Le Selve Ardenti/III

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Capitolo III
L’isola delle belve

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Capitolo III
L’isola delle belve
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Capitolo III.


L’isola delle belve.


Altro che un portiere! Ve n’erano parecchi dei guardiani su quell’isolotto perduto quasi sull’orlo della rapida! Infatti appena i quattro uomini avevano cominciato il loro ballo per riscaldarsi un po’ le membra intirizzite, sotto gli alberi ed in mezzo agli altissimi cespugli che la spuma della cateratta alimentava anche durante i grandi calori, sviluppando quella vegetazione enormemente, (chè il Nebraska freddissimo d’inverno è ardentissimo durante l’estate) udirono un concerto indiavolato e tale da far rizzare i capelli all’uomo più coraggioso dell’America settentrionale.

Erano muggiti di bisonti, bramiti di wapiti e di daini mooses, urli di lupi, fremiti d’orsi, grugniti e ruggiti soffocati che dovevano uscire dalle gole ardenti ed affamate dei giaguari e dei coguari.

Pareva che su quel brano di terra, chi sa per quale strana occasione, si fossero radunati tutti gli animali feroci e non feroci, che scorrazzano le immense solitudini del Nebraska.

— Ehi, John, — chiese il signor Devandel — siamo entrati nella gabbia d’un gigantesco serraglio? Non manca che il barrito degli elefanti. Fortunatamente per noi, quei pachidermi amano gl’indiani orientali e non quelli occidentali, e perciò qui non ne nascono.

— È proprio vero, signor Devandel. Nelle mie lunghe corse attraverso tutte le praterie dell’Unione non ho mai veduto uno di quei bestioni così enormemente nasuti — rispose, l’indian-agent. — Le pelli-rosse e nemmeno il loro buon Manitou non ne sentivamo veramente il bisogno.

Qui basta il bisonte.

— Ed ora che cosa succederà di noi?

— Serviremo di cena a qualche bestione affamato, — disse Harry, lo scorridore di prateria. — Presto o tardi ciò doveva accadere.

— Un corno! — gridò John.

[p. 26 modifica]— Di bisonte.

— Sia pure anche di wapiti, a me poco importa. Ti voglio dare un buon consiglio.

— Parla, camerata. Tu sei sempre stato ascoltato dagli scorridori della prateria. Le tue parole valgono come le pepite dei placers della California. Parla dunque.

— Invece di chiacchierare, e di commentare, va’ a cercare della legna per tenere indietro i guardiani dell’isolotto. Il fuoco li fa scappare, mio caro.

— Lo so.

— E poi abbiamo bisogno di scaldarci e di ricaricare le nostre carabine. Non si sa mai quello che può succedere.

— John, — chiese il signor Devandel — come mai si sono adunati qui tanti animali?

— Io credo che non si tratti veramente d’un isolotto, bensì d’una penisoletta — rispose l’indian-agent. — Le bestie, sorprese dallo sgelo mentre pascolavano o cacciavano sulle rive del fiume, hanno attraversato la lingua di terra colla speranza di trovare qui un asilo sicuro.

— E ci mangeranno?

— Chi?

— Vi devono essere degli orsi e dei giaguari e anche dei coguari.

— Ma vi sono pure dei bisonti, dei lupi, dei wapiti e dei daini mooses: mangeranno prima quelli.

To’! Udite! Dei nitriti. Vi sono o dei mustani o delle mule fuggite da qualche ranchman.

Alcuni anni or sono mi sono trovato in una situazione quasi simile sull’alto Mississippi ed i miei polpacci non hanno sofferto affatto.

Su, Harry.... su, Giorgio: un po’ di legna.

— E segnaleremo con una bella fiammata la nostra presenza su questo brano di terra alle pelli-rosse! — esclamò il signor Devandel.

L’indian-agent, alzò le spalle.

— Chi sa dove si troveranno ora Minehaha e Nube Rossa, — disse poi. — Io non m’inquieto affatto.

Vengano a prenderci sull’orlo della rapida, se sono capaci.

I loro mustani, che io sappia, non sono mai stati nè canotti, nè pesci.

Suvvia, Harry.... su, Giorgio, legna, legna, poichè fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, specialmente con certi individui armati di denti d’acciaio e di unghie poderose. —

I due scorridori, le cui carabine potevano forse ancora sparare, balzarono intrepidamente innanzi e si cacciarono sotto le vòlte di verzura [p. 27 modifica]cariche di neve, le quali avevano fortunatamente impedito a questa di cadere e di inumidire quei vecchi pezzi di legna che vi erano qua e là.

