi lo assalivano per lo strano spettacolo, del quale era stato testimonio. Nondimeno non lasciò trasparir nulla il domani, nè i due giorni seguenti, benchè avesse veduto rinnovarsi ogni notte la medesima scena. Il quarto giorno, ripartì col denaro per Bagdad, ove appena giunto, si sollecitò a raccontare al califfo quanto aveva veduto per tre notti consecutive. — Domandaste al governatore!» disse il califfo, «il motivo di tale condotta? — No, Commendatore de’ credenti,» rispose Ishak. — Quand’è così, tornate a Basra, e conducetemi Abdallah, figliuolo di Fazl, coi due cani.» Ishak supplicò il califfo di non incaricarlo di quel messaggio, che gli pareva penoso da eseguire, avendolo il governatore trattato per tre giorni intieri con tanti segni d’amicizia. — Se mando un altro fuor [p. 337 modifica] di voi,» rispose Aaron, «Abdallah può negare il fatto; bisogna dunque che mi conduciate il governatore co’ suoi due cani, od io vi faccio tagliare la testa. — In nome di Dio!» sclamò Ishak di Mossul, «volesse il cielo che non avessi veduto nulla! nonostante obbedirò, Commendatore de’ credenti, e gli ordini vostri saranno eseguiti. —

«Aaron gli diede una lettera scritta di propria mano, ed Ishak, recatosi a Basra, si fece presentare al governatore, il quale: — Dio mi protegga!» sclamò; «voi certo venite per annunziarmi nulla di buono: mancava forse qualche cosa al denaro che ho mandato? — No,» rispose l’altro, «la somma era esatta; imploro il vostro perdono per avervi gettato, al par di me, in una dolorosa situazione; ma il destino aveva così stabilito.» Ed avendolo Abdallah pregato di spiegarsi più chiaramente, gli confessò l’indiscrezione commessa, seguendolo per tre notti, e raccontando quanto era accaduto sotto i suoi occhi al califfo, il quale lo mandava con una lettera di proprio pugno. — Non vi affliggete, amico,» rispose il governatore, «non ismentirò il vostro racconto, benchè lo tenessi ascoso a tutti. Vi seguirò co’ due miei cani alla corte, dovesse pure costarmi la testa. —

«Poi, fatti mettere i cani in una gabbia d’oro, si recò a Bagdad, dove fu presentato al califfo; e le bestie, baciata appiè del trono la terra, fecero mille gesti di sommissione, come per implorar misericordia. — Emiro Abdallab,» disse Aaron, «confessatemi chi sono questi due cani. — Sono due giovani di bell’aspetto e miei fratelli,» rispose Abdallah. — Come mai,» ripigliò il califfo, «possono gli uomini diventare cani? Dite la verità; sol essa vi può salvare. — Sono a dirvi l’esatta verità, Commendatore de’ credenti,» rispose Abdallah, «ed i [p. 338 modifica] miei fratelli ve la possono attestare. Fratelli,» proseguì poi, volgendosi ai due cani, «se dico qualche menzogna, alzate la testa al cielo; ma sin che dico la verità, tenete gli sguardi volti a terra.... Siamo tre fratelli,» continuò egli, cominciando la sua storia, «nati dal medesimo padre, chiamato Fazl, perchè il solo, di due gemelli posti al mondo da mia avola, che fosse vissuto; uno di questi miei fratelli si chiamava Nassir e l’altro Mansur. Prese mio padre la maggior cura della nostra educazione, e ci lasciò morendo una bellissima casa, con magazzini pieni di stoffe di seta e sessantamila zecchini in oro. Fatti al genitore magnifici funerali, gli erigemmo un monumento, e ne portammo il lutto per quaranta giorni, in capo a’ quali feci chiamare tutti i mercanti, per domandar loro se non avessero reclami da fare sull’eredità di mio padre; ma dichiararono tutti unanimi che non ne avevano, temendo troppo il Signore per levare ingiuste pretese sopra un bene che apparteneva ad orfani. — Adesso,» dissi ai miei fratelli, «bisogna fare tre parti delle ricchezze lasciate da nostro padre.» Acconsentirono essi alla mia proposta. Non è vero?» chiese Abdallah dirigendosi ai cani; ed avendo questi chinata la testa come se avessero voluto rispondere affermativamente, Abdallah continuò di tal guisa il racconto:

«— Fatto venire per regolare le nostre parti un cadì, abbandonai a’ miei fratelli i magazzini, e tenni per me la casa e la bottega. Vendettero eglino le loro mercanzie, e comprata una nave, si posero in mare. Era già un anno ch’io mi occupava del mio commercio, il quale aveva preso florido incremento, allorchè un giorno d’inverno freddissimo, in cui m’era avvolto d’una pelliccia per difendermi dai rigori della stagione, vidi giungere i miei fratelli, assiderati dal freddo, e con indosso appena una lacera camicia. [p. 339 modifica] Mosso a compassione, mi precipitai nelle loro braccia, li vestii di pelli e pellicce, li condussi al bagno, e di là a casa mia, dove li trattai il meglio che mi fu possibile.... Non è vero, fratelli?» disse Abdallah, nuovamente interrompendosi, per volgersi ai cani. Abbassarono questi la testa in segno affermativo, ed Abdallah proseguì di tal guisa:

