Le cento novelle antiche/Novella XX

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Novella XX

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Della grande libertà e cortesia del re d’Inghilterra.


NOVELLA XX.


Lo giovane re d’Inghilterra spendeva e donava tutto. Un povero cavaliere avvisò un giorno un coperchio d’uno nappo d’ariento; e disse nell’animo suo: se io posso nascondere quello, la masnada mia1 ne potrà stare molti giorni. Misesi il coperchio dell’ariento sotto. Il siniscalco, al levare le tavole, riguardò l’ariento. Trovaronlo meno. Cominciaro a metterlo in grido, et a cercare i cavalieri alla porta. Il re giovane avvisò costui che l’avea, e venne a lui sanza romore, e disseli chetissimamente: mettilo sotto a me, ch’io non sarò cerco. E lo cavaliere pieno di vergogna così fece. Il re giovane li le rendè fuor della porta; e miseli di sotto, e poi lo fece chiamare, e donolli l’altra partita. E più di cortesia fece: che poveri cavalieri una notte entrarono nella camera sua, credendo veramente che lo re giovane dormisse. Adunaro li arnesi e le robe a guisa di furto. Ebbevene un che mal volentieri lasciava una ricca coltre che ’l re avea sopra: presela, e cominciò a tirare. Lo re per non rimaner scoperto, prese la sua partita, e teneva, siccome que’ [p. 35 modifica]tirava; tanto che per fare più tosto li altri vi puosero mano. Et allora lo re parlò: questa sarebbe ruberia e non furto; cioè a torre per forza. Li cavalieri fuggiro, quando l’udiro parlare, che prima credevano che dormisse. Un giorno lo re vecchio, padre di questo re giovane, lo riprendea forte, dicendo: dove è tuo tesoro? Et elli rispose: messer, io n’ho più che voi non avete. Quivi fu il sì e 'l nò. Ingaggiarsi le parti. Aggiornaro il giorno che ciascuno mostrasse il suo tesoro. Lo re giovane invitò tutti i baroni del paese, che a cotal giorno fossero in quella parte. Il padre quello giorno fece tendere uno ricco padiglione, e fece venire oro et ariento in piatti e vasella et arnese assai e pietre preziose infinite, e versò in sui tappeti, e disse al figliuolo: dove è il tuo tesoro? Allora il figliuolo trasse la spada del fodero. Li cavalieri adunati trassero per le vie e per le piazze. Tutta la terra parea piena di cavalieri. Il re non poteo riparare. L’oro rimase alla signoria del giovane, lo quale disse a’ cavalieri: prendete il tesoro vostro. Chi prese oro, chi vasello, chi una cosa, chi un’altra, sì che di subito fu distribuito. Il padre ragunò poi suo sforzo per prenderlo. Lo figliuolo si richiuse in uno castello e Beltramo dal Bornio con lui. Il padre vi venne ad assedio. Un giorno, per troppa sicurtà, li venne un quadrello per la fronte disavventuratamente, che la contraria fortuna che ’l seguitava, l’uccise. Ma innanzi ch’elli morisse vennero a lui tutti i suoi creditori, et addomandaro loro tesoro [p. 36 modifica]che a lui aveano prestato. Il re giovane rispose: signori, a mala stagione venite, che ’l vostro tesoro è dispeso. Li arnesi sono donati. Il corpo è infermo; non avreste omai di me più buono pegno. Ma fe’ venire uno notaio, e quando il notaio fu venuto, disse quello re cortese: scrivi ch’io obbrigo mia anima a perpetua prigione, in fino a tanto che voi pagati siate. Morio questi. Dopo la morte, andaro al padre suo, e dumandaro la moneta. Il padre rispose loro aspramente, dicendo: voi siete quelli che prestavate al mio figliuolo, ond’elli mi facea guerra, et imperò sotto pena del cuore e dell’avere, vi partite di tutta mia forza. Allora l’uno parlò, e disse: messer, noi non saremo perdenti, che noi avemo l’anima sua in prigione. E lo re domandò, in che maniera: e quelli mostraro la carta. Allora il re s’umiliò, e disse: non piaccia a dio che l’anima di così valente uomo stea in prigione per moneta; e comandò che fossero pagati, e così furo. Poi venne Beltramo dal Bornio in sua forza, e quelli lo domandò, e disse: tu dicesti ch’avei più senno che uomo del mondo; or ov’è tuo senno? Beltramo rispose: messere, io l’ho perduto. E quando l’hai perduto? Messere, quando vostro figliuolo morio. Allora conobbe lo re che ’l senno ch’elli avea, si era per bontà del figliuolo: sì li perdonò, e donolli molto nobilemente.

Note

  1. la masnada mia; cioè la mia famiglia. “Masnada (dice il Menagio nelle Origini della lingua italiana) si disse prima per famiglia (da mansio, mansio nata, mansinata, masnata; masnada). Si disse poi per compagnia e truppa di gente semplicemente; e finalmente per compagnia di gente armata.„