Le Mille ed una Notti/Storia del re Sapor sovrano delle Isole Bellor, di Camar Alzeman, figlia del genio Alatros, e di Dorrat Algoase

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Storia del re Sapor sovrano delle Isole Bellor, di Camar Alzeman, figlia del genio Alatros, e di Dorrat Algoase
Storia del principe Habib e di Dorrat Algoase Storia della Dama dai bei capelli

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STORIA

DEL RE SAPOR, SOVRANO DELLE ISOLE BELLOR, DI CAMAR ALZEMAN, FIGLIA DEL GENIO ALATROS E DI DORRAT ALGOASE.

«— Il re Sapor, il cui impero estendevasi sulle isole Bellor, era il più potente dei monarchi che regnavano all’estremità del mare e dell’Oriente. Benchè avesse congiunta successivamente la propria sorte a quella di molte principesse, nessuna l’avea reso padre. Codesto pensiero l’affliggeva, e sovente diceva fra sè:

— Che cosa diverrà fra poco questo potere acquistato [p. 10 modifica] con tante pene e fatiche? Che sarà di me stesso, allorchè mi troverò più avanzato negli anni, e che le mie forze cominceranno ad infiacchirsi? Se avessi un figlio, sarebbe la consolazione della mia vecchiaia od il sostegno della mia autorità. —

«Mentre il re Sapor stava immerso in tali riflessioni, vide comparire d’improvviso un genio d’aspetto gradevole, il quale graziosamente salutollo, e gli disse?

«— Io sono il genio Alatros, il quale comanda ad un gran numero d’altri geni, e voglio darvi una prova della mia affezione e stima; so che finora non aveste figli; vengo ad indicarvi il modo d’averne, e proporvi in isposa mia figlia Camar Alzeman. È stimata, a giusto titolo, per una perfetta beltà; i più possenti re dei geni me la chiesero in matrimonio, ma nessuno ha potuto ottenerla. La mia stima per voi, il desiderio ch’io ho di soddisfare ai vostri più cari voti, mi stimolarono a darvi la preferenza e ricercare la vostra parentela. Voi amate la giustizia, e dessa fu sempre la regola delle vostre azioni; spero che mia figlia vi darà un fanciullo che seguirà il vostro esempio, e la nascita di questo figlio è sicura, se seguirete i consigli cui sono per darvi: raddoppiate di zelo per la conservazione dell’equità; bandite severamente la colpa e le perniciose opinioni; distribuite copiose elemosine ai poveri, e lasciate in libertà i prigionieri. Operando fedelmente queste cose, otterrete in fine ciò che desiderate da tanto tempo. —

«Il re delle isole Bellor ringraziò il genio, accettò la mano della figlia, e stipulò il contratto delle sue nozze colla bella Camar Alzeman. Il genio Alatros fece segno ai geni alati che lo circondavano invisibili, d’andar a cercare la figlia. Ella comparve subito; il padre la prese per mano e la consegnò allo sposo. Il re Sapor stupì della sua beltà e della magnificenza del suo abbigliamento. La [p. 11 modifica] condusse nel più bell’appartamento del palazzo, ingiunse feste e pubbliche allegrezze per la celebrazione del matrimonio, ed eseguì fedelmente i consigli dello suocero.

«Una sì bella unione non fu sterile, ed il successo giustificò la predizione del genio: Camar Alzeman divenne incinta, e sgravossi, dopo nove mesi, d’una fanciulla più bella dell’astro che presiede alla notte. Ebbe la maggior cura della sua infanzia, e le vennero insegnate di buon’ora tutte le scienze: Dorrat Algoase diventò in breve un prodigio di spirito e di cognizioni. Salì sul trono delle isole Bellor dopo la morte del padre, ed un gran numero di geni vennero a mettersi sotto la di lei signoria. —

«Il genio Alabus, dette queste poche parole, spronò il cavallo e sparve. Il principe Habib, meravigliato di quanto aveva saputo, tornò tutto pensoso verso il castello abitato allora dall’emiro Selama. Ai piedi di quello stendevasi una valle, o piuttosto un delizioso giardino pieno di folti alberi, ed inaffiato da molte fontane; il principe, essendovisi inoltrato per pensare alla bella Dorrat Algoase, vide d’improvviso vicino ad un boschetto una giovane, di beltà stupenda e superiore ad ogni espressione, la quale non poteva essere paragonata se non a quella delle Huri. Il principe, a tal vista, turbossi, e sentì un’agitazione in prima ignota. — Tanti vezzi, tante grazie,» disse tra sè, «non possono appartenere ad una semplice mortale.» [p. 12 modifica]

NOTTE CDLXX

— Pieno di tale idea, e temendo che quel leggiadro oggetto non iscomparisse, se credeva esser veduto, il principe risolse di nascondersi, e scelse un luogo favorevole al proprio disegno. Erasi appena ritirato, allorchè vide una torma d’uccelli della grossezza delle colombe, le cui penne brillavano dei più vividi colori, posarsi ai piedi della bella incognita. Questi uccelli, in numero di quaranta, cangiaronsi tosto in altrettante giovani ninfe d’ammirabile avvenenza, ma però inferiore d’assai a quella che avea dapprima attirati gli sguardi del principe. Le s’inchinarono profondamente, e la salutarono chiamandola loro sovrana.

«— Perchè,» diss’ella, «non siete qui venute nello stesso tempo di me? Vi dissi che voleva fare una visita all’oggetto della mia tenerezza, al principe Habib, figlio dell’emiro Selama, e vi comandai di seguirmi. Chi vi trattenne fino ad ora? Perchè fate sì poco conto de’ miei ordini, o non riconoscete più il mio impero?

«— Gran regina, » risposero le ninfe, «nulla più abbiamo a cuore che di manifestarvi il nostro rispetto e la nostra sommessione; ma non abbiamo potuto seguire la rapidità del volo della bella e tenera Dorrat Algoase. —

«Il principe Habib fu trasportato di gioia quando udì pronunciare quel nome, e stette per gettarsele ai piedi; ma la meraviglia cagionatagli da ciò [p. 13 modifica] che vedeva, il timore ed il rispetto ispiratogli dalla regina dei geni lo trattennero.

«— Voglio,» disse la real donzella alle ninfe, «aspettar qui colui che il ciclo mi destina per isposo; ho per lui abbandonata Medinazilbalor (1), la capitale de’ miei stati, e per vederlo vengo dall’estremità del mondo. So che passeggia spesso in questo giardino, e forse, istruito del nostro comune destino, e del passo che l’amore mi fa fare, potrà venire egli stesso a qui cercarmi. Ma che! il mio cuore mi dice che non è lontano, e mi sembra vederlo fra quelle piante che avviticchiano i folti loro rami. Perchè si nasconde? Ha timore forse di mostrarsi agli occhi della donna che non teme confessargli il proprio amore? —

«Il principe uscì dal boschetto, trasportato di gioia, e corse verso la donzella. Essa gli andò incontro, e gli volse due versi il cui senso era che l’amore la rendeva infelice in mezzo alla sua gloria e grandezza, e che uno sguardo del principe faceva maggior impressione sul di lei cuore, più che gli omaggi ed il rispetto di tutto ciò che la circondava.

«Il giovane le rispose provare i medesimi sentimenti dacchè il genio Alabus, rivelandogli il segreto dei loro futuri destini, gli avea descrìtto il ritratto della donna che doveva infiammare il suo coraggio, e farlo trionfare di tutti gli ostacoli che opponevansi ancora alla loro felicità: aggiunse che da quel tempo tutto gli sembrava insipido, e che il sonno non avea più dolcezze per lui.

«Mentre così conversavano, Habib vide un uccello di straordinaria grossezza, che fermossi a lor dinanzi. L’uccello sbattè le ali, e tosto videro un venerabile vecchio, il cui volto palesava una saggezza dolce ed amabile. Avanzatosi verso i due amanti, prosternossi a’ loro piedi. [p. 14 modifica]

«— Chi è questo vecchio?» disse il giovane a Dorrai Algoase. — È,» rispos’ella, «uno dei miei visiri, quello che qui mi condusse.» Voltasi quindi al visir, gli chiese qual motivo l’avesse costretto a venire prima d’averlo chiamato.

«— Gran regina,» rispos’egli, «vengo a rendervi conto di quanto accade nei vostri stati; i principali fra i geni vogliono vedervi. Io dissi loro che eravate nel palazzo, ma che affari indispensabili non vi permettevano di presentarvi. Manifestarono il loro malcontento, lagnandosi che non avete per essi i riguardi cui pretendono meritare. Alcuni di loro, geni malefici e pericolosi, minacciano anzi di ribellarsi, e far sollevare la nazione intera dei geni. —

«Dorrat Algoase fu meno spaventata dalle minacce dei geni, che afflitta di doversi separare dal principe.

«— Perchè non posso,» gli disse, «condurvi con me, e stringere da questo stesso istante i legami d’un’unione che deve formare la nostra felicità! Ma il destino vi si oppone: voi non potete esser mio se non dopo aver sopportati molti disagi e fatiche. Pensate a me nei momenti più perigliosi; che la memoria di Dorrat Algoase, e di ciò che fece per voi, infiammi il vostro coraggio, e v’innalzi al di sopra della condizione dei figli d’Adamo. —

«La regina dei geni disse poscia al visir di prepararsi a portarla nei suoi stati. Egli riprese tosto la forma d’un uccello di prodigiosa grossezza, con un ricco padiglione sulle spalle; la regina vi sedè, salutò Habib, ed allontanossi rapidamente, accompagnata dalle ninfe che volavano a lei intorno sotto la forma d’uccelli più piccoli.

«Il principe, dopo aver seguita cogli occhi la sua amante per tutto il tempo che gli fu possibile, la perdette infine di vista; rimase alquanto immobile, [p. 15 modifica] volto dalla parte da cui era scomparsa, e non potè trattenersi dal versare un torrente di lagrime.

«Frattanto Selama e la sua sposa, inquieti di non vedere il figliuolo, lo cercavano da ogni parte. Essendo entrati nel giardino, ne udirono da lungi i gemiti, e lo trovarono bagnato di lagrime e quasi fuor dei sensi. Gli fecero odorare acqua di rose, prodigandogli le più tenere cure. Appena schiuse gli occhi, ricominciò a piangere. I suoi genitori fecero altrettanto da principio; gli chiesero indi qual disgrazia gli fosse accaduta, e perchè versasse quelle lagrime.

«Il principe raccontò loro ingenuamente la sua avventura con Dorràt Algoase. Essi ne furono maravigliatissimi, ricordaronsi tosto la predizione del genio che avea preso cura della sua infanzia, e pensarono che i pericoli dai quali il prìncipe era stato minacciato non fossero se non quelli ai quali dovea esporlo la conquista di Dorrat Algoase. Cercarono adunque distoglierlo dall’impresa. — Dimentica,» gli disse il padre, «ciò che vedesti, e rinuncia ad un temerario amore, che può essere cagione della tua perdita.

«— La morte sola,» rispose il prìncipe coll’accento più appassionato, «può farmivi rinunciare; ella sarebbe meno spaventevole per me che il dolore di vedermi separato dalla mia sposa. D’or innanzi non voglio vivere che per cercarla, e non posso strapparmi dai luoghi ov’ebbi la felicità di contemplarla, che per volare verso quelli da lei abitati. — «L’emiro riconobbe che bisognava lusingare la passione del figlio, e gli promise di mandare da ogni parte guerrieri valorosi e sperimentati, per iscoprire in qual paese regnasse la bella Dorrat Algoase.

«— A me solo,» rispose il principe, «è riserbato di cercare la mia amante, e sostenere i combattimenti e le prove che devono rendermi degno d’ottenerne la [p. 16 modifica] mano; datemi soltanto alcuni camelli carichi d’oro e di cose preziose da poterle offrire in dono, e tosto mi metto in viaggio per alla volta del Caucaso, ove debbo trovare le armi del gran Salomone, senza le quali non posso trionfare degli ostacoli per ottenere la di lei mano. Se Dio conserva i miei giorni, e mette il colmo alla mia felicità, verrò a gustarne le dolcezze a voi vicino; se, invece, il fine della mia vita è prossimo, voi dovete adorare i decreti dell’Onnipotente; credo, del resto, che se restassi qui, il dolore e l’amore m’avrebbero in breve ridotto al sepolcro. Lasciatemi adunque partire e compiere il mio destino; imperocchè, da quando fui concepito da mia madre, fu scritto sulla mia fronte che debbo traversare i deserti, varcare i monti, e percorrere tutte le terre e tutti i mari. —

«Il principe recitò poi alcuni versi che dipingevano l’eccesso della di lui passione. — Il mio cuore,» diceva, «è oppresso: l’afflizione mi divora; sua lontananza mi fa versar lagrime di sangue. Voi che la vedete, riferitele i miei voti, o fatele conoscere i tormenti che provo. —

«Selama, vedendo inutile l’opporsi al disegno del figliuolo, diede, piangendo, gli ordini necessari per la sua partenza: quattro camelli portavano i donativi destinati alla bella Dorrai Algoase, e venti cavalieri dei più intrepidi doveano accompagnare il principe.