«— Chiesi loro come si fossero trovati ridotti a sì misera condizione. Mi raccontarono di essersi recati a Kufah2, dove avevano assai guadagnato, vendendo a dieci ed anche venti zecchini le stoffe che ne costavano uno solo, e viaggiando poi di città in città, da per tutto con utili vistosi, in fine s’imbarcarono per tornare a Basra. Dopo tre giorni di felice navigazione, il quarto levossi una fiera burrasca che sommerse la nave, ed essendosi a gran stento salvati sopra una tavola, si trovarono ridotti all’ultima miseria e ripresero il cammino di Basra. — Consolatevi, fratelli,» dissi, «e ringraziate il cielo d’aver salva la vita: salvata questa, non bisogna affliggersi per la perdita delle ricchezze. Supponete che nostro padre sia morto oggi, e che i beni ch’io ora posseggo siano la sola nostra eredità: facciamone tre parti; ripigliate il vostro commercio, e rimanete con me sino a che vi siate formato un nuovo stabilimento.» Mi ringraziarono, ed accettata la proposta divisione, restarono presso di me qualche tempo, durante cui non fecero che stordirmi con continui elogi dei viaggi, talchè cedendo a tanta importunità, mi decisi, per far loro cosa grata, a viaggiare anch’io. Caricammo di merci una nave, e spinti dai venti, ci confidammo al mare, sul quale non v’hanno che pericoli, mentre sulla terra si vive al sicuro. Durante il nostro viaggio, [p. 340 modifica] sbarcammo in vari porti, dove utilmente vendemmo le nostre merci.

«Un giorno, gettata l’ancora presso una spiaggia scoscesa, scendemmo a terra per visitare le montagne vicine. Dopo aver passeggiato qualche tempo, scopersi d’improvviso un serpente di abbagliante candidezza, inseguito da un altro serpente nero, il quale, raggiuntolo, lo strinse nelle sue spire, sicchè il serpente bianco, con moti convulsi, faceva conoscere tutti i suoi patimenti e la sua disperazione. A tal vista, presi una grossa pietra, colla quale schiacciai la testa al serpente nero, e nel medesimo istante il bianco si trasformò in una zitella bella come la luna. — Dio vi rimuneri,» disse, «d’avermi salvato l’onore! l’azione vostra non sarà perduta.» E sì dicendo, battè col piede il suolo, che si aprì, ed ella dileguossi a’ miei sguardi. Allora, accortomi com’essa fosse un genio, bruciai il serpente morto, e raggiunsi i fratelli, a’ quali raccontai l’avventura. La domane, salpata l’ancora, riponemmo alla vela; ma dopo venti giorni di navigazione senza scorger terra, cominciammo ad inquietarci vedendo che le nostre provvigioni toccavano al fine, ed allora il capitano ci dichiarò di non sapere dove fossimo. Pure, in capo ad alcuni giorni scoprimmo terra, e sbarcammo per far acqua fresca, della quale avevamo penuria. Intanto mi recai a visitare le montagne appiè delle quali il nostro vascello aveva ancorato. Colà vidi una città vastissima e ben fabbricata; partecipai la scoperta a’ miei compagni di viaggio, e li sollecitai a venir meco a quella città, dov’eravamo sicuri di trovare tutto ciò che ne abbisognava. — Temiamo,» risposero essi, «che questa città non sia abitata, da infedeli e da nimici di Dio, che ci uccidano o ne facciano prigionieri.» Feci dunque la medesima proposta a’ miei fratelli in particolare, ma egualmente ricusarono. Allora li pregai di attendermi, risoluto di raccomandarmi a Dio ed andarvi io solo. [p. 341 modifica]