Dei punti luminosi, fosforescenti, brillavano dinanzi a loro, occhi di felini certamente; tuttavia i due scorridori, abituati a tutti i pericoli e rotti a tutte le imprese, riuscirono a fare la loro raccolta di legna senza subire alcun attacco.

Eppure delle belve ce ne dovevano essere moltissime su quell’isolotto a giudicarne dai ruggiti e dai fremiti degli orsi, forse neri e forse grigi, come vi si doveva trovare molta selvaggina piccola e grossa.

I due scorridori tornarono lestamente verso la riva, e gettarono i loro fasci a piè d’una grossa betulla, le cui foglie sussurravano stranamente ai soffi del vento notturno.

— Secca? — chiese brevemente l’indian-agent, accendendo prima uno zolfanello e poi un pezzo di giornale, che conservava nelle sue tasche chi sa da quanti anni.

— Speriamolo — rispose Harry. — Ti avverto peraltro che io non tornerò più sotto quelle piante. Vi sono troppe bestie e non vorrei lasciare un braccio o una gamba in bocca ad un giaguaro o ad un orso.

— Infatti quest’isolotto sembra un vero serraglio, — disse il signor Devandel. — Come ce la caveremo noi?

— Forse meglio di quello che credete — rispose l’indian-agent.

In quel momento una bella fiammata brillò, salutata da uno spaventevole concerto a base di ruggiti, di ululati e di mugolii.

I due scorridori avevano avuta la felice idea di raccogliere la legna sotto i pini, sicchè contenendo quella molta resina, ardeva come uno zolfanello.

Se non che quella luce, chiara, intensissima come quella proiettata da una grossa lampada a benzina, invece di spaventare i feroci abitanti dell’isolotto produsse un effetto proprio contrario e tale da incutere spavento.

Ed infatti quattro scorridori videro, non senza molta apprensione, comparire nell’arco luminoso tre o quattro grossi giaguari, un paio di coguari, avversari non disprezzabili, quantunque siano chiamati a torto i leoni delle Americhe, non possedendo dei loro omonimi d’Africa nè la vigorìa, nè l’audacia, e poi cinque orsi, fra i quali due grigi di dimensioni gigantesche, ed una buona dozzina di lupi neri.

Dietro urlavano a squarciagola le numerose coyotes, ma non era il caso di darsi pensiero di quegli animali, che partecipano dello sciacallo e della volpe.

[p. 28 modifica]— Corpo di centomila corna di bisonte! — gridò l’indian-agent, balzando indietro. — Il fuoco non spaventerebbe più le bestie feroci?

Harry, Giorgio, possono sparare le vostre carabine? Presto figliuoli: o domattina non rimarrà intatto nemmeno un solo osso dei nostri corpi. —

I due scorridori non si fecero pregare, bisognava assolutamente arrestare quella falange che s’avanzava con propositi poco pacifici.

Due colpi di carabina rimbombarono formando quasi una detonazione sola, seguiti da un urlo ferocissimo.

Un grosso orso nero, che aveva commessa l’imprudenza di alzarsi sulle zampe posteriori, offrendo così il suo largo ventre ai colpi degli scorridori, era ruzzolato a terra, contorcendosi comicamente.

John ed il signor Devandel, che nel frattempo avevano cambiate le cariche alle loro armi, fecero una seconda scarica, e abbatterono un coguaro ed un lupo.

Le belve arretrarono, anche perchè Harry e Giorgio avevano scagliato contro di esse parecchi tizzoni ben accesi, che sui loro musi non dovevano certamente produrre un piacevole effetto.

Solamente i giganteschi orsi grigi si mostravano un po’ riluttanti a rinselvarsi, quantunque dietro di loro avessero gran copia di selvaggina che potevano abbattere facilmente con una sola zampata.

— Dobbiamo ricominciare? — chiese Harry, ricaricando prontamente la carabina.

— Per il momento lasciamoli tranquilli — rispose John. — Io spero che non spingeranno la loro audacia fino a forzare i nostri fuochi.

Sono gli orsi grigi che m’inquietano più dei giaguari, dei coguari e dei lupi.

Se ci giungono addosso, avremo un bel da fare a sbrigarcela.

— Ne abbiamo ammazzati abbastanza nella prateria e nelle Montagne Rocciose per non spaventarci ora — rispose Harry. — Vuoi che te ne getti giù uno subito?

— Aspetta un po’. Non irritiamo quei bestioni, almeno in questo momento.

— Che bella condizione è questa! Preferirei trovarmi dinanzi alle pelli-rosse.

— Ed io no, Harry — rispose l’indian-agent. — Getta dell’altra legna sul fuoco, e vediamo che cosa sapranno fare tutte queste bestie.