«Habib si rivesti d’una corazza simile a quella di David, e chiese le armi. Gli scudieri gliele portarono, conducendogli nel medesimo tempo un superbo cavallo arabo che soleva montare.» [p. 17 modifica]

NOTTE CDLXXI

— Finalmente la carovana si pose in cammino; in breve Habib trovasi nel centro dei deserti, in mezzo a privazioni d’ogni sorta, provando i rigori della sete e della fame. Tratto tratto, il caso gli presenta alcuni frutti selvatici ed il corso di qualche lontana sorgente; questi piccoli aiuti gli fanno dimenticare le privazioni che soffre. Ma i guerrieri che accompagnano il principe non sono nè amanti, nè eroi; due mesi di fatiche cominciano a stancarli. Moderate furono le prime loro querele. Una combinazione felice fece incontrare un sito abitato da pastori, dove trovarono un po’ di latte col quale empiscono alcuni otri. Stimò Habib che quel soccorso inaspettato dovesse rianimare il coraggio de’ compagni e dissiparne il malumore; ma quelli, convinti esser impossibile di giungere sino al Caucaso senza esporsi a perire di fame e di stento, rivolsero al principe le loro osservazioni in proposito.

«— Credeva,» rispos’egli, «che mio padre mi avesse fatto accompagnare da uomini; ma m’avveggo che siete donne in corazza, nè abuserò della debolezza del vostro sesso. Tuttavia voglio farvi osservare che siete già venuti troppo innanzi per esporvi a retrocedere senza pericolo; ma poichè voi giudicate i perigli ch’io mi accingo ad incorrere più difficili a superare, datemi la mia parte del tesoro che mio padre v’ha confidato; portate con voi i [p. 18 modifica] bagagli; riconducete i camelli: io so coricarmi e dormire a ciel sereno. Non era già per mio soccorso ch’io acconsentii che mi seguiste; credeva foste nati per la gloria, e l’amaste; era bramoso di dividere la mia con Arabi valenti, con fratelli: questo titolo più non vi conviene; separiamci. Tornate da Selama; ditegli che avete lasciato suo figlio sul cammino della gloria, armato di forza e coraggio, sotto la protezione del gran profeta, e pieno di speranza d’un felice successo. —

«La fermezza di quel discorso sorprese i compagni di viaggio del giovane, ma non li scosse, e lo considerarono come un pazzo ostinato che tutto sagrificava per correr dietro a vane chimere. — Noi siamo responsali della nostra esistenza,» dicevano tra loro, «alle nostre mogli ed a’ nostri figliuoli; e saremmo tanti insensati per seguire i capricci d’un giovanetto che cerca la morte correndo dietro a quel monte Caucaso che sembra fuggirne davanti! Si consumano i nostri arnesi, i cavalli deperiscono, e ci troveremo senza risorse nel bel mezzo dei deserti. Nondimeno,» soggiungevano, «se torniamo senza di lui in Arabia, Selama ci riguarderà come vili che hanno abbandonato suo figlio, e non potremo sfuggire alla di lui vendetta. Se questo Habib potesse morir qui! Non mancano piante per imbalsamarlo; lo collocheremmo sur uno de’ nostri camelli, riconducendolo tranquillamente al padre. —

«La viltà conduce all’ingratitudine, e questa procede al delitto. I perfidi compagni di Habib lo propongono alla prima; ma come sorprendere il vigile principe? sempre armato, sempre pronto a vender cara la vita a chi rapir glie la volesse, la notte riposa sullo scudo, al minimo rumore è desto, il suo valore e l’attività sua giammai non si perdono nel riposo. [p. 19 modifica]

«Fra i cospiratori eravene uno, certo Rabia, al quale ripugnava il delitto, ma non osava esternare i veri suoi sentimenti, temendo di esporsi al rancore degli altri; palesando quella trama ad Habib, abbandonava tutta la comitiva alla sua vendetta, e poteva inoltre trovarsi compromesso. Se l’eroe era vincitore, vedeasi necessariamente costretto a seguirlo solo.

«In tal incertezza, rimproverò a’ compagni il sanguinario disegno. — V’ha,» disse loro, «un mezzo più sicuro e men criminoso. Io conosco un’erba che cresce in questi luoghi; la foglia n’è rivestita d’una polvere bianca, dotata d’un’attività più potente dell’oppio. Ne raccoglierò, e saprò trovar l’occasione di mescergli codesto soporifero. Addormentato che sia, lo abbandoneremo in questi deserti. —

«Si arresero i congiurati al consiglio di Rabia, che venne incaricato dell’esecuzione del progetto; raccolse il pericoloso veleno, ne prese diligentemente la quantità necessaria per evitare al principe una morte certa e la tenne in serbo per l’occasione, la quale presentassi nella medesima sera.

«Giunti in una pianura dove la freschezza d’un ruscelletto manteneva un buon pascolo, Habib si lasciò persuadere a prender quivi un po’ di riposo, e, più per prudenza che per bisogno, si arrese all’invito. Ritirossi pieno di fiducia sotto la propria tenda, prese qualche cibo, ed inghiottì d’un sorso il veleno già preparato in una tazza di latte. I congiurati, approfittando del profondo sopore del loro capo, levato via quanto poterono, partirono in fretta, non lasciando al giovane Habib se non lo scudo che aveva sotto la testa, il mantello sul quale stava coricato ed il pugnale che portava alla cintura; e ripigliata la strada dell’Arabia, dopo molte fatiche videro finalmente, sventolare le banderuole delle tende dell’emiro. [p. 20 modifica]

«Quell’istante, che parea prometter loro la felicità, divenne per essi il momento dell’imbarazzo, delle inquietudiui e dei rimorsi. — Come presentarci davanti a Selama?» dicevano; «che cosa gli diremo della perdita di suo figlio? Rabia, voi che avete già sì ben cominciato ed eseguito il nostro disegno, aiutateci a terminarlo felicemente. — Voi v’ingannaste,» rispos’egli; «quando vi vidi risoluti a versare il sangue di Habib, io cercai di stornarvi da un delitto, fingendo invitarvici, e per ciò solo apparvi vostro complice. Ora mi dilaniano i rimorsi; non sarei in grado d’inventare una menzogna per isvisare il vostro tradimento; i miei sguardi, il mio silenzio, la mia confusione servirebbero invece a scoprirlo. Inventate una favola; il più ardito tra voi la spacci; non vi smentirò, ma m’è impossibile aiutarvi. — Or bene,» ripigliò uno di loro, «me ne incaricherò io. —

«La carovana giunge al campo di Selama, il quale colla moglie viene incontro alla truppa, ambedue solleciti di rivedere il diletto figliuolo. Ma qual non fu la loro sorpresa, non vedendo che lagrime e singhiozzi! L’incaricato di parlare s’inoltra verso Selama, e gli dice:

«— Potente emiro, noi qui torniamo pieni di dolore per la nuova affliggente che vi dobbiamo annunziare. Ma a che servirebbero i nostri riguardi? Voi cercate vostro figlio, ed il cielo l’ha rapito alle vostre speranze. I deserti che attraversammo sono infesti da velenose serpi nascoste entro le sabbie. Una sera, volendo il giovane principe far la sua preghiera, distese il mantello al suolo per inginocchiarsi. Mentre si abbassava, un serpente slanciossi su di lui e lo morse nel viso. Ne seguirono i più crudeli dolori, e la morte sola vi pose termine. Volevamo imbalsamarne il corpo e portarlo con noi; ma la violenza del veleno l’avea talmente guasto, che fummo costretti a [p. 21 modifica] seppellirlo nella rena per evitare il contagio pestilenziale ond’eravamo minacciati. —

«A tal notizia, l’emiro lacerasi la veste, si strappa la barba e copresi il capo di cenere. L’inconsolabile madre di Habib fa risuonare il campo delle sue grida, e le sessantasei tribù di Selama sono piene di lutto.»

NOTTE CDLXXII

— Ma torniamo al giovane principe sì indegnamente abbandonato dai compagni. Uscito dal sopore, nel quale immerse lo aveva il veleno, si alzò, riebbe i sensi e la memoria, e cercò in qual luogo si trovasse. Il silenzio regnava all’intorno. Spinge lontano la vista, e non vede che deserti; domanda i compagni, cerca l’armi, il cavallo: tutto è scomparso. — O tradimento!» sclama; «piangi, Arabia sciagurata! i tuoi cavalieri han perduta la loro virtù. Temettero le fatiche e la morte, e per isfuggire al timore, caddero nell’infamia.—

«Esalati così gli amari suoi lamenti, si pose Habib in ginocchio vicino alla fonte, fece la sua abluzione, e volse le preghiere a Dio ed al suo gran profeta con maggior fervore senza dubbio, ma con pari tranquillità come se fosse stato sotto le tende del padre.

«Volti gli sguardi verso la stella del Nord, che ormai esser deve la sola sua guida, scopre un alto monte scosceso cui si decide a varcare, e vedesi appresso il mantello o lo scudo. — Cari presenti del cielo,» sclama, «voi isfuggiste alle mani della perfidia; mi sarete propugnacolo e difesa.» Si trova nella [p. 22 modifica] cintura il pugnale. «Non temete più nulla, mia cara Dorrat Algoase,» aggiunse; «il nostro cavaliere non è disarmato; ho di che vendicarvi de’ nemici. —

«Prima di partire, si munì di alcune piante selvatiche che Alabus gli aveva fatto conoscere, e le cui radici poteano servirgli d’alimento, e s’incamminò in fine verso la sua meta con minor inquietudine di quando era accompagnato dai malcontenti, non fermandosi che per fare le sue tre preghiere, e rinfrescandosi di tempo in tempo la bocca colle radici raccolte.

«Giunse prima di notte al terzo della montagna scoperta alla mattina; colà vide un burrone pieno d’acqua, nel quale scese per estinguere la sete che lo tormentava.

«Fu d’uopo passare in quel luogo la notte, e guarentirsi dalle bestie feroci. Vide a qualche passo una rupe scavata dall’acque, e raccolte tosto alcune enormi pietre, si formò una specie di grotta ove poter dormire in sicurezza. Stende il mantello, si accomoda lo scudo sotto la testa, e si abbandona al sonno non senza riflettere alla sua situazione.

«I feroci abitatori de’ boschi, attirati alla rupe dalle orme del viaggiatore, vennero ad aggirarsi intorno al suo ricovero, mandando orribili ruggiti, quasi disputandosi anticipatamente la preda, di cui si credevano già padroni. L’amore poteva tener desto l’amante di Dorrat Algoase; il timore nulla poteva sul di lui sonno. Aveva bisogno di riposo, e malgrado il fracasso spaventevole dei lioni e delle tigri, la natura benefica versò sulle di lui palpebre i suoi papaveri.

«Finalmente il sole schiudesi il varco traverso le fessure dell’enorme chiusa di cui è circondato Habib; scende nel burrone, vi fa la sua abluzione e le preghiere, mangia le poche radici che gli [p. 23 modifica] rimangono, viene a riprendere la spada e lo scudo, e si mette in via.

«Appena giunto sulla cima del monte, un altro più inaccessibile gli si presenta. Nessun viottolo praticabile si offre alla vista; bisogna passare saltando le rocce. Se trovasi in pianura, cammina sopra una rena grossa ed ardente; non un cespo d’erbe nel sito meglio difeso dall’ardore del sole; non una goccia d’acqua: la natura ha diseccati quegli orridi climi, e sembra preparare ai viaggiatori la via dell’inferno.

«Habib, affranto di stanchezza, divorato dalla sete e dalla fame, vedeva esaurire le provvigioni di radici. Raddoppia il passo per giungere prima di notte alla montagna che gli sta dinanzi; vi arriva infine, dopo moltissimi sforzi, ma non vi trova nè sorgenti, nè burroni. Forma in fretta una capanna con alcune pietre, e vi si chiude tormentato dagli stenti e dai bisogni. Nondimeno, tenta il solo mezzo che gli rimanga di rinfrescarsi la lingua ed il palato, riarsi dall’ardore del sole e dalla polvere; vedendo che le rugiade son copiosissime nella regione che percorre, distende il fazzoletto sur una rupe, fuor del suo ricovero, e si propone di spremerne la rugiada appena lo stimi abbastanza imbevuto.

«Dopo tal precauzione, che lo guarentisce dal massimo dei mali, adempie a’ suoi doveri di musulmano, si corica e si addormenta tranquillamente.

«Desto coll’aurora, sorge ed esce dal ricinto per raccogliere il fazzoletto; o provvidenza! o benefizio! quel pannolino dal quale spreme l’umidità gli somministra, nel cavo d’un ciottolo, una coppa di benedizione, piena della più deliziosa bevanda, perchè condita dal bisogno.

«Benedicendo l’Altissimo, prosegue la sua strada. In mezzo a due rocce, trova un covile di tigri: la femmina vi avea partorito. Alla vista dello straniero, [p. 24 modifica] le sfavillano gli occhi di nuovo fuoco, rizza il pelo, sferza l’aria colla coda, e l’eco ne ripete i ruggiti. Vien quindi a precipitarsi sull’eroe; questi oppone il suo scudo, e stringendo il pugnale, lo pianta con mano sicura e vigorosa nel cuore dell’animale. Cade la tigre, ed Habib, mettendo a profitto il benefizio che gli vien concesso, si fa della sua pelle un mantello, taglia le parti del corpo che servirgli possono di cibo, e ringrazia il cielo e Maometto della sua vittoria.

«Era tardi, e bisognava pensare ad un asilo per la notte: la caverna delle tigri glielo concede. Scannati i figli e visitatone l’interno, ne tura l’ingresso con un sasso enorme, ed esposto il fazzoletto per raccogliere la rugiada, si corica nel covile sulla pelle della tigre.