«Nell’accostarmi alla città, notai con maravigiia grandissima che le mura, le torri, le porte ed i palazzi erano d’acciaio della China lavorato con molt’arte. Presso alla mura vidi un uomo seduto sur un sofà di pietra, il quale portava al braccio una catena d’ottone, cui stavano attaccate quattordici chiavi. Da ciò congetturai che la città avesse quattordici porte, e che quegli ne fosse il custode. Lo salutai adunque, ma egli non mi rispose. — Ola!» gridai, battendogli sulla spalla, «dormi o sei ubbriaco? non sei musulmano, che non mi rendi il saluto?» Colui restava sempre immobile; postagli aspramente la mano sulla faccia, vidi, colla massima sorpresa, che quell’uomo era impietrito. Entrai quindi nella città; da per tutto incontrai gente per le strade, ma tutti immobili e tramutati in pietra; vedeansi aperte le botteghe, e piene di merci e di provvigioni d’ogni specie, coi mercanti seduti ai loro banchi. Vi si trovavano stoffe a filigrana fine quanto ragnateli; ma, toccando, si sentiva che tutto era pietrificato. Trovai molti vasi pieni d’oro: ne presi quanto ne potei portare, e mi dolsi che i miei fratelli non fossero con me per approfittare di tante ricchezze, che l’oro solo non era cangiato in pietra, ma solamente tutto il resto, i cani, i gatti, i legumi, le frutta. Così il solo mercato nel quale gli oggetti si trovassero nello stato loro naturale, era quello dei gioiellieri, dove i rubini, i diamanti, gli smeraldi erano ammucchiati l’un sull’altro. Ne presi quanti ne volli e proseguii la mia strada. Giunto dinanzi ad un vasto palazzo che attirò la mia attenzione per la magnificenza e la moltitudine degli schiavi e delle guardie impietrite che vidi all’ingresso, vi entrai, ed attraversato un immenso cortile, penetrai in una vasta sala, nella quale vidi i grandi ed i visiri seduti: in mezzo ad essi era, sur un trono, una figura venerabile, vestita colle insegne [p. 342 modifica] reali, e che portava in testa una corona scintillante di gemme. M’inoltrai quindi nell’harem, dove scorsi egualmente una dama seduta sur un trono rifulgente di diamanti e pietre preziose; le sue dame d’onore, belle come la luna, la circondavano, e dietro a lei stavano gli eunuchi, ma pietrificati anch’essi al pari di tutte le dame. Era la sala adorna di lampadari di diamanti, il cui splendore ecclissava la luce del sole. Gettai per tanto tutto l’oro e le pietre raccolte prima, e presi quanti di quei diamanti poteva portarne: non sapeva quali scegliere, tanto erano magnifici! quell’immense ricchezze mi gettavano in istrano imbarazzo. Scopersi infine una scala di venti gradini che conduceva ad un appartamento, d’onde uscivano concenti incantevoli. — Sono senza dubbio pietre anche queste che cantano,» dissi tra me, ed entrai nel gabinetto. Colà scorsi una cortina ricamata di perle e diamanti, e la voce usciva di dietro a quella; l’alzai, e vidi un magnifico padiglione sotto cui stava una giovane dama, la cui bellezza abbagliante offuscava lo splendore del sole.

«Leggeva essa ad alta voce il libro divino, il Corano, e le parole scorrevano dalla sua bocca come perle preziose, talchè avrebbesi potuto con ragione applicarle il passo d’un poeta che nella sua diletta vantava la melodiosa armonia di David unita alla bellezza di Gioseffo3.

«Sentii rapirmi inesprimibilmente, per la tenera impressione che mi produsse l’armonica sua voce. — Io ti saluto,» dissi, «gemma preziosa, perla intatta e nascosta a tutti gli occhi! — Abdallah, figliuolo di Fazl,» mi rispos’ella, «siate il ben venuto. — Come sapete il mio nome,» ripigliai, «e per qual caso siete voi la sola vivente in mezzo a tutti questi [p. 343 modifica] esseri impietriti? Spiegatemi tal mistero, ve ne prego.» Mi fece sedere, e così mi parlò:

«— Dovete sapere, Abdallah, ch’io sono figliuola del re di quest’isola. È mio padre quello che vedeste assiso sul trono, ed era il più potente monarca della terra: centoventiquattromila governatori esercitavano in suo nome il potere, e ciascuno di essi comandava a mille città e ad altrettante tribù. Innumerevoli erano gli eserciti di mio padre, ed i suoi tesori superavano tutto ciò che può inventare l’immaginazione più feconda: i re tremavano, gl’imperatori umiliavansi al suo cospetto; ma sventuratamente, con tanta grandezza e potenza, era, come tutto il suo popolo, adoratore degl’idoli. Un giorno che presiedeva il divano, vide entrare un uomo d’aspetto venerabile, vestito di verde, e circondato di fulgidissima luce; ch’ebbe in breve riempita tutta la sala, il quale: — Sin quando, disse al re mio padre, sarai tu ribelle agli ordini di Dio? sin quando offrirai agl’idoli un’ampia adorazione? Sappi non esservi altro Dio che Dio, e che Maometto è il suo profeta! Convertiti col popolo tuo; fatti musulmano, abiura l’idolatria, ed adora il Dio unico che sostiene i cieli nell’aria per la sua sola volontà! — E chi sei tu, chiese il re, che vieni per farmi rinunziare a’ miei iddii? non temi tu lo sdegno mio? — Non lo temo, rispose lo sconosciuto; fate qui portare il maggior idolo vostro e tutti quelli de’ vostri sudditi; invocate su di me l’ira loro, ed io richiamerò su di essi l’ira di Dio; vedremo allora chi del Creatore o della creatura riporterà la vittoria. Non sono quest’idoli opera delle vostre mani? non sono abitati da demoni che ne fanno uscire la voce? Rinunziate dunque all’errore ed abbracciate la verità.» Mio padre comandò tosto di far portare tutti gl’idoli, e venne da me, che aveva inteso quel discorso da un gabinetto segreto, in cui mi trovava, donde scorgevasi [p. 344 modifica] tutto il divano. Io aveva un idolo di smeraldo e di grandezza naturale; l’idolo di mio padre era di rubino, e quello del gran visir di diamante. Gli altri erano di varie pietre preziose, come zaffiri, topazi, ametiste adorne d’oro e d’argento; altri di legno d’aloè o di sandalo, d’avorio e di porcellana. Allorchè furono adunati tutti, lo straniero li sfidò a sfogare l’ira loro contro di lui. Collocaronsi gl’idoli sugli altari, ciascuno si pose dinanzi al suo, ed il re, prosternatesi al proprio, disse: — O mio Dio e mio Signore! tu sei mio sovrano padrone! non v’ha Dio il cui potere sia superiore al tuo. Questo straniero, qui venuto per abbattere il tuo culto, pretende che il suo Dio sia di te più potente: confondi le sue bestemmie; annientalo col soffio dell’ira tua; risenta costui gli effetti terribili della sua vendetta!» L’idolo stette in silenzio; mio padre continuò: — Che condotta è questa, mio Dio? se ti parlo, almeno rispondi. Sei tu demente, oppure hai sonno? Destati e parla! —

«L’idolo non diede alcun segno di vita. Allora lo straniero disse: — Nemico del vero Iddio, come puoi adorare queste false divinità mute ed impotenti, mentre il mio Dio veglia di continuo, vede tutto senza esser veduto, e fa tutto ciò che gli piace? Il demonio che t’illude, abbandonò l’opera sua. Non v’ha Dio che Dio: lui solo bisogna adorare: senza di lui non v’ha salute! Vedi adesso se il tuo Dio saprà difendersi.» Sì dicendo, rovesciò l’idolo. Pien di furore, mio padre comandò d’arrestar l’empio, e punirne il sacrilegio; ma niuno di quelli che voleano impadronirsene, se gli potè accostare. Allora egli esortò di nuovo gli astanti ad abbracciare l’islamismo, ma tutti rifiutarono. — Devo io adesso, ei disse, farvi conoscere l’ira del mio Dio? — Sì, fu risposto; fatecela, vedere.» Alzate allora le mani al cielo, pronunziò codesta preghiera: — O mio Dio e [p. 345 modifica] Signore, esaudisci la voce che sollevo contro quest’ingrato che tu nutri co’ tuoi benefizi, e che si ostina a negarti! O Dio creatore del giorno e della notte! cangia in pietre gli abitanti di questa città, chè tu sei l’Onnipossente!» E in un istante tutti furono convertiti in pietra. Io sola fui esente dal castigo, avendo già aperto il cuore all’islamismo; lo straniero, avvicinatosi a me, mi disse: — La misericordia di Dio è scesa sopra di te.» Feci poi la mia professione di fede: aveva allora sette anni, ed ora ne ho venti. Dopo la professione di fede, domandai allo straniero qual fosse il suo nome. — Io sono, mi rispose, il profeta Khisr-Abul-Abdas,» e mi pose in mano un ramo di melagrano, che all’istante germogliò, fiorì e fruttificò. - Ecco, mi disse, quello che Dio ti destina per cibo;» ed in pari tempo m’istruì nei doveri della preghiera e della lettura del Corano. Così, già da tredici anni, io vivo sola in questi luoghi deserti, servendo Iddio, e sostentandomi coi frutti che il ramo di melagrano ogni giorno produce. Khisr mi viene a visitare ogni venerdì, e fu egli che m’insegnò il vostro nome, e come dovevate venir qui. Mi disse di accogliervi bene e conformarmi ai vostri voleri, di prendervi in isposo, e seguirvi dovunque. —