— Mi sorprende una cosa, John, — disse il signor Devandel.

— Dite.

— Che cerchino di assalire noi, mentre sotto quelle piante ci devono essere non solo dei mooses e dei wapiti, ma anche dei bisonti.

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— Si vede che preferiscono la carne umana — rispose l’indian-agent.

— Forse serberanno gli altri a più tardi.

— E come mai si sono radunati qui tanti animali?

— Ve l’ho già detto: questa è una penisoletta che le acque della riviera hanno per il momento tagliato in due.

Quando la piena dello sgelo sarà passata, anche noi potremo guadagnare tranquillamente la riva.

— Se saremo allora sempre vivi, — disse in quel momento Giorgio alzando il rifle. — Non vedi che hanno un gran desiderio di affondare i loro denti nelle nostre carni?

— Ritornano?

— Con in testa gli orsi grigi.

— Saremo costretti a rifugiarci su qualche albero? — chiese il signor Devandel, il quale nonpertanto si preparava animosamente all’attacco.

— Non c’è fretta. —

In quel momento un grido umano si udì echeggiare sotto gli alberi, coprendo per un istante gli urli delle belve.

— John, hai udito? — chiese Harry.

— La voce d’una donna, se non m’inganno.

— Come mai una donna può trovarsi qui? — disse il signor Devandel balzando dinanzi al fuoco. — Non può trattarsi che di qualche vendetta indiana.

Un altro grido più straziante del primo si propagò sotto le vòlte di verzura e sulle acque della riviera.

— Il grido d’una donna, è vero, John? — chiese Devandel.

— D’un uomo, no, di certo — rispose l’indian-agent.

— E noi non muoveremo in suo aiuto? Noi i forti scorridori della prateria?

— Ci siano orsi o giaguari, o lupi o coguari, noi passeremo. Prendete un ramo acceso, tenete le carabine pronte e seguitemi. Noi sfonderemo la linea delle belve. —

Afferrò un grosso ramo di pino che bruciava meravigliosamente in virtù della resina, e si scagliò innanzi con un coraggio straordinario, degno d’altronde d’un tal uomo.

Il signor Devandel, Harry e Giorgio non avevano tardato ad imitarlo.

Roteando i loro rami accesi, i quali lasciavano cadere fasci di scintille, si precipitarono contro la prima linea delle belve feroci bruciando soprattutto i baffi ai giganteschi orsi grigi.

I colossi spaventati da quelle fiammate, si ritrassero insieme coi lupi [p. 30 modifica]che si spingevano audacemente avanti, sicchè i quattro scorridori poterono passare senza che una zampata li colpisse. Intanto un terzo grido, più straziante degli altri due, si era fatto udire.

Non era il grido potente di un uomo, ma quello d’una donna.

John non si era ingannato.

— Accorriamo! — gridò l’indian-agent. — La linea più pericolosa l’abbiamo passata.

Se urteremo contro i bisonti, i mooses ed i wapiti, con pochi colpi di carabina li faremo fuggire.

Su, alla carica! La donna non deve essere lontana! —

Si gettarono attraverso le piante, facendo sempre roteare i rami accesi, per illuminare la via e nel medesimo tempo tenere lontane le belve che non avevano rinunciato, a quanto pareva, al piacere di regalarsi una cena di carne umana.

Ed infatti orsi, giaguari, coguari e lupi, si erano messi alle calcagna dei quattro scorridori, rompendo il silenzio della notte con mille urli diversi ma tutti feroci.

Fatti circa seicento passi, i quattro scorridori si erano bruscamente arrestati dinanzi ad un gigantesco pino, il quale stendeva orizzontalmente i suoi rami colossali.

— Aiuto! — gridò una voce.

— Siamo qui — rispose prontamente l’indian-agent. — Siamo uomini bianchi, perciò nulla avete da temere da noi, anche se siete una squaw. —

La risposta non fu quella che si attendevano i quattro leali scorridori della prateria.

— Ancora gli uomini bianchi! Ancora i visi pallidi maledetti! Assassini! Non vi svelerò mai il segreto degli Atabask. —

John si era fermato, guardando il signor Devandel.

— Che cosa ne dite voi, mio giovane amico, di tutta questa faccenda?

— Ah! La chiami semplicemente una faccenda? — rispose il signor Devandel.

— È una mia abitudine.

— Faccenda o non faccenda io dico che noi dobbiamo salvare quella indiana prima che i giaguari la divorino.

— Non sappiamo dove si trova.

— Non dev’essere lontana.

— Ma dove?

— Andiamo innanzi.

— E lesti, poichè le bestie feroci ci sono dietro — disse Harry.