«Il crepuscolo stava per finire, ed il fazzoletto era imbevuto di rugiada; lo ritira quindi, e lo spreme nel teschio della tigre, alcuni pezzi della cui carne, seccati al sole durante il giorno, gli servono di delizioso pasto, dopo il quale si addormenta.

«Allo spuntar del giorno, Habib, pieno di forza e coraggio, ripiglia con maggior ardore la sua strada; ma frattanto non discopre ancora la meta delle proprie fatiche, e sembra che gli ostacoli ed i perigli si moltiplichino sotto i suoi passi. Ad ogni momento, varca monti scoscesi che pare non offrano uscita; dalle loro spaventose vette non si scoprono da lungi che deserti. Per quelle vie da cui l’uomo non è mai passato, si veggono soltanto animali feroci che fuggono, o che bisogna combattere, serpenti mostruosi che bisogna schiacciare colle pietre; ed il coraggio, dall’incertezza dell’evento rallentato, diminuisce le forze fisiche dell’eroe.

«Non potendo Habib far un passo senza essere arso dai raggi del sole e senza perdere sur un suolo cocente l’uso de’ piedi, prende il partito di riposare il [p. 25 modifica] giorno e camminare la notte al chiaror della stella che deve servirgli di guida in mezzo alle tenebre. Sendo il sole al meriggio, si ferma; coll’aiuto del pugnale dispone lo scudo in modo da guarentirsi il capo dal sole, si corica sulla pelle della tigre, e si addormenta.

«Appena la notte stende il suo velo, si toglie dalle braccia del sonno, e mettesi in cammino. Il fazzoletto destinato a ricever la rugiada, attaccato al collo, gli svolazza sulle spalle: così può cavarsi la sete; ma come calmerà la fame? Più non gli rimangono che due radici, ed ignora quando la Provvidenza vorrà porgergli altri mezzi. Nonostante, si abbandona, cammin facendo, all’ammirazione del magnifico spettacolo che il cielo dispiega a’ suoi sguardi.

«Verso la mattina, esplorando in lontananza l’orizzonte, credè vedere un piccolo punto nero. — Infine,» disse, «la pianura che percorro ha un limite; appare un confine. Ciò che veggo è senza dubbio una montagna, o qualche ammasso di vapori che innalzansi sopra luoghi abitati. —

«Indarno Habib fa sforzi prodigiosi per avanzare verso il punto nero; quell’oggetto rimane sempre alla medesima distanza. Tormentato dalla sete e dalla fame, oppresso da cocente calore, si ferma, si corica, e la sua immaginazione, occupata in chimeriche speranze, gli procura ben presto un sonno benefico.

«La frescura della sera lo risveglia; si alza, e lusingasi, camminando tutta la notte, di raggiungere, al sorger dell’aurora, il punto sul quale stanno sempre fissi gli occhi suoi, ed in cui il suo cuore ha già riposta ogni speranza. Il sole viene a rischiarare i progressi d’un viaggio inaudito; ma mano mano che avanza, il punto nero sembra sempre nella stessa posizione in cui avevalo scoperto. Intanto Habib è senza calzatura: la sabbia infocata e l’ardore del sole gli [p. 26 modifica] bruciano i piedi; il deserto non offre se non un’ampia estensione di polve; le sue forze esauriscono del tutto. Stende la pelle di tigre sull’arena, si lascia cadere in ginocchio, fa colla terra l’abluzione, ed alzando le mani, rivolge al cielo la più fervida preghiera.»

NOTTE CDLXXIII

— Mentre pregava, tenendo sempre gli occhi fitti sull’oggetto verso il quale sembrava continuamente camminare, scorge come un punto nero che se ne stacca ed avanzasi verso di lui volando per l’aria. Librasi esso alcun tempo, e scende: è un uccello di grandezza mostruosa, un roc che viene a calare ad una cinquantina di passi da lui, e rimane immobile.

«Habib alzasi, cammina verso l’uccello, ed appena gli è vicino in guisa d’esserne udito: — Augello,» gli dice, «tu sei una creatura del Signore, e ti rispetto come un’opera della sua provvidenza. Se vieni per soccorrere un infelice, ma fedele musulmano, vilmente abbandonato dai fratelli, ti comando, in nome di Dio e del suo profeta, di fare un cenno che m’istruisca della tua missione.» E tosto il roc distende le ali, le batte tre volte, e china la testa davanti ad Habib. Il giovane gli si accosta, e vedendo che nelle zampe teneva legato con fili di seta, un cuscino di damasco, vi siede, ed appena vi fu accomodato, l’uccello prende il volo nel più alto de’ cieli. — Messaggero dell’Altissimo,» gli dice Habib, «obbedisci [p. 27 modifica] agli ordini d’un fedel musulmano: portalo sul monte Caucaso, verso il deposito d’armi del saggio e possente Salomone. —

«Il roc, obbedendo, trasporta il giovane sulla montagna ch’era lo scopo del suo viaggio. I di lui sensi, istupiditi per la rapidità del volo, nè aumentano la debolezza; è accolto da Alabus, il quale lo trasporta ratto in un luogo, dove presto lo rianima un calore dolce e penetrante.

«Mano mano che rinviene e ripiglia le forze, il senso della sua gratitudine gli spunta sul labbro. — Che! siete voi, mio caro Alabus? non mi avete dunque abbandonato?

«— Ordini superiori a’ miei, o valoroso principe,» risponde il genio, «qui vi condusse. Un uccello del gran Salomone v’ha portato; il mio dovere vuole ch’io qui vi riceva, e dovete giudicare con qual contento lo faccia. Non ignoro nè il tradimento che vi fu fatto, nè i patimenti sofferti nei deserti, nè la terribile disperazione alla quale Selama è in preda; custode de’ tesori di Salomone, racchiusi nelle viscere della terra, non ho potuto allontanarmi di qui senza suo ordine, ned esservi di alcun soccorso. Il cielo vuole che la virtù sia provata dai rovesci, e ve ne accaddero d’assai strani. L’affanno de’ vostri genitori pareggia il vostro; sorti di gloria vi attendono, ma bisogna rapirli colla forza: è la sorte dei privilegiati tra i figli d’Adamo. —

«Mentre così parlava, imbandiva una colazione, composta di cibi che incomodar non potevano uno stomaco affranto dall’astinenza più rigorosa. Habib ne prese, maravigliando di trovare un’abbondanza sì dilicata in mezzo al più spaventoso deserto.

«— Qui siete nel soggiorno degl’incanti,» disse Alabus; «nessun mezzo può mancare al gran Salomone, a lui che assoggettossi colla profonda sua sapienza [p. 28 modifica] l’intera natura. Prima di andar ad occupare il proprio posto vicino al profeta per eccellenza, sotterrò qui i suoi tesori per sottrarli all’avidità temeraria dell’uomo, che non trova godimento se non negli abusi. Qui stanno in deposito le armi colle quali ei combattè gli uomini e gli spiriti ribelli. Alatros, avo di Dorrai Algoase, io ed i geni d’Eblis sentimmo di buon’ora la nostra inferiorità, e ci sommettemmo senza resistenza. Altri furono men saggi, e le carceri che li chiudono non sono di qua lontane. Il tremendo Abarikaf, che dovete combattere, e gran numero d’altri ribelli, involaronsi alla schiavitù mediante la fuga, l’astuzia, ed anche colla forza.

«Essi ora sono padroni della maggior parte dei domini della giovane regina che voi siete destinato a liberare. Abarikaf ha sollevate sei isole, la Nera per la prima, la Bianca, la Gialla, la Verde, la Rossa e l’Azzurra; Dorrai Algoasesta rinchiusa in Medinazilbalor, sua capitale, col fedele di lei visir, ed è il solo paese che abbia potuto salvare dalle imprese del ribelle, il quale aveva riunito dall’abisso dei mari una legione di spiriti malcontenti. Gli scellerati tiranneggiano le sei isole, facendosi trastullo dei popoli, o stringono di rigoroso assedio la regina, la quale invoca di continuo il liberatore annunziatole dai destini, che siete voi quello.

«Sinora, mio caro Habib, avete spiegata una fermezza costante; usaste con coraggio le vostre forze contro le bestie feroci; nè ostacoli, nè privazioni scossero il vostro valore. L’occhio che vigilava su voi, v’ha soccorso quando più nulla potevate da per voi solo. Allorchè il roc vi è venuto incontro, vi restavano ancora da traversare cinque monti di ghiaccio prima di giungere alla sommità del Caucaso, che scorgeste a dugento leghe di distanza. Ma d’un altro genere sono i pericoli che ora v’attendono. Non avete più forze da oppor loro; è colla calma del [p. 29 modifica] sangue freddo, con un coraggio inaccessibile ai terrori, che bisogna prendere nei tesori di Salomone le armi portentose alle quali nessuna potenza resiste. Appena il riposo avrà finito di fortificarvi il corpo, vi parlerò dei doveri d’adempiere e dei mezzi che dovete adoperare. —

«Alabus fece poscia entrare il discepolo nell’interno della spelonca, dove gli procurò il necessario per rimettersi dalle fatiche.

«Nello spossamento in cui trovavasi Hahib, occorrevagli più d’un giorno per ristabilirsi e mettersi in grado di condurre a buon fine l’audace sua impresa; però, senza l’impero preso su di lui dal genio sin dalla prima infanzia, sarebbe stato difficile a questi di contenere un amante appassionato; ma il saggio Alabus usava d’un potere rafforzato da lunga abitudine, ed indusse l’allievo a non esporsi a nuove prove, se non quando avesse riprese tutte le sue forze. Approfittò intanto di quel tempo per istruirlo di ciò che far doveva per giungere ad ottenere la meta del suo viaggio al monte Caucaso.

«— Mio caro Habib,» gli disse, «siete dai destini chiamato a vendicare Dorrat Algoase dalla ribellione del barbaro Abarikaf. Gli stati di questa regina trovansi a prodigiosa distanza da qui; deserti immensi quanto quelli che attraversaste, vi separano dai pelaghi che li circondano, e se di qui andar voleste a cercar il mare per imbarcarvi, le strade non ne sono più corte, nè più facili; solo passando pel centro della terra vi sarà possibile di avvicinarvisi. Ma qual prudenza, quanta forza d’animo è d’uopo avere, mio caro principe, per intraprendere con frutto sì pericoloso viaggi! Se quaranta porte di bronzo, custodite da geni malefici, dotati d’una forza e possanza straordinarie, vi possono arrestare; se un momento solo di dimenticanza o distrazione venga a sorprendervi, sarete esposto al massimo di tutti i guai. [p. 30 modifica]

«Attraverserete tutte le sale nelle quali Salomone rinchiuse i suoi tesori; la prima contiene le più preziose e le vere armi mediante le quali ei giunse a quell’alto grado di potere che rese attonita la terra. Questa parte è la meno custodita, e quella che trovasi più esposta alle ricerche degli uomini; quanto sarebbero felici, se, potendo giungere sin là, si contentassero di acquistarle senza voler penetrare più oltre!

«Salomone superò colla sapienza tutti gli uomini. Egli ne fissò i principii e le applicazioni con trecento sessantasei geroglifici, ciascuno de’ quali chiede all’intelletto meglio assennato un giorno di studio per isvelarne il senso misterioso; volete darvi la pena di penetrarlo? — Amo Dorrat Algoase,» rispose Habib; «dessa è in pericolo; voglio armi per combattere Abarikaf! Cercherò istruirmi quando avrò vinto. — Si potrebbe esser meno di voi degno di scusa,» ripreso il genio; «ma dacchè Salomone scomparve dalla faccia della terra, cinquecento cavalieri penetrarono in questi inospiti deserti; tutti hanno negletti gli studi ch’io vi propongo, per correre ai tesori racchiusi nelle cavità di questo immenso sotterraneo; volevano prima di tutto soddisfare alla loro passione, come voi cedete alla vostra; uno solo di loro non è tornato: l’ignoranza li fece soccombere: procurerò nondimeno di guarentirvi dalla medesima disgrazia.

«Vi condurrò alla prima porta: vedrete a terra una chiave d’oro: raccoglietela, ed aprite. La molla della serratura cederà al minimo sforzo: accompagnate l’uscio con precauzione, affinchè si richiuda senza rumore.

«Sarà in questa prima sala uno schiavo negro di statura gigantesca; le quaranta chiavi degli altri ingressi pei quali dovrete passare, stanno sospese ad una catena di diamanti che pende alla sua sinistra. Al vostro aspetto, egli manderà un grido spaventevole che scuoterà le volte del sotterraneo, alzando su voi [p. 31 modifica] la lama d’un’enorme scimitarra; scacciate ogni timore, e volgete gli occhi su di lei; io vi ho sufficientemente istruito nella scienza dei caratteri talismanici; pronunciate ad alta voce ciò che leggerete su quella lama d’acciaio, ed imprimetevi quelle parole nella memoria si che per nessun turbamento cui doveste provare, non se ne possano cancellare: ne dipende la vostra sicurezza.