«Quindi la principessa mi mostrò il ramo di melagrano, dov’era un frutto che meco divise. In tutta la vita io non aveva nulla gustato di più delizioso. Domandai poi alla principessa se fosse disposta a seguire il consiglio di Khisr, e ad accompagnarmi come sposa a Basra; essa rispose di non chieder meglio quanto l’unirsi a me in legittimo nodo. Preso pertanto Iddio a testimonio dei nostri giuramenti, ci recammo nella stanza del tesoro, e portato via quanto potemmo, andammo alla spiaggia, dove i miei fratelli mi attendevano inquieti. — Per cagion vostra abbiamo perduto il [p. 346 modifica] vento favorevole,» mi disse il capitano. — Non è gran disgrazia,» risposi; «vedete ciò che il cielo m’ha dato.» Sì dicendo, mostrai loro la moglie ed i miei tesori. Narrai tutto ciò che aveva veduto nella città pietrificata, ed allora essi mostrarono gran dispiacere di non avermici accompagnato. Nonostante si poteano consolare, poichè i tesori da me portati bastavano per arricchirci tutti. Divisi quelle ricchezze coi miei fratelli e col capitano del vascello, nè dimenticai nemmeno i marinari, che non avevano mai avuto sì buona parte. Allora notai sul volto de’ miei fratelli un malcontento visibilissimo. — Siate tranquilli,» dissi loro; «tutto ciò che posseggo vi appartiene, ed erediterete da me dopo la mia morte. —

«Imbarcata la principessa, tornai sulla riva per discorrere co’ miei fratelli. — Cosa intendete fare di quella giovane dama?» mi domandarono. — Sposarla,» risposi, «appena giungiamo a Basra. — Non sarà così,» gridarono essi ad una volta, «siamo invaghiti di lei, e ce la dovete cedere: la vogliamo sposare noi pure. — Fratelli,» dissi loro, «io sono già legato a lei con giuramento solenne, e se l’amate, io l’amo ancor di più. Mi è dunque impossibile di cedervela; ma quando saremo a Basra, vi cercherò, per farvela dimenticare, una sposa delle migliori case della città, e celebreremo nel medesimo giorno lo nostre nozze.» Essi allora tacquero; io credetti di averli consolati, e sciogliemmo le vele. Restò la principessa nella camera della nave, ed io dormii co’ miei fratelli sopraccoperta. Dopo quaranta giorni, scoprimmo i minareti di Basra. Io mi svegliai al grido di terra, terra! che eccheggiava intorno, ma mi sentii legato con corde ed in mano de’ miei fratelli che affaticavansi per gettarmi in mare. — Perchè,» chies’io, «mi trattate a questo modo? — Non ti accorgi,» risposero, «che il facciamo [p. 347 modifica] perchè vogliam possedere la principessa?» Allora Abdallah, figliuolo di Fazl, volgendosi ai due cani: — Non è la verità?» chiese loro; ed essi fecero un cenno di testa affermativo.

«Il califfo era colpito di stupore, ed Abdallah continuò il suo racconto in codesta forma:

«— Così legato, essi mi gettarono in mare, e mi sarei infallibilmente annegato, se nel medesimo istante un uccello di straordinaria grossezza non mi avesse preso negli artigli, e sollevato in aria. Perdetti i sensi, e quando rinvenni, mi trovai in un magnifico padiglione adorno di superbe pitture. Molti schiavi mi circondavano, e vidi una dama seduta sur un trono d’oro e vestita d’abiti d’abbagliante splendore; tutta di diamanti n’era la cintura, e portava in testa una triplice corona. L’uccello che mi aveva portato stava presso al trono, e d’improvviso trasformossi in una donzella di celeste bellezza, che riconobbi per la medesima, alla quale aveva salvata la vita in forma di serpente. — Chi è quest’uomo?» domandò la dama seduta sul trono. — È quello di cui v’ho già parlato, madre mia,» rispose l’altra, «e che mi ha salvato l’onore. Sapete chi sono?» mi chiese quindi; ed avendole risposto di no, continuava: «Io sono Saide, figliuola del re Rosso. Il serpente nero che uccideste era Darfil, visir del re Nero dei geni, il quale, avendogli mio padre negata la mia mano, giurò di vendicarsene sull’onor mio. Mi perseguitava del continuo, ed indarno io prendeva tutte le forme per sottrarmi alle sue vessazioni; ei sempre ne scopriva le tracce e seguiva i miei passi. Così, quello stesso giorno io m’era tramutata in serpente bianco ed egli in serpente nero, e Dio sa cosa sarebbe accaduto, se la vostra generosità non vi avesse spinto a soccorrermi. Vi dissi allora che l’azione vostra non sarebbe rimasta senza premio, e [p. 348 modifica] mi è gratissimo di aver oggi trovata l’occasione di pagare in parte il mio debito.» Volgendosi poi alla madre, soggiunse: «Onoratelo, madre mia, siccome quegli a cui deggio l’onore. —

«Mi colmarono di doni e mi condussero dinanzi al re, intorno al cui trono trovavansi legioni di geni di specie diverse. Si alzò egli e mi venne incontro, seguito da tutta la sua corte, per ricevermi onorevolmente, e dopo avermi anch’esso ricolmo di regali e gentilezza, comandò che mi conducessero a sua figlia. Sull’atto mi trovai nel vascello, ove i miei fratelli stavano per battersi pel possesso della principessa, con Saide, la quale: — Scellerati,» gridò loro, «gettaste in mare il mio sposo e vostro fratello; dovete perire nella medesima guisa...» E volle gettarli nell’onde, ma io implorai per essi perdono. — Solo per farvi piacere,» disse Saide, «concedo loro la vita; ma voglio metterli fuor del caso di far male per l’avvenire.» Sì dicendo, prese una tazza d’acqua, ed aspersoli, li tramutò in cani come vedete... Non è vero, fratelli?» chiese Abdallah ai cani, e questi fecero un segno di testa affermativo.