— Ancora?

[p. 31 modifica]— Pare che non ne abbiano avuto abbastanza della lezione che abbiamo loro data.

— Anche gli orsi grigi?

— Sono sempre in prima linea.

— Grida, dannata squaw! — urlò l’indian-agent. — Dove vuoi che ti cerchiamo noi? Nel fiume o in cima agli alberi? Siamo qui per salvarti. —

Una voce venne dall’alto.

— Ancora i visi pallidi?

— Noi siamo amici degli uomini rossi ― rispose prontamente l’indian-agent.

— Me lo giurereste?

— Sul buon Manitou o sul Grande Spirito, a tua scelta.

— Allora avanti, avanti!

— Dove sei?

— Legata fra i rami d’un albero. —

John, che era già giunto sotto un enorme pino, alzò il ramo resinoso, e vide qualche cosa di biancastro agitarsi fra i rami ad una altezza di cinque o sei metri, altezza sufficente per mettere a dura prova tutta l’agilità e lo slancio dei coguari.

— Corpo di trentamila corna di bisonte! — esclamò. — Una donna!... Puoi scendere?

— Sono legata.

— Chi ti ha messa costassù?

— Due cattivi uomini bianchi, che volevano strapparmi il segreto degli Atabask.

— Giorgio, — disse l’indian-agent, volgendosi verso il fratello dello scorridore. — Tu sei il più agile; sali e va’ a sbarazzarla dai suoi legami....

E noi, amici, teniamo testa a questi noiosi orsacci, i quali pare che abbiano congiurato stasera di banchettare colle nostre polpe vecchie e giovani. —

L’ostinazione di quegli animali era veramente inesplicabile, perchè sotto gli alberi si vedevano fuggire bisonti e grossi cervi, i quali avrebbero potuto satollarli abbondantemente e senza bisogno d’impegnare dei terribili combattimenti, poichè anche i giganteschi bufali di rado si rivoltano od oppongono una lunga resistenza, quantunque posseggano la forza d’un mezzo elefante o per lo meno d’un rinoceronte. La squaw, vedendo i cacciatori puntare i fucili, aveva subito gridato:

— Non fate fuoco, visi pallidi! —

Poi un sibilo modulato uscì dalle sue labbra, ed orsi, giaguari, coguari e perfino i lupi si arrestarono di colpo.

[p. 32 modifica]― Ecco una cosa strana! — esclamò l’indian-agent. — Che quella donna sia la domatrice di questo serraglio? —

Giorgio salì.

— Ci sono già, — rispose lo scorridore di prateria. — Due colpi di coltello e questa donna sarà libera.

— È un’indiana?

— Sì, John.

— Giovane?

— Sì, e bellissima. Può dare dei punti a Minehaha.

— Sbrìgati. Non mi fido di queste bestie, quantunque siano diventate improvvisamente mansuete. —

Infatti tutta quella truppa formidabile, che pareva pronta a spalancare le mascelle sui dorsi e sulle braccia dei quattro scorridori, si era accovacciata, sbadigliando e mugolando, senza più osar di fare un passo innanzi dopo quel fischio.

Nel frattempo Giorgio, lesto come una scimmia, si era arrampicato sul pino, e con pochi colpi di coltello aveva liberata la giovane indiana, aiutandola a discendere.

La disgraziata, che pareva non avesse più di quindici o sedici anni e che, come aveva detto Giorgio, aveva lineamenti bellissimi, più europei che indiani, quantunque la sua pelle fosse leggermente rossastra con delle indefinibili sfumature color di rame, era appena coperta da un vecchio serapé messicano, tutto sbrindellato, stretto ai fianchi da una corda incatramata.

Appena fu a terra, spalancò i suoi grandi occhi nerissimi e profondi come la notte, sui quattro scorridori, e dopo di averli osservati attentamente, disse:

— Voi non siete i cattivi visi pallidi che vogliono strapparmi il segreto degli Atabask. Ah! l’uomo dai capelli rossi.... come è cattivo!

— Chi è? — domandò John.

— Un uomo pallido.

— Ve ne sono tanti in America!... E dimmi: quelle bestie non ci divoreranno?

— Finchè ci sarò io con voi non oseranno toccarvi — rispose l’indiana, con un sorriso strano.

— Sono molte!

— Che cosa importa? Vuoi vedere, viso pallido? —

La giovane strappò di mano il ramo resinoso che continuava a bruciare, si strinse addosso il vecchio serapé per ripararsi dal vento gelato della notte, poi con grande stupore dei quattro scorridori, mosse incontro alle belve, lanciando a destra ed a sinistra fasci di scintille.