«Allora lo schiavo vi sarà sommesso; disarmatelo, prendete, colle chiavi, la scimitarra del gran Salomone; ma invano cercherete il talismano, avendolo voi fatto sparire nel pronunziar le parole che lo formavano. Aperta poscia la prima delle quattro porte, la richiuderete colla medesima precauzione: ivi vedrete le armi di Salomone, ma non insignoritevi nè dell’elmo, nè della corazza, nè dello scudo; avete la sua scimitarra, e non è di ferro che dovete armarvi. Salomone vinse col coraggio, colla forza, la pazienza e la prudenza. Quattro statue coperte di geroglifici vi rappresenteranno queste quattro virtù; riflettete a lungo su quei dotti emblemi, e sappiatevene appropriare il senso; saranno armi che non potranno mai esservi tolte; esaminate con attenzione quello del profeta al par della scimitarra dello schiavo; i lumi che ne raccorrete vi metteranno in grado di vincere tutti i nemici che si presentassero; ma senza ciò, e se dimenticaste i caratteri incisi sulla sciabola, pensate di non aver tra le mani se non un’inutile lama d’acciaio, che la ruggine ed il tempo consumeranno.

«Soggiornato in questo primo luogo tutto il tempo che stimerete opportuno, varcate d’un salto lo spazio che conduce alla seconda sala, sempre aprendo e chiudendone la porta colla medesima cura: l’arme che vi penderà dalla cintura, le parole che proferirete, vi renderanno padrone degli schiavi custodi, chiunque siano. Non discenderò qui ai particolari delle ricchezze [p. 32 modifica] immense che troverete; agli occhi di Salomone, l’oro e le pietre preziose erano le cose più vili, e benchè se ne sia servito per far opere la cui memoria durerà in eterno, le rese con compiacenza alle viscere della terra, d’onde la sua scienza seppe trarle, non istimandole necessarie alla felicità de’ mortali.

«Se nel passaggio di queste quaranta sale, si trovasse qualche oggetto la cui spiegazione si negasse all’intelligenza vostra, fregate la lama della scimitarra, ripetendo le parole che avrete tenute in mente, e troverete il senso degli enimmi che vi si presenteranno.

«Non ho bisogno, o virtuoso principe, di premunirvi contro la cupidigia e l’indiscrezione, cagione primaria della perdita de’ cavalieri che prima di voi tentarono la perigliosa avventura; imparaste sotto le tende dell’emiro Selama in che consistano la vera ricchezza e potenza; l’oro non dà splendore a’ suoi padiglioni; ei non è costretto a raccoglierne ed a spargerne: un esercito formidabile marcia al primo suo cenno; la buona scelta delle cose utili e lo spregio del superfluo compongono la sua abbondanza.

«Anche la curiosità è un difetto che bisogna fuggire. Rammentate che quanto potrà risvegliarla nell’impresa che siete per tentare, è assolutamente dannoso all’uomo che non conosce le trecentosessantasei verità, principio unico della sapienza di Salomone.

«Soprattutto, quando avrete aperta la quarantesima porta, oltre la quale è il termine del sotterraneo vostro viaggio, guardatevi dal fermare gli sguardi su ciò che vedrete: dinanzi vi starà un velo di seta: vi colpiranno gli occhi caratteri d’oro ed in rilievo; stoglieteneli: vi leggereste la vostra sentenza di morte, che avrebbe la sua esecuzione nello stesso istante. Ma sollevate la cortina, e sarete colpito dal più leggiadro spettacolo, se sin allora osserverete saggiamente le regole di prudenza che v’ho insegnate; vedrete il primo de’ sette [p. 33 modifica] mari che v’è d’uopo attraversare per recarvi da Dorrat Algoase, e vi troverete tutte le facilità necessarie per recarvici, ma se mancaste in un sol punto a codeste istruzioni, vi troverete esposto a pericoli spaventosi. — È forse per me una sciagura,» riprese Habib, «di non conoscere il sentimento del timore, e posso per ciò prendermela con voi e co’ miei genitori, che vi studiaste di premunirmi contro ogni sorta di spavento, e forse a troppo fidare in me medesimo; ma mi sforzerò di praticare le sagge vostre lezioni.

«—Andate dunque, valoroso eroe, sotto l’egida del gran Salomone: il suo spirito vi accompagni! Io formo i voti più ardenti pel buon esito della vostra impresa, ed in questa troverò la ricompensa delle fatiche onde fui appo voi incaricato. —

«Alabus depone nella caverna la pelle di tigre, lo scudo ed il pugnale dell’intrepido giovane, lo veste in maniera semplice e comoda per l’impresa nella quale sta per impegnarsi, e presolo per mano, lo conduce per un andito tortuoso del sotterraneo, sino alla prima porta di bronzo, di cui scorgono la chiave.

«— Prendete quella chiave,» gli dice il precettore; «non dimenticate, appena vedrete alzata su voi la sciabola del primo schiavo, di pronunziare ad alta voce i caratteri talismanici che leggerete sulla sua lama; fatevi attenzione onde non poterli mai più dimenticare; pronunziateli ad ogni apparenza di pericolo, tanto nell’interno quanto fuor dell’immensa caverna che dovete percorrere. Aprite e chiudete le porte colla massima precauzione; badate che tutto è simbolico in quel soggiorno, e che riferire vi si devono le azioni; nè dimenticate gli altri miei consigli; ma insisto su quelli che sono per voi più importanti. Abbracciatemi, mio caro Habib! io torno dove il mio dovere mi chiama.» [p. 34 modifica]

NOTTE CDLXXIV

— Alabus si è ritirato: il giovane apre e rinchiude adagio la prima porta. Vede un nero gigante, di figura spaventevole, il quale, scorgendolo, manda uno strido da cui sono scosse le volte della caverna. Il mostro sguaina la terribile scimitarra; Habib, attento, volge gli occhi sulla lama, e pronuncia ad alta voce la parola potenza, che vi vede incisa in caratteri d’oro; lo schiavo è disarmato. Scimitarra e chiavi gli cadono ad un tempo dalle mani, ed egli s’inchina dinanzi al vincitore.

«Il giovane, impossessandosi del formidabil brando, s’avvia alla seconda porta e l’apre. Sette vie diverse si presentano a’ suoi sguardi, e neppur una è illuminata. Indeciso sulla scelta di quella da prendere, pronunzia ad alta voce la magica parola; una luce pallida e vacillante si offre all’ingresso della quarta via; ei la segue, scendendo millequattrocentonovanta gradini d’una scala appena rischiarata.

«Giunto alla terza porta, sempre guidandosi colla medesima prudenza, viene accolto da due mostri mezzo uomini e mezzo donne, che gli slanciano addosso due enormi graffi di ferro per prenderlo; proferisce potenza, il ferro è rintuzzato ed i mostri fuggono.

«Habib è colpito da uno strano spettacolo: una lumiera di carbonchi illumina una sala rotonda sostenuta da colonne di diaspro. L’armatura del gran Salomone forma il centro in trofeo: la fenice colle ali spiegate ne corona l’elmo. Non possono gli occhi [p. 35 modifica] sostenere lo splendore della corazza e dello scudo; il ferro della lancia sfavilla come il fuoco; non vede la scimitarra, ma Habib s’accorge con piacere che quella della quale si è impadronito, corrisponde agli altri pezzi del trofeo. Tutte quelle armi sono coperte di caratteri misteriosi de’ quali cerca penetrare il senso; ei legge sulla corazza: La fermezza dell’anima è il vero usbergo dell’uomo. Prosegue, e trova sull’altre parti dell’armatura: La pazienza è il suo scudo. La sua lingua, la lancia più forte. La sapienza deve esserne l’elmo; la prudenza, la visiera. Senza il valore; ignude gli sono le braccia; le gambe inutili senza la costanza.

«— O gran Salomone!» sclama l’eroe; «la fenice stende ancora con orgoglio i suoi vanni sul cimiero dell’elmo tuo!... Copritevi di lamine di ferro, impossenti guerrieri della terra! il profeta dell’Onnipossente marciava ai trionfi sotto l’usbergo della virtù. —

«Habib contempla poi i trecentosessantasei geroglifici che formano l’ornamento delle pareti della sala: avvene uno unico per semplicità, ma che l’insufficienza del suo spirito non può spiegare; un altro, più complicato, svela all’istante il proprio mistero: i trecentosessantacinque geroglifici si spiegano, e nonostante non ponno essere spiegati che per un solo.

«Sempre riflettendo, il giovane avanzava verso la porta che dovevagli aprire gli spazi ove stanno racchiuse le ricchezze di Salomone; trovando sempre nuovi gradini da scendere e tortuosi sentieri, giunge alle diverse porte, che apre e richiude senza rumore, ed incontra da per tutto mostri che cercano spaventarlo colla loro deformità, le urla e le minacce. La testa dell’uno, formata d’un cranio umano armato di corna, terminava in becco d’aquila; quella dell’altro riuniva le tre specie tra la tigre, il lione e l’elefante; questi aveva un capo di coccodrillo su spalle umane; un’idra a [p. 36 modifica] tre teste femminee, irte di serpi, presentava all’eroe l’orrenda sua chioma.

«Ma Habib, pieno di fermo coraggio, e fedele ai consigli del genio, imponeva con una parola a que’ minacciosi fantasmi, gettando senza cupidigia gli occhi sui mucchi d’oro e di diamanti, su quegl’idoli spezzati; passa rapidamente da una porta all’altra, ove gli oggetti che incontrava non gli presentano verun segno simbolico delle vittorie del profeta: pure si ferma in un solo sito.

«Era un salone immenso, intorno al quale stava seduta un’infinità d’esseri in sembianza umana; parea ascoltassero la lettura del più venerabile fra loro, collocato sur un seggio elevato e davanti ad un leggio. Allorchè Habib entrò, l’assemblea levossi e fece un inchino all’eroe; il rispetto sospese la lettura, ed il principe, volgendosi a chi la faceva, gli disse: — Se m’è lecito saperlo, ditemi chi siete e cosa leggete. — Io sono un genio schiavo di Salomone,» rispose il lettore, «da lui incaricato d’addottrinare i fratelli che qui vedete, i quali saranno liberi allorchè avranno acquistate le cognizioni necessarie alla loro istruzione. Il libro che leggo è il Corano; ma aimè! sono più secoli ch’io lo spiego loro, ed un ottavo di quelli che mi ascoltano non ne comprende nemmeno la prima riga. Passate, giovane musulmano; nulla avete da imparare da essi nè da me; procedete direttamente ai vostri destini, e siate sempre circospetto come lo foste...» Uscì Habib da quella scuola, pensando quanto sia difficile capire la verità allorchè non si è disposti ad intenderla. E benedisse Iddio ed il suo profeta di averlo di buon’ora istruito in quelle del Corano.

«Il giovane ha già aperte e rinchiuse trentanove porte. Sono cinque giorni che percorre quelle dimore sotterranee, luoghi dove il sole non segna le ore, e ne’ quali il tempo trascorre senza potersi calcolare. [p. 37 modifica] Ei non ha tenuto conto del numero delle porte varcate; appena se ne presenta una nuova, la chiave che deve aprirla, separandosi dal mazzo che tiene in mano, va da sè stessa a collocarsi nella toppa. Infine, eccolo rimpetto alla quarantesima; schiudonsi le imposte, ed egli scorge la funesta cortina di seta, della quale gli ha parlato il genio. Gli sfavillanti caratteri che non deve leggere, percuotono i suoi sguardi; alza precipitosamente la cortina, vede il mare sul quale deve imbarcarsi per giungere finalmente allo scopo de’ penosi suoi travagli, e slanciasi impetuoso per raggiungere il lido. Ma nello stesso istante la porta, cui dimenticò di rinchiudere, gira sui cardini con terribile fracasso che fa tremare il Caucaso sino alle radici.

«Tutte le porte che ha già varcate, tutte quello spelonche rovesciansi e si spezzano con un fragore che sembra far crollare le volte stesse del cielo; legioni di spiriti, sotto le più orribili forme, si precipitano su Habib; i segni più tremendi, le minacce più spaventose ne accompagnano i passi ed i gesti.

«Volgesi Habib per difendersi; se fosse stato suscettibile di timore, quanto lo fu di distrazione, era finita per lui. Ma l’eccesso del pericolo gli restituisce il sangue freddo: rammenta la parola formidabile, e sguainato nello stesso tempo il brando di Salomone, proferisce con ferma voce la magica parola: tosto la folla spaventata dei mostri rientra precipitosamente, la porta che metteva sul mare rinchiudesi con violenza; ma que’ geni malefici non sono rientrati tutti.

«Una parte si è precipitata nel mare, e ne commove gli abissi: i flutti sollevansi nel più alto dell’aere; chiamando da lungi i vapori, ne compongono nembi tremendi. Il giorno scompare, si oscura il sole, cominciano i tuoni a rumoreggiare, le nubi compresse combattono contro i venti scatenati, e le onde [p. 38 modifica] sordamento agitate, incalzandosi l’un l’altra, presentano lo spettacolo d’una superficie nera, che sembra tinta di sangue alla funesta luce dei lampi.

«Irrompe la tempesta da tutte le parti: i venti racchiusi col fulmine approfittano del varco che questi loro schiude; il mare sprofonda negli abissi che si è scavato; il fragore dell’onde, il fischiar de’ venti scuotono la base delle rupi, e lo scoppio rumoroso e terribile del tuono sembra minacciar del primo caos quella parte del globo.

«Tutto non era naturale nel tumulto che sconvolgeva allora gli elementi. Alabus, preposto alla guardia dell’armi e dei tesori del profeta, nel momento in cui i geni ribelli avevano presa la fuga, era uscito alla testa degli spiriti sommessi al suo comando; ed il mare, la terra e l’aria diventano il teatro di tre mischie ostinate e furiose.