«— Mi ordinò poi Saide,» proseguì Abdallah, «di incatenare i cani, e batterli ogni notte con uno staffale, sin che cadessero in deliquio, minacciando in pari tempo di farmi morire sotto la frusta, se rifiutassi di eseguire i suoi ordini. Entrammo a gonfie vele nel porto di Basra. Tutti i miei amici mi accolsero con giubilo; non si poteva immaginare che quei due cani fossero i miei fratelli; del resto niuno s’informò di loro. Impiegai la prima sera del mio arrivo a sbarcare i miei tesori e farli portare a casa, lavoro che mi fece dimenticare affatto i cani, che non aveva ancora incatenati, nè battuti. Verso mezzanotte, la mia sposa, armata di staffile, accostossi al mio letto, e mi battè senza [p. 349 modifica] pietà. — Non ti aveva io comandato,» disse, «d’incatenare i tuoi fratelli, e frustarli ogni sera? Li frusterò dunque io medesima, e tu ogni sera subirai questo castigo se non obbedirai.» E qui si mise a percuotere si crudelmente i miei fratelli, che sarebbero spirati sotto a’ suoi colpi, se non mi fossi gettato ai di lei piedi, e non le avessi solennemente giurato di sottopormi alla domane ai suoi voleri, a condizione ch’ella risparmierebbe loro la vita. Il giorno appresso ebbi cura di far fare due collari d’oro per legarli. Tutte queste cose accaddero al tempo del califfo Mostassem, che m’innalzò alla carica di governatore di Basra, nella quale voi, Commendatore dei credenti, vi compiaceste poi di confermarmi. Da dieci anni faccio ogni notte subire a’ miei fratelli simil trattamento, e non oso mettervi termine per timore del castigo onde m’ha minacciate la mia sposa, figliuola dei geni; poichè se nello spazio di tempo che dissi, stetti qualche notte senza batterli, sperando che l’ira della mia sposa fosse calmata, essa mi ha sempre maltrattato come nella prima notte. Del resto, niuno era a parte del mistero, e senza la curiosità d’Ishak di Mossul e l’ordine di vostra maestà, sarebbe rimasto sepolto in eterno silenzio. —

«Non poteva Aaron rinvenire dalla maraviglia prodotta dallo straordinario racconto. — Ma avete voi perdonato ai vostri fratelli?» chiese ad Abdallah. — Sinceramente,» rispose il governatore; «ma tocca piuttosto ad essi a perdonarmi, a me che da dieci anni li tratto sì spietatamente. — Bene,» riprese il califfo, «non istate a batterli questa sera. — Commendatore de’ credenti,» fece Abdallah, «non ardirei obbedirvi, perchè sarebbe un esporre la mia vita e quella de’ miei fratelli. — Fate pure quello che vi ordino,» replicò il califfo, «e quando domattina verrà la vostra sposa, le consegnerete il biglietto che [p. 350 modifica] ora vi darò, dicendole: «Il re de’ mortali, il califfo Aaron-al-Raschild, mi ha vietato di maltrattare i miei fratelli, e m’incaricò di consegnarvi questo viglietto. —

«Abdallah tornò a casa inquietissimo sulle conseguenze dell’obbedienza ch’era costretto a promettere al califfo, e la quale, d’altra parte, lo faceva disobbedire alla moglie. Si raccomandò dunque a Dio, e recatosi alla stanza dove stavano incatenati i suoi fratelli, annunziò loro come per quella notte fossero liberati dal solito supplizio, e potessero cenare con lui; quelli dimostrarono il loro contento con un urlo prolungato e le più vive carezze. Abdallah li fece sedere a mensa con lui, con grande stupore della sua gente che dicevano tra loro: — Com’è possibile che un governatore di Basra abbia da mangiare coi cani?» E la maraviglia loro viepiù crebbe, allorchè Abdallah, dopo cena, presentò alle bestie acqua per lavarsi le zampe; ma rimasero del tutto stupefatti, quando il padrone comandò di preparare pei cani un letto vicino al suo: strana condotta che diede occasione ad infinite congetture.