«Habib, colpito dal disordine che lo circonda, non può imputarne la causa se non alla propria imprudenza: quando aveva dischiusa la cortina fatale, cielo e terra ridevano, il mare era tranquillo. Si prosterna adunque colla fronte a terra, e volge al cielo una fervida preghiera. Alzasi poi per riconoscere il terreno sul quale si trova. È sulla cima delle rupi appiè delle quali il mare s’infrange con violenza, e circondato da una montagna tagliata a picco, che sembra lo separi dal resto dell’universo; balzando da una rupe all’altra, si percorre uno spazio di mille passi in lunghezza: la luce del sole è intercetta da dense nubi; i lampi che le solvano, danno una tinta ardente o come di rame a tutti gli oggetti su’ quali riverberano, ed un vapore mefitico e salino ingombra la perniciosa atmosfera in mezzo alla quale bisogna respirare.

«La luce che illuminava lo spaventoso quadro era fatta per accrescerne l’orrore. Habib considerò per [p. 39 modifica] alcun tempo il disordine che gli stava sotto gli occhi; poi, guardando la scimitarra, vide brillare con maggior isplendore i caratteri del talismano che vi stavano impressi. Avendo imparato da Alabus che la Provvidenza mai non opra maraviglie senza motivo, quel nuovo risplendere del talismano dovea decidere chi lo portava ad adoperarne la virtù per far cessare l’urto degli elementi sconvolti: fa balenare tosto la lama misteriosa, e grida, percuotendone l’aria tre volte: — Potenze del fuoco, della terra, dell’aere e dell’acque, vi comando di rientrare tutte, e ciascuna, nell’ordine primiero; altrimenti m’accingo a ridurvi all’inazione.—

«Nello stesso istante si vide scaturire dalla scimitarra una luce che impallidir fece quella dei lampi: si udì un rumore confuso, simile a montagne di sabbia che si sfasciassero le une sulle altre; il mare divenne placido e tranquillo; dissiparonsi i turbini; il soffio di zeffiro susseguì ai neri aquiloni, e l’astro brillante del giorno venne ad indorare de’ suoi raggi le rupi spaventose, la cui cima serviva di rifugio all’eroe.

«A quel maraviglioso prodigio, non seppe il principe difendersi da una specie di terrore accompagnato da gioia. Di repente un movimento che vede a tergo, gli fa alzar la testa, e scorge Alabus. — O mio protettore! o mio maestro! siete voi senza dubbio che operaste le maraviglie testè da me osservate? — No, mio caro Habib,» rispose il genio; «sono l’effetto delle virtù del gran Salomone, di cui voi foste lo strumento. Ignorate il disordine di cui furono cagione l’oblio dei miei consigli e la vostra negligenza; senza di voi il male che faceste era difficile a ripararsi.

«Allorchè, invece di chiudervi dietro la quarantesima porta, vi precipitaste sulla sponda del mare, [p. 40 modifica] spalancaronsi sull’istante lo porte delle spelonche che racchiudevano gli schiavi ribelli, ed essi n’uscirono in fretta: voi diventavate la prima loro vittima, se non aveste fatto uso del talismano, al nome del quale essi furono altra volta sommessi; spaventati a tal vista, alzaronsi nell’aria, precipitaronsi nell’onde, e produssero la tempesta della quale foste testimonio.

«Io li seguii alla testa de’ miei; cominciammo il tremendo combattimento di cui vedeste gli effetti senza comprenderli: allora voi adoperaste i soli mezzi che fossero in poter vostro; la riuscita loro nelle mani d’un fedele musulmano era indubitabile. Tosto caddero lor di mano le armi; colti da improvviso stupore, rovesciaronsi come masse di terra; i nostri guerrieri li hanno incatenati e racchiusi nelle caverne che li avevano vomitati: ma senza il vostro aiuto, il combattimento durerebbe ancora.

«Non vi rimprovererò per la distrazione che allontana i vostri successi, e vi espone ad inudite fatiche per riescirvi: è colpa sol dell’amore, e la passione che v’arde è l’effetto della vostra stella.

«Rammentatevi le cognizioni che acquistar doveste visitando i tesori del gran Salomone. Troverete per ogni dove, ed in voi medesimo, le armi che assicurano i successi del vero cavaliere; ei fa ch’esse a lui si presentino piuttosto nell’avversità che nei casi felici.

«I consigli che qui vi do, sono gli ultimi che da me riceverete.... Siete in una carriera nella quale arrossireste di riportare vantaggi con piccoli mezzi; non è che il cielo dal quale se ne possano ottenere senza vergogna, e che si possa oltre misura sollecitare, quando si è saggi nelle proprie mire e trionfar si voglia senza orgoglio. Addio, mio caro Habib; vi lascio in mezzo a tutti i bisogni, in preda a nuove avventure; ma credo che avrete il coraggio di bastare a tutto.» [p. 41 modifica]

NOTTE CDLXXV

— Alabus lasciava il giovane sur una rupe; il mare erasi ritirato, e cessava di frangersi al piede di quell’asilo; poteva discenderne, e passeggiare sur uno spazio assai corto da una roccia all’altra; ma non aveva colà verun riparo per la notte, nessun rimedio apparente contro la sete e la fame. Tal era la situazione dell’eroe, allorchè il genio protettore disparve.

«Un’anima meno elevata della sua si sarebbe abbandonata all’inquietudine; ma la scimitarra del gran Salomone gli pende sempre al fianco, e minaccia ancora i nemici dell’Altissimo; non ha più a temere altri avversari che sè medesimo. — Il mio fallo mi aveva abbattuto,» sclamò, «ma la mano di Dio mi rialzò. Terra, tu mi stai dietro come un muro tremendo! Mare, tu sembri senza limiti, e non offri ai miei sguardi se non abissi; ma la speranza galleggia sulle tue acque, ed a me si mostra in mezzo ai vapori che ti ricoprono! —

«In fatti, Habib vedeva allora, senza accorgersene, la terra: era la punta più avanzata dell’isola Bianca, che formava parte degli stati di Dorrat Algoase. Intanto sopraggiunge la notte, e per non trovarsi esposto all’incomoda sua frescura, egli si adagia fra due rupi all’uopo di preservarsi da un vento rigido, la cui continua azione gli avrebbe gelato il corpo.

«Allo spuntar del giorno, il giovane musulmano fece la sua abluzione e le sue preghiere. Percorse poi [p. 42 modifica] rapidamente il suolo che attorniavalo, onde cercarvi mezzi per la sua sussistenza; le caverne che incontra sono piene di conchiglie; l’onde gettate v’hanno molte erbe, cui fa seccare, e di tal modo provvede a’ suoi bisogni, attendendo che il destino lo chiami ad avvenimenti più importanti.

«Una mattina che Habib era salito sulla rupe più sporgente nel mare, per iscoprire, se poteva, qualche bastimento, si lasciò vincere da legger sonno; allora tre ninfe del mare sollevano di repente la testa dall’acque. — Ei dorme, sorella,» dice una naiade all’altre due; e avviciniamoci, e procuriamo di sapere chi sia. Vi piacerà di vederlo, essendo bello come il primo raggio del sole. Ieri lo vidi prosteso sull’acqua per farvi la sua abluzione; i suoi lineamenti, riflettendosi sulla madreperla, pareva la colorassero con maggior vivacità; avreste detto che il fondo del mare fosse sparso di rose. Ma per vederlo con tutto nostro agio, convien addormentarlo per modo che il rumore, cui siamo per fargli intorno, nol possa risvegliare; datemi la mano, e giriamo in cerchio sinchè sia profondamente sopito. —

«Quando le figlie del mare furono assicurate dell’effetto del loro incantesimo, uscirono dall’onde; sparsero sugli omeri i biondi capelli prima raccolti in treccia; i dolci zeffiri resero tosto a quella chioma le grazie e la leggerezza di cui aveva bisogno: una stoffa formata e tessuta di piante marine, sottili come velo, svolazzando sulle spalle, veniva a cingerne le reni; le gambe, ornate di calzaretti di perle, le braccia d’armille di corallo rilevate, finivano di renderle belle e seducenti. Tutte e tre, volto lo sguardo nell’acque, e contente di sè e del proprio abbigliamento, circondano il cavaliere.

«— Che bel giovane!» diceva la maggiore; «fosse almeno un cavaliere! — Lo è senz’altro,» disse la [p. 43 modifica] minore; «guardate la sua sciabola, ma non toccatela; poco fa volli metter la mano sull’impugnatura, e m’ha bruciata.

«— Ilzaide,» disse la primogenita alla più giovane, «n’è d’uopo sapere chi sia, e d’onde venga. Può essere stato gettato qui dalla burrasca; nondimeno nulla annunzia, nel suo arnese, che abbia fatto naufragio; portatemi una delle più grandi conchiglie che si trovino sulla rena, e riempitela d’acqua. —

«Ilzaide obbedisce, e porta la conchiglia; la maggiore tra le ninfe del mare strappa leggermente ad Habib un capello. — Ora,» disse, «faremo parlare questo che tengo; ei ne dirà tutti i segreti della testa che lo ha nudrito.» Lo immerge nell’acqua, e lo gira intorno alla conchiglia in movimento circolare. «Agitate ben l’acqua,» comandava alle sorelle; «più sarà torbida, e più vi vedrò chiaro. — Guardate, sorella,» disse Ilzaide, «credo che il capello si sia disciolto; l’acqua è divenuta del colore del firmamento, vi si veggono le stelle, e più non si scorge il fondo della conchiglia. — Tanto meglio,» rispose la prima; «dopo la notte viene il giorno. Abbassatevi, osservate il quadro che si sta formando. Ecco una campagna piena d’alberi, all’ombra de’ quali pascono alcuni armenti!... ecco varie tende!... È nato in Arabia.

«— In Arabia, sorelle!» disse quella delle tre che non aveva ancora parlato; «è di là che la nostra regina Dorrai Algoase attende il suo liberatore! Quanto saremmo avventurate di aver qui il bravo suo cavaliere! Ci libererebbe sicuramente da Racascik e da tutta la sua masnada.... ma l’acqua non dice nulla; agitatela di nuovo, onde sapere per dove è passato.

«— Ahi sorella,» disse Ilzaide, «l’acqua diventa nera! — Sta bene,» ripigliò la primogenita; «ne [p. 44 modifica] uscirà più chiara la verità. Raddoppiate il moto. — Sorella,» disse la seconda, «ecco che l’acqua si fa bianca: oh! quanto è tristo ciò che vi si vede! — Sono montagne, arene e deserti,» aggiunse la maggiore; «egli li ha attraversati senza compagni, poichè lo veggo solo. Ha da essere ben forte e coraggioso.... Agitate, agitate ancora l’acqua; perchè la strada che lo veggo prendere, non potè condurlo dove lo troviamo.... O cielo!» sclamò; «veggo le viscere della terra. Basta così, sorelle, perchè l’acqua, da quanto veggo, non ci svelerà nulla dei segreti del suo cuore; ma so un mezzo più naturale di sorprenderli: è, e voi ben lo sapete, del massimo nostro interesse il conoscerli; v’è noto che non possiamo essere liberate dai mali e dai tiranni nostri, se non per mano d’un amante più perfetto del nostro. — Certamente questo cavaliere, qualunque e’ sia,» riprese vivamente Ilzaide, «esser non potrebbe nostro amante, se non l’abbiamo mai veduto. — Ma quando aprirà gli occhi,» ripigliò l’altra, «bisognerà bene ch’ei ci vegga: abbiate allora cura di chinare i vostri, sorella; voi ci avete una malia più potente della nostra, e se finisse coll’amarvi, ogni speranza sarebbe perduta. — Sorella, amerà voi piuttosto,» rispose Ilzaide. — Salomone ce ne preservi!» soggiunse la prima; «ma mi pare di esserci troppo esposte: nondimeno, siccome, per aver diritto a’ suoi servigi, acquistar ne dobbiamo la grazia, occupiamoci in ciò che per tal fine dobbiamo fare.

«Primieramente, veggo che qui egli manca di tutto: la riva sulla quale si trova non gli ha somministrato che alcune piante marine e conchiglie che mangiò crude; prepariamogli, per quando si desti, un pasto qual somministrare lo possono i nostri contorni. Andate, Ilzaide; voi siete più agile della capra che balza di rupe in rupe: costringetela a darvi del [p. 45 modifica] suo latte; empitene una conca, turandone prima la bocca ed il fondo con erbe aromatiche. Penetrate nelle cavità della montagna; troverete, in luoghi nascosti, fiori o frutta; scegliete ciò che vi parrà più grato al gusto, alla vista ed all’odorato; mia sorella ed io penseremo al resto; avremo abbastanza da fare per presentargli una colazione tanto perfetta quanto procurar la si possa in questi deserti. —

«Appena Ilzaide è partita, la maggior sorella spiega all’altra il suo disegno. — Conosco,» le disse, «vari rami di corallo in fondo al mare, due de’ quali formerebbero il carico d’un camello; andremo a prenderli; ne collocheremo qui quattro in quadrato, coprendoli di stoffa simile a quella onde siamo vestite; formeremo pure un padiglione; raccoglieremo poi musco di mare, che, dopo seccato, profumeremo e porremo per sofà; faremo con pietre una tavola, e coprendola d’un tessuto non tinto, la imbandiremo del miglior pesce di mare, cotto e seccato al sole; le uova, che ora andrò a cercare, le frutta ed il latte che deve portar nostra sorella, metteranno il suggello al banchetto.»

NOTTE CDLXXVI

— Appena un genio è fuor del suo elemento, ne diventa limitato il potere. Qui l’industria supplir deve alla possanza; all’abbondanza, l’ordine ed il buon gusto: il bisogno farà valere ogni cosa; la gratitudine metterà un pregio a tutto.

«Ecco Ilzaide di ritorno; eretto è il padiglione ed [p. 46 modifica] ornato: la tavola imbandita; più non si tratta se non di sospendere l’effetto magico che fa durare il sonno di Habib; ma bisogna ch’ei si desti sul sofà presso al quale è preparata la mensa, rimpetto alle tre ninfe.

«— Vediamo, sorelle,» disse allora la primogenita, «se questi sia il cavaliere arabo, amante di Dorrai Algoase. Adoprerò un mezzo infallibile; alzate le mani e scuotetele sinchè io parli. Da parte del gran profeta Salomone, cavaliere, io ti risveglio in nome di Dorrai Algoase!

«— Dorrai Algoase!» sclamò Habib, svegliandosi di soprassalto, e mettendosi a sedere; si guarda intorno, e rimane a un tempo abbagliato e stupito: tre giovani beltà, quasi ignude, una tavola coperta di vivande appetitose e di frutti, un padiglione tutto di porpora e di corallo, ed il nome di Dorrai Algoase, producono tal effetto.

«— Dorrat Algoase!» sclama tornando a sedere, e guardandosi intorno; «dov’è la mia cara Dorrat Algoase?

«— Non è qui, signor cavaliere,» risponde la maggior sorella «ma vi trovate in faccia ad una delle isole che i geni ribelli le hanno rapito: potete scorgerne la terra al di là di quello stretto; è quel vapore azzurrognolo che limita l’orizzonte.

«— Siete voi della sua comitiva? Dove fui trasportato?» disse il giovane con emozione. — Siamo,» rispose la primogenita delle figlie del mare, «ancora sue suddite in fondo al cuore, benchè di presente assoggettate, nostro malgrado, alle leggi del ribelle Abarikaf, e sotto il dominio immediato del mostro Racascik.

«— Dove sono costoro?» replicò Habib, acceso d’ira; «io ne purgherò il mondo. — Signore,» rispose la maggiore delle figlie del mare, «l’uno e l’altro son fuor della portata de’ vostri colpi: [p. 47 modifica] Abarikaf si trova nell’isola Nera, e dovete attraversarne sei prima di giungere a lui; Racascik è nell’isola Bianca che scorgesi di qui. — Voglio attaccarlo subito,» disse Habib. — La cosa è fattibile, ma è d’uopo usare nuovi mezzi. — Saranno facili da trovare,» soggiunse l’eroe; «qui mi trovo in mezzo ad un incanto, del quale debbo i dovuti ringraziamenti alla bontà di Alabus od a quella di Dorrat Algoase: ma dove son io? — Sulla medesima rupe su cui vi addormentaste; abbiamo procurato di rendervi il sito più comodo. — Ve ne ringrazio,» disse Habib; «mi pare che il vostro potere si fondi su magie di più d’una specie; ma se mi continuate il favor vostro, non si potrebbe far uso della meno potente di tutte, per trasformare questo padiglione in una barca, che mi trasportasse subito nell’isola dove comanda il nemico della regina Dorrat Algoase?

«— Cavaliere,» rispose la prima delle ninfe, «sebbene siamo tre sorelle figlie di geni, e geni noi pure, non vi sono qui magie, nè incantesimi. Questo padiglione e questo banchetto frugale non sono dovuti che a naturalissime cure; le fatiche che avete sostenute, quelle che sopportaste dalla vostra partenza dall’Arabia, debbono aver esaurite le vostre forze; usate con fiducia de’ cibi che mani amiche vi hanno preparati. Nè potrete sospettare il nostro zelo, quando sappiate che vendicando la nostra regina dalla tirannide di Racascik, farete per noi ancor più, che se ci aveste restituito libertà e riposo... Ma cesserò di favellare, se ricusate di toccar i cibi che vi offriamo. —

«Si arrese Habib a quelle istanze, e la figlia dell’acque continuò:

«— Dacchè Abarikaf ebbe condotto a compimento il suo attentato, soffiando la rivolta in tutte le province dipendenti da Dorrat Algoase, diede il comando [p. 48 modifica] dell’isola Bianca, frontiera de’ suoi siati, al genio Racascik, il più crudele e l’infamissimo degli scellerati che siano sotto a’ suoi ordini.

«Questo mostro, prima di mettersi sotto lo stendardo di Abarikaf, correva i mari sotto la forma di un enorme squalo, inseguendo i vascelli ed ammaliando col veleno de’ suoi sguardi tutti i marinai o passeggeri da’ quali si faceva vedere: guai a quelli su cui fissar poteva gli occhi: faceva girar loro la testa, cadevano in mare, ed il mostro li trascinava sotto i flutti per divorarli. È del continuo tormentato dal medesimo furore, e quando non bastano alla sua voracità gli stranieri, si sazia coi sudditi della regina; il tiranno Abarikaf glielo permette, ed hanno entrambi giurato di sterminare la schiatta d’Adamo.

«Per noi, non ci può uccidere, ma siamo riservate a tormenti più crudeli della morte. Fra noi sceglie le mogli e le schiave; ne cambia ad ogni luna, e le mie sorelle ed io, nel novilunio prossimo, entrar dobbiamo in un vivaio d’acqua salsa che gli serve di serraglio; il termine fatale è fissato a tre mesi; se voi attaccate il mostro, quali voti non faremo per l’esito della vostra impresa! nondimeno non dobbiamo nascondervi i pericoli che siete per incorrere.

«Per abitare sopra la terra, prese il mostro un corpo umano, conservando tuttavia la sua testa di squalo, o pescecane che vogliate dirlo, riguardo a tre ordini di denti de’ quali trovasi armata, e la lascerebbe, se potesse immaginarne una più vorace ancora. Il suo corpo gigantesco è coperto di squame incantate, che gli servono d’armatura; la scaglia d’una grossa tartaruga gli forma lo scudo; porta in testa un’enorme conchiglia a guisa d’elmo, ed il dardo d’un pescespada, di sei cubiti di lunghezza, gli serve di lancia: monta un cavallo marino quanto lui formidabile, ed allorchè entrambi si animano al [p. 49 modifica] combattimento, le grida del cavaliere sono ancor più terribili di quelle del corsiero.

«Tiene per sciabola una costa di balena che seppe rendere più tagliente dell’acciaio; il suo braccio e l’armi sono sì pesanti, da non percuoter mai senza uccidere; nulla può sopra di lui la forza umana, poichè tutto ciò ch’ei porta, tutto ciò onde si serve, hanno un magico incanto. — Signora,» interruppe vivamente Habib, «non posso io, prima di tre giorni, recarmi sull’isola tiranneggiata da Racascik? Datemene i mezzi; ecco ch’io m’alzo, e giuro di non più sedere se compita non abbia la vendetta del cielo su questo barbaro nemico dell’umanità. — «Pronunziando tal giuramento, la fisonomia di Habib animossi e prese un carattere sì grande, che avrebbe ispirato fiducia in un esercito intero. Fece alcuni passi sotto il padiglione, e la maestà del portamento, le grazie nobili e fiere de’ suoi movimenti, avvalorarono ancora l’espressione del volto,

«Ilzaide, nascondendo il capo dietro quello della germana: — Ecco un eroe! sorella,» le disse; «io non ne aveva mai veduto.... Che bella cosa è un eroe!... Io tremo.... di amarlo. — Temo che per voi non sia più tempo d’aver paura,» rispose la primogenita.

«— Valoroso cavaliere,» proseguì poi rivolta al principe, «noi siamo più premurose di voi onde procurarvi i mezzi di liberarci dal tiranno che ci opprime. In un seno di questa montagna, è una palude piena di canne di lunghezza e forza straordinarie; or ne faremo una zattera, sulla quale, approfittando della bonaccia, vi condurremo noi medesime all’isola Bianca; ma riposate ancora, e continuate a mangiar tranquillamente. Ilzaide,» disse quindi alla sorella, «andiamo subito a preparar la zattera.— Vi seguirò,» riprese Habib; «non manco di destrezza, nè di [p. 50 modifica] forza, e posso dividere con voi il lavoro. — Le mie sorelle ed io basteremo,» rispose la primogenita; «dobbiamo passare fra due acque, in un sito dove vi sarebbe impossibile di giungere; ci rivedrete in breve: ardiamo di voglia di sciogliervi dal voto che faceste, e domattina partiremo per l’isola Bianca. —

«Ciò detto, allontanansi, si slanciano di scoglio in iscoglio, e pervengono ad una piccola eminenza vicina al mare; colà, deposti gli abiti ed annodati i capelli per gettarsi nell’acqua, la più giovane disse all’altra sorella: — Ei si annoierà a star solo! — Voi gli avreste tenuto compagnia volentieri, «le rispose la prima, «e mentre noi avremmo fatta la zattera, avreste lavorato a farla naufragare: sorella, avete già percorso molto il mare, ma non ne conoscete tutti gli scogli; andiamo ove il dovere ne chiama.» Gettansi tutte e tre nell’onde, e vanno a preparare la zatta.

«Habib, finito il pasto, e vedendo tramontare il giorno, fece la sua abluzione e la preghiera, ed addormentossi tranquillamente, attendendo il ritorno delle naiadi.»

NOTTE CDLXXVII

— I primi raggi del sole vennero in breve a ferirgli le palpebre; i suoi sguardi si volsero subito sullo stretto che lo separava dall’isola Bianca; e ne misurò avidamente cogli occhi l’estensione. D’improvviso scorge sul mare, che un dolce zeffiro increspava appena, un movimento straordinario, e distingue un [p. 51 modifica] oggetto che rapidamente inoltra verso la riva; più teste fuor dell’acqua lo chiamano: — Venite, cavaliere! venite, montate su questo schifo.» Riconosce la voce delle ninfe del mare, si slancia, ed il fragile bastimento voga sull’onde.

«Otto delfini stavano attaccati alla zattera; la sorella maggiore delle naiadi, col corpo fuor dell’acqua sino alla cintura, appoggiandosi colle mani alla poppa del legno, serviva di timone: le due minori, nuotando ai lati, lo tenevano in equilibrio; Habib, collo spirito assorto nel suo progetto, stava sul fodero.

«Scopresi in breve tutta l’isola Bianca; il palazzo del tiranno, fabbricato di coralli e conchiglie, appare sulla punta più sporgente dell’isola: le scolte, visto da lungi il guerriero, danno l’allarme e ne annunciano l’arrivo a Racascik: il mostro crede di tener già una nuova preda. — Si lasci avanzare,» dice, «e domandategli cosa voglia; imparerà fra poco, a sue spese, che nessuno straniero può approdar qui senza misurarsi con me; corro ad armarmi per riceverlo come merita. —

«Intanto la zattera tocca terra, ed Habib d’un salto vi scende; una sentinella, specie di mostro anfibio, gli move incontro, e lo interroga secondo gli ordini ricevuti.

«— Va a dire al tuo padrone,» risponde l’eroe, «che vengo qui per combatterlo. — Voi non siete armato,» soggiunge il mostro; «non avete cavallo. — Non te ne intendi,» ripiglia il principe; «il mio turbante equivale ad un elmo; la scimitarra mi tien luogo di corazza o di scudo, e non ho bisogno di cavallo; osi il tuo padrone attaccarmi! io sfido lui e tutta la sua potenza insieme.

«L’ambasciata è fatta: Racascik diventa furibondo; coperto di squame, montato sul suo orribile cavalmarino, il cui pesante galoppo solleva un nembo di polve, accorre alla spiaggia e scorge l’eroe. [p. 52 modifica]

«— Spregevole razza d’Adamo!» grida; «vile satellite di Maometto! tanto vana è dunque la tua testa perchè non istriscia cogli altri vermi, e sorge tre cubiti sul fango ond’è formata? Tu osi insultare il genio Racascik! paga il fio della tua temerità.» E nel tempo stesso spinge il cavallo addosso al giovane, e preparasi a trafiggerlo colla terribil lancia onde va armato.

«Sguaina l’eroe la scimitarra, e la lancia del suo avversario vola in mille schegge prima che il colpo giunger possa sino a lui: la forza dell’urto istupidisce il braccio del tiranno, il destriero s’adombra, e cessando d’obbedire alla mano che lo guida, via lo trascina sulla spiaggia, e seco lui lo rovescia.

«Conoscendo Racascik il proprio pericolo, evoca tutte le potenze che gli sono soggette: in un istante sconvoltosi il mare, le vomita: vitelli, lioni marini coprono la riva; se ne accostano le balene, eruttando torrenti d’acqua che sembrano formar una barriera fra il giovane principe ed il suo nemico; rimbomba la spiaggia di orrende grida; tutti i mostri da Racascik chiamati, slanciansi insieme sull’eroe; egli combatte alcun tempo colla scimitarra, ma sopraffatto dal numero, e prevedendo l’inutilità dei propri sforzi, batte tre volte l’aria col brando, e pronuncia con fiducia la tremenda parola potenza.