«Appena il governatore erasi posto a letto, comparve Saide, collo staffile in mano, e minacciò il marito di tramutarlo anch’egli in cane, per aver osato scatenare i suoi fratelli, e risparmiar loro il castigo della fustigazione. — Ve ne scongiuro in nome delle parole misteriose scolpite sul sigillo di Salomone,» disse Abdallah, «leggete questa lettera, che vi presento in nome del califfo Aaron-al-Raschild.» Prese Saide il biglietto, e lesse ciò che segue:

««In nome del Dio clemente e misericordioso! Il re de’ mortali Aaron-al-Raschild, a Saide, figliuola del re Rosso. Ho comandato al vostro sposo di riconciliarsi co’ suoi fratelli. Fate eseguire i miei ordini [p. 351 modifica] ed io farò altrettanto de’ vostri; chè i re devono prestarsi reciproco aiuto. Se credete a Dio ed al suo profeta, perdonate ai fratelli di vostro marito. Ed io ve ne avrò obbligo eterno, se dimostrerete loro specialmente il perdono vostro col tornarli alla primiera forma; altrimenti, coll’aiuto di Dio, li libererò a vostro dispetto.»»

«Letto quel foglio, Saide disse ad Abdallah, come bisognava ch’essa lo facesse vedere al re dei geni, e che tornerebbe in un istante. — Mia cara figlia,» le disse quegli, letta ch’ebbe la lettera, «bisogna restituire a quei cani la primitiva loro forma, per timor di spiacere al re de’ mortali, il grande e potente Aaron-al-Raschild. — Ma, padre,» riprese Saide, «perchè gli dobbiamo tanti riguardi? — Primieramente,» rispose il re Rosso, «perchè egli è il re de’ mortali, e tale qualità l’innalza su di noi, che non siamo se non geni d’un ordine inferiore a quello degli uomini. D’altra parte, la preghiera di due rikaat, ch’egli recita ogni mattina al sorger dell’aurora, gli dà un maraviglioso potere. La potenza che dessa gli comunica lo pone non solo al sicuro da tutto ciò che potessero contro di lui intraprendere i geni delle sette regioni della terra, ma gli conferisce inoltre un’autorità immensa, e tale che potrebbe scacciarci dal nostro paese, e perseguitarci sino in fondo ai più selvaggi deserti. Andate dunque e restituite ai due cani la forma umana, prima che si accenda l’ira del califfo.» Saide tornò dal consorte, e distrusse l’incanto in cui riteneva i due di lui fratelli, i quali, gettatisele a’ piedi, ne implorarono il perdono.

«Poi Saide, accommiatatasi dallo sposo, gli raccomandò di star in guardia contro di loro. Abdallah intanto li fece condurre al bagno, e riconoscere da tutta la casa. La domane, andò con essi al divano [p. 352 modifica] del califfo, e gli rese esattissimo conto di quant’era accaduto il giorno innanzi. — Vi sono obbligatissimo,» disse il califfo, «di ciò che mi dite sulla maravigliosa virtù della preghiera di due rikaat all’alba; non l’ho mai trascurata una sola volta in vita mia.» Esortò poi i due fratelli di Abdallah a meglio comportarsi per l’avvenire, e li congedò tutti e tre, colmandoli di regali. Tornarono essi a Basra; tutta la città venne loro incontro, innalzando al cielo mille voti per la felicità del governatore, il quale fece spargere al popolo molto denaro; ma tutti gli omaggi ond’era l’oggetto, accesero di nuovo l’invidia e la gelosia de’ fratelli.

«Abdallah intanto fece preparare per essi una casa, con suppellettili, cavalli, palafrenieri, schiavi ed eunuchi. — Fratelli,» lor disse, «vi concedo di fare nel mio governo tutto ciò che volete; astenetevi però dal commettere azioni che potessero scontentare il popolo e perderci nell’animo del califfo. Domandate a me tutto quello che vorreste prendere da qualcuno, ed io ve lo darò; ma non vogliate rendervi rei di veruna ingiustizia.» E nello stesso tempo parlò sì affabilmente, e li colmò di tanti benefizi, che sperava di aver destati ne’ loro cuori sentimenti di giustizia e gratitudine; ma vane tornarono tali speranze. Malgrado tutta la sua bontà, non potè guarire dalla bassa loro gelosia i fratelli, i quali concertarono di spegnere Abdallah, per impossessarsi delle ricchezze di lui, e quindi comprare dal califfo il governo di Basra e di Kufah. Per giungere all’iniquo scopo, convennero d’invitare il fratello ad un banchetto, addormentarlo con chiacchiere e bevande forti, e poscia gettarlo in mare, essendo intenzionati di dire allora al califfo, che la moglie di Abdallah l’aveva rapito, perchè irritata, contro di lui per aver tradito al califfo il segreto della sua vendetta. Pregarono [p. 353 modifica] dunque Abdallah di venirli a trovare, Nassir invitandolo a pranzo, e Mansur a cena in quel medesimo giorno. Accettò Abdallah l’invito, e recatosi alla loro abitazione, vi fu accompagnato da numeroso seguito. Dopo il pranzo già la sua ragione sentivasi alquanto turbata; ma a cena, l’ubbriachezza divenne perfetta, e gli prepararono nella sala un letto sul quale si addormentò.