«Prontissimo n’è l’effetto; i mostri che hanno potuto resistere alla spada, travolti da una forza superiore, precipitansi negli abissi che li aveano vomitati; Racascik osa ancora presentarsi: ei tenta opporre al ferro formidabile di Salomone la costa di balena; frangesi questa però in mille pezzi: il suo corpo tutto squamoso, la magica sua armatura sono ridotti in polvere. — Va, sciagurato,» gli dice Habib, «va a gemere per tutta l’eternità nelle caverne [p. 53 modifica] del Caucaso!» Nel medesimo punto, spariscono tutti gli avanzi dei mostri: libera e solitaria è la spiaggia, e Racascik più non esiste se non nella memoria dei ribelli.

«Un tetro silenzio succede all’agitazione della spaventevole scena; Habib, vincitore, riconoscendo la volontà dei destini, si prosterna davanti l’astro che lo illumina.

«— Potenza cui nulla resiste! rovesciati sono i tuoi nemici; il tuo soffio li ha dispersi: che fu delle loro reliquie? —

«Habib rialzasi, confuso delle grazie che riceve, ma non vede il laccio che alla sua modestia tende la gratitudine.

«La riva era coperta dalle figlie del mare, coronate d’alghe marine, cinte di ghirlande: venivano a render omaggio al loro liberatore, e deporre a’ di lui piedi le ricchezze del loro elemento; il concerto delle voci, le grazie del portamento avrebbero intenerito il cuore più feroce; circondando l’eroe, prosternatisi a’ suoi ginocchi; la giovane Ilzaide e le sue sorelle erano le più premurose delle altre; ma il giovane, confuso, ricusa quelle dimostrazioni.

«— Io nulla feci per voi,» dice, «e voi nulla dovete ad un uomo che adempì appena al proprio dovere: non son qui moschee dove sia adorata la divinità? Andiamo al tempio; colà io vi precedo. Non v’ha qui alcun suddito fedele della vostra regina Dorrat Algoase? A lei rimetterò questi doni, ch’io non deggio accettare se non per lei. —

«Allora presentasi un vecchio genio nella forma sua naturale, col capo curvo dal peso de’ secoli, spezzate le ali, ed il corpo illividito dai ferri, de’ quali lo aveva carico il tiranno; si chiamava Balazan.

«— Signore, «disse, «quando regnava la regina Camar Alzeman, avevamo qui tre moschee; Racascik le [p. 54 modifica] ha profanate e distrutte. Questo mucchio di ruine che vedete, sono i ruderi d’una città ch’egli ha saccheggiata, e della quale divorò gli abitanti: l’isola è rimasta senza commercio, nè coltura. Alatros me ne aveva dato il comando; Racascik, qui giungendo, mi piombò nel carcere d’onde sono testè uscito pel vostro potere. Vengo a render omaggio all’inviato di Salomone, che fa su questa spiaggia risplendere la spada di quel profeta, ed a sottomettermi al liberatore de’ figliuoli di Dio ed al vendicatore di Dorrai Algoase. — Andate, Balazan! «rispose Habib; «io vi rendo, in nome del gran profeta e della regina Dorrai Algoase, della quale son cavaliere, tutti i poteri ond’eravate investito: prendete questi tesori che vedete a’ miei piedi, fate rifabbricare le moschee, e che il muezin chiami dall’alto de’ minareti i fedeli sudditi che il timore avea dispersi. Governate qui in nome di Maometto, del gran Salomone e della vostra regina; ristabilite dovunque l’ordine, e facilitatemi i mezzi di recarmi a Medinazilbalor. — Nobile e prode cavaliere,» riprese Balazan, «ricevo con fiducia gli ordini vostri, e mi ci sottopongo in nome del potente Creatore di tutte le cose. Ma, o signore, m’è impossibile darvi soccorso per recarvi laddove vi chiamano i destini; l’isola è sprovveduta di mezzi per la navigazione: la via dell’aria m’è inutile, chè mi furon tarpate l’ali, come vedete: ma quando pur avessero ancora tutte le loro forze, Abarikaf si è reso padrone dei passi dell’alto, in modo che a nulla servirebbe il mio volo. È d’uopo continuate a procedere d’isola in isola coi medesimi mezzi che v’hanno qui condotto; giovatevi dell’entusiasmo che la vostra persona e le virtù vostre destarono nei geni del mare; fate loro dimenticare i pericoli cui vanno incontro esponendosi con voi, e possibile sarà ch’ei vi conducano sino al centro delle forze del nostro nimico; il resto sarà opera del vostro valore e [p. 55 modifica] dei decreti del destino. Il terrore è già sparso nell’isola Gialla e nell’isola Rossa; Mokilras, la tigre del mare, le regge ambedue: egli è il figlio dell’orribil tiranno dal quale ci avete testè liberati. Istruito della sconfitta del padre, ha già prese tutte le precauzioni che il timore ispira; le difficoltà vi attendono; ma se pervenite ad esserne vincitore, impossessatevi della pelle di quel mostro, fatene uno stendardo, ed a tal vista l’isola Rossa vi sarà soggetta. —

«Allora Habib, volgendosi alla primogenita delle naiadi, le disse: — Se potessi trovar qui un battello peschereccio o qualche piccolo schifo, m’imbarcherei immediatamente per l’isola Gialla; ma in mancanza di tal soccorso, i geni del vostro elemento mi negheranno essi il loro? — Se il terrore li stogliesse dall’impresa,» rispose quella, «se non conoscessero la fiducia che merita un cavaliere qual voi siete, le mie sorelle ed io insegneremmo ad essi il loro dovere. I delfini possono ancora condurre la vostra zattera sino ad una lega dalla terra, poichè vi sarebbe per loro grande pericolo d’andar più oltre, stante le precauzioni prese da Mokilras. — Cos’è mai una lega da fare a nuoto,» disse Habib, «per un uomo determinato a tutto onde soddisfare al suo dovere! — O generoso cavaliero!» ripigliò la figlia del mare; «e chi mai potrà ricusar di seguirvi, foss’anco sol per vedervi, ascoltarvi ed ammirarvi? Ma non temete di essere voi pure divorato dai mostri marini? — Io non temo, se non di mal secondare la mia stella, non servendo la vostra regina come debbo. — Fidate in noi, valoroso eroe; le mie sorelle ed io ci riserbiamo l’onore di servirvi. — «Sull’istante il fodero parte, e sembra che voli sulle acque: già distinguevansi i movimenti che si fanno sull’isola Gialla; più non n’erano che ad una lega di distanza, quando i delfini, avvertiti dall’istinto [p. 56 modifica] fermatisi d’improvviso, e fanno ogni sforzo per ispezzare i nodi che li tengono attaccati alla zattera. Una delle sorelle accorre, e li taglia; il bastimento resta immobile: in breve un’onda che i mostri marini faceano sollevare, sembra voglia inghiottirlo; Habib vede non esservi un sol momento da perdere per liberare le amabili sue compagne dal pericolo che sovrasta; impugna la scimitarra, e si getta a nuoto, pronunciando la parola formidabile del talismano. Sarebbesi detto che le acque ordinavansi da sè stesse per aprirgli sicuro il varco; i cavalloni si acquetano, i flutti si spianano, e l’eroe vien portato in un sito della riva in cui nulla pone ostacolo alla sua discesa.

«I suoi nimici, dispersi in drappelli, pare non attendano che i di lui sguardi per darsi alla fuga. Egli si volge laddove più densa gli sembra la calca, slanciasi colla scimitarra in pugno, e tutto ciò che resiste al ferro, vien sul momento disperso. Mokilras, tigre enorme, sosta sui due piedi, getta contro l’eroe la pesante clava ond’è armata, e ripigliando in breve la sua natura, fugge sulle quattro zampe. La insegue Habib, ma non permettendogli le forze umane di raggiugnerla, pronuncia ad alta voce la fatal parola, e ad un tempo grida: — Mokilras, ti arresta in nome di Salomone!» Il mostro resta immobile. Un fendente gli spicca la testa dal busto, e la sua pelle gli è nel medesimo istante levata.» [p. 57 modifica]

NOTTE CDLXXVIII

— Distrutto appena il tiranno dell’isola Gialla, tutti gli elementi rientrano nell’ordine naturale, ed il silenzio succede alla perturbazione spaventevole che li agitava. Intanto, le tre fiiglie del mare si sono raccolte sul fodero; la giovane Ilzaide, in piedi sul bastimento, imboccata una lunga tromba marina, chiama da lungi i delfini intimiditi; docili alla sua voce, tornano essi in folla: tutti gli abitanti acquatici vengono ad unirsi a quei concenti d’allegrezza: l’aria rimbomba di cantici di vittoria; tutto il corteggio approda al lido nel mentre l’eroe sta spogliando Mokitras. Habib si volge, e respingendo omaggi che tengono dell’adorazione: — Creature dell’Altissimo,» dice loro, «alzate gli occhi al cielo; là è l’unico e solo oggetto della vostra riconoscenza. Sudditi di Dorrat Algoase, a lei dovete rispetto, omaggio e sommissione: il suo cavaliere null’altro si riserva se non il diritto di congiungere i suoi voti ai vostri, e servire alla vostra liberazione. —

«Mentre finisce, una moltitudine di popolo, che accorreva da tutte le bande, giunge ad accrescere il suo trionfo ed imbarazzo; tutti vogliono giurargli obbedienza, e gli domandano nuove leggi: per fortuna presentasi il vecchio Balazan. Allorchè ogni cosa nell’isola Bianca fu rientrata sotto il potere di questo genio, ei cercò innalzarsi nell’aria per seguire, se possibil fosse, i successi del giovane Habib, e con molta fatica riuscì a raggiungerlo nell’isola Gialla nel [p. 58 modifica] mentre i popoli di quella contrada gli rendeano omaggio.

«— Sudditi di Dorrai Algoase,» disse il vecchio genio arrivando, «questo prode cavaliere accoglie gli attestati della vostra gratitudine; tornate alle vostre dimore, e rientrate oggi stesso sotto le leggi della nostra sovrana. E voi, cavaliere,» soggiunse ad Habib, «prendete un momento di riposo. La sommessione dell’isola Rossa non è conquista degna delle vostre occupazioni; salirò io solo il fodero che v’ha qui condotto. Porto meco la pelle di Mokilras e le sue armi; alla vista terribile del trofeo che ne formerò, i ribelli porgeranno da sè medesimi le mani alle catene: risparmiate le forze per assalire le isole Verde ed Azzurra, e soprattutto per l’attacco dell’isola Nera. —

«Habib non sa vincere senza periglio; abbandona l’impresa alla prudenza di Balazan, e cerca un riposo necessario alle fatiche che lo attendono. Dormiva ancora quando il vecchio genio tornò dall’isola Rossa, tenendo in mano due otri di pelle d’ariete. — Cavaliere,» disse ad Habib, destandolo, «ecco il resto de’ soli pericolosi nemici che fossero nel paese da me testè sottomesso alle leggi della regina; li ho rinchiusi in questi otri, e li mando subito all’ingresso delle caverne del Caucaso. Domani potrete senza ostacolo recarvi all’isola Rossa, e di là penserete ai mezzi di proseguire le vostre conquiste; ma è impossibile definire i pericoli che dovrete incorrere. Nisabic governa l’isola Verde, e l’impero suo estendesi anche sull’Azzurra; è questi un genio, le cui malie eguagliano forse quelle di Abarikaf. Non si può mai sospettare i mezzi ch’egli è per opporre agli attacchi, variandoli egli del continuo; e se gli effetti ne sono visibili, il vostro genio deve antivenire quelli ch’ei vi nasconde ed occulta: tutto, sarebbe impossibile per noi, ma nulla dev’esserlo pel cavaliere di Dorrat Algoase. — [p. 59 modifica]

«La resistenza e le difficoltà infiammano il coraggio del principe arabo; egli approfitta de’ primi albori per partire, ed i delfini lo conducono all’isola Rossa, della quale supera l’estrema punta per volgersi all’isola Verde, ch’ei si propone di attaccare alla domane. Nè le figlie del mare hanno abbandonato il loro liberatore, e continuamente provveggono a’ di lui bisogni. L’eroe, abbandonandosi alla proprie riflessioni, rammenta i discorsi dei saggio Alabus. — Temo per voi meno la forza aperta che l’astuzia,» gli diceva l’aio. Egli si mette dunque in guardia contro quelle del genio che deve soggiogare; si addormenta pieno di fiducia tra le braccia della Provvidenza, e svegliasi la domane col cuore pieno d’ardore e di speranza.

«Vogava l’eroe tranquillamente verso il suo destino; di repente le tre sorelle alzano uno strido: spariscono la testa e le mani d’Ilzaide, che nuotava a fianco della zattera. Habib sguaina la scimitarra, si getta a nuoto, e trovasi imbarazzato nelle maglie delle reti; allora pronunzia la terribil parola, adopera il fendente del ferro, e le maglie cedono da tutte le parti. Prende Ilzaide, e la porta sul fodero: vola poi in soccorso delle sorelle; salvate anche queste, vede che la zattera si agita senza avanzare, e che i delfini trovansi impacciati nelle medesime reti; nuota loro intorno, e li scioglie. Per assicurarsi la via, monta sul primo delfino, e vola verso terra, rompendo a destra ed a sinistra le reti tese sul suo passaggio. Dalla cima d’una delle più alte torri del palazzo d’acciaio, il tiranno osserva l’oggetto che giunge alla sponda; vede che si oltrepassa la rete magica colla quale aveva ingombro il mare; il principe arabo sfugge a’ suoi sguardi, ma scorge sopra un oggetto che galleggia velocemente, un gruppo di tre donne quasi ignudo, nè può presumere contro quale specie di [p. 60 modifica] pericolo debbasi premunire. Mal si giudicherebbe di lui se si credesse sedurlo per mezzo della beltade, e le precauzioni ch’egli seppe prendere, lo rassicurano contro ogni specie di sortilegio. Di vero acciaio è il palazzo che occupa, nè vi si perviene se non passando sotto una volta tagliata a scarpello nel vivo masso, armata di punte di ferro, e sostenuta da una chiave che pende da un sottil filo: difesa questa che non può cedere ad incantesimi, nè alle arti d’alcuna sorta di magia. Così fidente Nisabic nelle proprie forze, esce dal palazzo, varca la formidabil volta, e corre incontro all’avversario; il gruppo da lui scoperto, inoltra verso terra, ed il cavaliere si slancia sulla sponda. Il mostro disprezza un simile assalitore: egli che è coperto d’armatura dalla testa a’ piedi, e che conobbe, consultando gli astri intorno alla sua sorte, come, per rendersi padrone di lui, sia d’uopo impossessarsi della sua casa d’acciaio. Gli pare impossibile che il nemico possa sfuggire al danno della volta misteriosa, e fosse pur tanto felice, non vi sarebbe mezzo alcuno per distruggere il forte, presso cui deve trovarsi dopo varcata la volta fatale.

«Nisabic, con in mano un’enorme mazza d’acciaio, presentasi ad Habib, e: — Chi sei tu, temerario?» gli grida; «qual follia qui ti tragge a terminare la vita? — Sono il cavaliere di Dorrat Algoase,» risponde Habib, «e vengo a castigare i ribelli a Dio ed a Salomone. — Vile insetto,» il genio furibondo ripiglia, e non hai che una vita da perdere, ed osi senz’armi insultare Nisabic! Muori della morte che serbo a’ miei schiavi.» E in pari tempo, con portentosa celerità, alza la clava, e la lascia cadere sul capo dell’eroe. Non oppone il principe a quel colpo se non la lama della scimitarra; ma terribile n’è l’effetto, chè la mazza sfugge all’altro di mano, e seco lo trascina nella polve. Il talismano lo abbaglia, vede che sta [p. 61 modifica] per cader in potere del nemico, e pronuncia neri scongiuri. Habib si accosta per ferire il genio abbattuto, e non iscorgendone che l’armatura, vede di non essersi impadronito se non della scorza d’un guerriero. Sparita era la sostanza materiale di Nisabic, nè il principe arabo immaginava che tal vittoria per lui fosse più preziosa del corpo del genio; perocchè essa spiegava in fatti la profezia, la quale diceva che, per rendersi padrone del ribelle, bisognava impossessarsi della sua casa di ferro; e l’oracolo aveva in mira l’armatura in cui stava racchiuso, e nella quale il genio pareva aver riposta tutta la fiducia. Habib calpesta quell’armatura, le cui proporzioni di molto eccedevano le stature comuni; con quattro fendenti ne spezza i nodi, ne disperde i frantumi, e compie così un altro senso dell’oracolo: Le potenze sottomesse a Nisabic saranno slegate e disperse.

«Rendendosi invisibile e ritirandosi sotto la volta che forma l’ingresso della sua dimora, il mostro fa l’ultimo saggio del proprio potere. Presentasi sotto la forma sua naturale colla scimitarra in pugno, ed attende Habib al varco della volta come per isfidarlo a singolar tenzone. Il giovane cade nell’agguato; retrocede il genio due passi, taglia il filo che tien sospeso la chiave della volta, e le rupi sul momento si sfasciano con orribil fragore. Appena il principe ode il primo scricchiolio, pronuncia con forza la formidabil parola del talismano, ed oppone alla caduta dei massi la lama sfolgoreggiante, talchè i rottami, cadendo, dispongonsi a destra ed a sinistra senza recargli il minimo danno; lo circonda un nembo orrendo di polvere, e non si ode intorno che gemiti e grida; era Nisabic che li mandava. — Arabo,» diceva il genio, «eccomi istruito dalla sventura: riconosco i tuoi destini ed i miei: ho creduto ad oracoli che m’ingannarono; ti attendeva da lungo [p. 62 modifica] tempo, e non li riconobbi; tu celavi il tuo potere sotto meschine apparenze: troppo follemente mi fidai, e tu vincesti; non abusare della tua vittoria; sono schiacciato sotto queste ruine: tremenda qui sarebbe la mia esistenza; fammi trasportare nelle spelonche del Caucaso: almeno non vi gemerò solo! — Genio,» rispose Habib, «sei colpevole di molti delitti; ma io ho l’anima d’un cavaliere, ed il nemico può domandarmi grazia; nondimeno, non posso decidermi senza consiglio, e non ti darò risposta se non quando avrò fatto tre preghiere.»

NOTTE CDLXXIX

— Habib trovavasi come sepolto in una fessura in mezzo ai massi. Appena la polve fu dissipata, vedesi brillare sulla testa come due stelle: erano gli occhi incantevoli della più giovane delle figlie del mare. — Siete voi, signore?» gli grida essa; «quanto siamo liete! come abbiam tremato pei vostri giorni allorchè vedemmo precipitarvi addosso codesta montagna! Prendete i miei capelli, cavaliere; non temete di farmi male; ho forza e coraggio.» Sì dicendo, lascia cadere la treccia sino a lui, che ne prende l’estremità, vi si avvinghia, ed essa riesce a trarlo dal sotterraneo. Prima cura di Habib fu di ringraziare la sua liberatrice. — Non ho fatto nulla per voi,» rispond’ella, «nè vogliate ringraziarmi; ben desidererei di rendervi il più felice degli uomini!» E nel tempo stesso gli tendeva la mano per aiutarlo a [p. 63 modifica] saltare di scoglio in iscoglio, finchè finalmente fossero giunti sulla scarpa esterna della fossa del palazzo d’acciaio, residenza ordinaria del genio Nisabic.

«Appena arrivati colà, videro le altre due fanciulle sulle eminenze vicine. — Venite, sorelle,» gridò Ilzaide; «eccolo.» Non eravi se non una forte e verace passione che metter potesse il nostro eroe al sicuro dalle seduzioni tanto più pericolose d’Ilzaide in quanto ch’erano innocenti; ma egli era già soggiogato dal suo destino, nè la regina nulla dovea temere. Intanto la conquista dell’isola Verde non era finita; il castello d’acciaio è inaccessibile, le fortificazioni sono custodite, chiuse le porte ed alzati i ponti. — Ignoro ancora,» dice Habib, «come potrò bastare ad impresa tanto ardua; ecco là un forte inattaccabile: le forze umane nulla vi possono: non ho più fiducia in me, bensì nei decreti della sorte che mi reggono; sarebbe pur possibile che le dichiarazioni della disfatta di Nisabic non fossero che una scaltra insidia per impegnarmi in un nuovo combattimento, e ch’io fossi assalito da pericoli, cui voi non dovete partecipare; tornate nel vostro elemento, fate voti pel cavaliere di Dorrat Algoase, ed almeno la vostra lontananza mi renda tranquillo al tutto sulla vostra sorte. — Noi non vi lasceremo,» risposero le figlie del mare; «con voi non si corre alcun rischio. — Se foste sempre al nostro fianco,» soggiunse la più giovane, «sfiderei le tempeste che frangono gli scogli. —

«Avvicinasi Habib al ponte levatoio, colla sciabola in pugno. — In nome di Salomone,» grida, «ed in virtù del suo talismano, comando a questo ponte di abbassarsi.» Immediatamente quello gira sui cardini, ed il varco è aperto. Tronca il guerriero colla scimitarra le due catene che servono a rialzarlo, e penetra nella corte della fortezza. In mezzo ad essa [p. 64 modifica] ergesi una colonna, in cima alla quale vede una gabbia di ferro; il monumento è coperto di talismani, e vi legge questa iscrizione: — Non puoi essere distrutta che dalla forza dell’Arabia.» Habib percuote colla spada tutti que’ talismani; un rumore improvviso rimbomba dal centro de’ sotterranei alla sommità delle volle; la colonna si spezza, ed i sudditi di Dorrai Algoase, avvinti di catene, escono dalle caverne. La gabbia trovasi in terra; Habib vi scorge entro un oggetto straordinario, di cui dura fatica a distinguere la specie: era una donna ignuda, i cui capelli ne coprivano il volto e la persona. — Chi siete, o donna?» domanda l’eroe. — Signore,» colei risponde, «fatemi uscire dalla mia prigione, e datemi alcune vesti onde vi comparisca decentemente davanti; questa gabbia è chiusa da un talismano che il feroce Nisabic porta sempre con sè; procurate di aprirla, rendetemi la libertà, ed io non cesserò di benedire Iddio, Maometto e voi. — Nè dimenticherete il gran Salomone,» riprese il cavaliere,» in nome del quale infrango tutti gli ostacoli.» E nel medesimo tempo percuoteva le ferree sbarre colla scimitarra.

«Intanto le tre figlie del mare, avendo divise le loro spoglie, ne coprirono la prigioniera in modo che potesse presentarsi agli sguardi del cavaliere senza che ne soffrisse la di lei modestia. Sciolti dalle catene, i sudditi di Dorrai Algoase presentaronsi alla dama incognita, esternandole tutti i segni d’un attaccamento e d’un rispetto del quale Habib ignorava i motivi. — Che fate mai?» chiese loro;» chi è questa dama? — Aimè! signore,» rispose uno di essi, «è la dama da’ bei capelli; prima della ribellione di Abarikaf era nostra regina, ed è parente della bella Dorrat Algoase! — Oh cielo!» sclamò il principe arabo; «una regina, una parente di Dorrat Algoase! come potrò io renderle tutto ciò che ha perduto? [p. 65 modifica] — Nulla vi sarà meno malagevole,» rispose colui ch’egli interrogava. «Il tiranno accumulò in questa fortezza, insieme alle dovizie della nostra regina, tutte quelle dell’isola della quale si è impossessato, e dacchè siete qui il padrone, voi nuotate nell’abbondanza. Le donne che vedete là in fondo al cortile, e che la loro situazione impedisce d’accostarsi, erano al suo servigio; mostrarono troppo affetto per lei dopo la sua disgrazia, ed un carcere fu la ricompensa della loro fedeltà.

«— Cercate,» disse Habib, «tutti quelli ch’erano addetti alla persona della vostra regina, e venga ripristinata nel possesso d’un palazzo, in cui tutto a lei appartiene. — Anch’io era al suo servizio,» riprese l’altro, «ed in un posto di fiducia, — Voi lo riprenderete,» disse Habib, «s’ella lo stimi opportuno; intanto, adunatele intorno tutto ciò che qui può contribuire a’ suoi comodi, e se conoscete gli appartamenti del castello, dopo aver parlato a quelli che devono riunirsi per servirla, mi accompagnerete, affinchè io possa scortarla nel più magnifico. —

«In un momento, le persone che devono comporre la servitù della dama dai bei capelli son raccolte; Habib a lei le presenta, e la prega di accettare la sua mano. — Voi rientrate ne’ vostri diritti, o madama,» le disse; «comandate qui, e concedete al cavaliere di Dorrat Algoase l’onore di ricondurvi nel vostro palazzo. —

«La dama dai bei capelli, abbassati gli occhi, si lasciò condurre in un appartamento per lei dal genio preparato, ed al quale essa aveva preferita la gabbia ond’era stata allora tratta. Vi regnava la maggior magnificenza, e la dama trovò subito molto più che necessario non fosse per vestirsi convenevolmente ella e tutta la sua corte. Le tre figlie del mare l’avevano seguita, e come compagne del cavaliere arabo, [p. 66 modifica] le domandarono in grazia di lanciarsi acconciare i bellissimi suoi capelli. — Aimè!» sclamò la donna; «essi furono la cagione della mia sciagura; nondimeno, siccome nel mio infortunio stati pur sono l’unico mio conforto, non posso rimproverarmi il troppo affetto in cui li ebbi: ve li abbandono dunque con molta soddisfazione.» La dama dai bei capelli uscì dalla toletta con in testa una treccia in forma di tiara, adorna di perle e rubini, mentre due altre gliene cadevano sul dorso e sulla cintura. Appena fu abbigliata, gli scudieri vennero ad avvertirla essere la tavola imbandita. Habib la prese per mano onde condurla: essa pregò le amabili figlie del mare di restar a pranzo con lei, ed il cavaliere arabo trovossi per la prima volta in sua vita a desco con donne, e per la prima volta da sei mesi, ad un banchetto che non fosse il prodotto della sua o dell’altrui industria.

«La dama dai bei capelli era giovane, di bella statura ed avvenente; i suoi sguardi, pieni di fuoco, spiravano un languore commovente; un cuore che stato non fosse già invaghito, sarebbesi facilmente acceso per lei; ma nessuno eravi che potesse rifiutarsi all’interesse che ispirar dovevano la sua persona e le sue avventure. Habib lasciava cadere su lei teneri sguardi. Ilzaide li sorprendeva senza cercarli, e sensibile, benchè inconscia, ne risentiva gelosia. Il tempo della mensa passò in attenzioni reciproche: terminato il pasto, la compagnia passò in una sala, ed Habib pregò la dama a compiacersi, se non le fosse d’incomodo, di fargli il racconto delle sue disgrazie. Sospirò la donna, asciugossi le lagrime che le spuntavano sul ciglio, e prese a dire:


Note

  1. La città di cristallo.