«Mentr’era immerso in profondo sonno, i due iniqui precipitatisegli addosso, lo legarono; ma, durante l’operazione, Abdallah, destatosi, ricuperò l’uso della ragione, e: — Che fate, fratelli?» gridò egli. — Devi morire!» risposero quelli, stringendogli la gola e cercando di soffocarlo; Abdallah rimase privo di sensi, ed i suoi fratelli, credendo d’averlo strangolato, lo gettarono in mare. La finestra stava precisamente sul canale della cucina d’una casa nella quale appunto in quel giorno celebravasi una gran festa, ed erasi gettata in mare grande quantità di rimasugli di carne ed altre vittovaglie. Un delfino, attirato dall’odore, trovavasi colà nel momento in cui cadeva Abdallah, ed appena l’ebbe veduto, se lo prese sulla schiena, e portatolo in mezzo all’onde, andò a deporlo sur una spiaggia lontana, dove venendo a passare una carovana, fu veduto, e preso per un annegato, sì che tutti gli si raccolsero intorno. Tra coloro era un bravissimo medico, il quale: — Buona gente,» disse agli altri, «ma non vi accorgete che questo uomo non è annegato e vive ancora? » Lo fece quindi porre sur un camello, e le cure che gli si prodigarono per tre giorni lo richiamarono in vita; ma il povero Abdallah giaceva sempre in estrema debolezza. Quella caravana viaggiò per un mese, ed ogni giorno si allontanava da Basra; finalmente giunse alla città di Angeh in Persia. Abdallah passò la prima notte del suo arrivo a lagnarsi e [p. 354 modifica] singhiozzare. Il custode del khan domandò alla mattina chi avesse in tutta la notte fatto udire quei tanti gemiti, e gli fu risposto ch’era un ammalato. — Perchè,» disse il custode, «non l’affidate alla dotta Ragika? — Chi è questa donna?» si chiese. — È una signora che guarisce tutti i mali, nella stessa sera che le si porta l’infermo.» Il medico della caravana fece dunque portare Abdallah nella casa indicata, ove vide entrare ed uscire gran numero di persone. Appena Abdallah vi fu entrato, riconobbe in Ragika la sua sposa, la figliuola del re dei geni, e le chiese per qual avventura si trovasse colà. — Sono venuta qui,» rispose, «per ordine del profeta Khisr, il quale mi disse che i vostri fratelli vi aveano gettato di nuovo in mare, d’onde foste salvato da un delfino, e che quindi dovevate venir qui. Mi vi sono dunque stabilita sotto il nome di Ragika; le mie cure meravigliose m’hanno procacciata immensa riputazione, e vivo in grande abbondanza, mercè del mio talento e del profeta Khisr, che continua a venirmi a visitare ogni venerdì.» Ed era precisamente quel giorno. Abdallah si reficiò, ed attese colla sposa il profeta. Venne egli secondo il solito, ed in un batter di ciglio li trasportò al palazzo di Abdallah, in Basra. Avendo il governatore aperto le cortine per guardar il mare, il primo spettacolo che gli si offerse furono i suoi fratelli impalati sulla spiaggia. Allorchè erano andati ad annunziare al califfo la falsa notizia della morte del fratello, Aaron aveva pronunziata una preghiera di rikaat, per isforzare i geni a palesargli la verità intorno al destino di Abdallah, e siccome ricusavano di rispondere, ei fece comparire la medesima Saide, la quale gli svelò l’occorso. Aaron comandò adunque sul momento d’impalare Nassir e Mansur dinanzi al palazzo. Abdallah li fece seppellire, e recossi a Bagdad per fare la corte al califfo. [p. 355 modifica]

Allora questi ordinò di stendere il contratto di matrimonio d’Abdallah con Saide, figliuola del re dei geni, e le nozze furono celebrate colla massima magnificenza a Basra, dov’essi passarono il resto de’ loro giorni in tranquillo riposo, sinchè discesero nella pace del sepolcro.»

Note

  1. Il sorbetto o scerbet, come scrivono e pronunciano gli Orientali, è una bevanda composta di sugo di limone e altri frutti, di zuccaro e d’acqua nella quale si sono fatte disciogliere paste profumate. Di solito vi si mescolano alcune gocce d’acqua di rosa. Gratissima è questa bevanda, e se ne fanno di varie sorta.
  2. Città dell’Irak Babilonese, sulla destra sponda dell’Eufrate.
  3. È noto che Giuseppe viene dagli Orientali risguardato come l’ideale della bellezza umana.