Le donne de casa soa/Nota storica

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Nota storica

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Atto V
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NOTA STORICA

Negli ultimi giorni di settembre, o primi di ottobre, del 1755 il Goldoni, scrivendo da Venezia a S. E. Francesco Vendramin (ch’era a Padova, un po’ incomodato di salute) intorno alle commedie già pronte per la stagione autunnale, riferìva: «Mi dicono che Lapy faccia bene la vecchia; lo vedremo. Nelle Donne de casa soa ho fatto una vecchia apposta per lui, e sarebbe bene la facesse prima di quelle che ha fatto Gandini, onde la farò copiar subito, e poi la manderò a V. E.» (D. Mantovani, C. G. e il Teatro di S. Luca, Milano, 1885, p. 74). Le recite seguirono dunque «nell’autunno», come pure afferma l’ed. Pitteri, poco dopo la caduta della Buona Famiglia, nell’ottobre stesso e nel novembre (sbaglia l’ed. Zatta, e sbagliano le Memorie che ci vorrebbero far retrocedere al carnovale): e riuscirono felicissime «in Venezia non solo» ma, più tardi, «in altre parti dell’Italia eziandio» (lett. di dedica, v. a pag. 429).

Per ciò forse furono onorate, più delle Massere, di furibonde critiche da parte dei chiaristi, prima di tutti da S. E. Giorgio Baffo, del quale nel notissimo cod. Cicogna MDCCCLXXXII - 2395 del Museo Civico di Venezia si legge una indecentissima epistola martelliana. Della commedia intitolata Le donne de casa soa del celebre Sior Dr. C. G., Lettera del N. H. N. N. (alcuni frammenti riferi Cesare Musatti, Le donne de c. s. e una satira contro C. G.. nel n. 1O, anno 1, 24 febbr. 1907, del Palvese). Chi lo crederebbe? Eppure, in nome della morale, ci tocca udire il Baffo, proprio il Baffo, col suo linguaggio da lupanare, farsi difensore del buon costume contro Carlo Goldoni. L’osceno patrizio è fuor di sè, perchè il riformatore del teatro insegna il male e mette in scena «donne da bordello».

          «Onde contro i principi, contro le bone regole,
          Mette in scena e ruff..., e putt..., e pettegole».

Trova da biasimare l’amica

          «Piena de frascherie, de parole lascive,
          De motti scandalosi, de massime cattive»;

la «muggier che porta le braghesse», il marito balordo e la «vecchia massera, che ancora gh’à la stizza...»: tutti e tutto. Roba «da incartar sardelle», commedia «da buttarla sul fogo, da buttarla in canal».

          «El Dottor me perdona, col se l’ha merità.
               Mi l’ho sempre defeso, mi l’ho sempre lodà.
          Taroccar nei caffè non posso, e no me degno:
               Ma quando che i me stuzzega, dasseno no me tegno».

Con buona pace del Goldoni, il Chiari «De cento barche almanco avanti el ghe xe andà»; e il Baffo grida, sempre più esasperato, all’abate:

          «Andè drio la segonda, ma sul paluo no andè.
          Che quando l’acqua cala, in mer... restarè.

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          E la mer... lasseghela al porco, e a quella scr...
               Che le putt... el nomina: Donne de casa soa». —

Concediamo pure che la rima trascinasse il nobiluomo più in là del pensiero. Ma quasi non bastasse, ecco nel medesimo codice altra Risposta alla contro critica del Dr. Goldoni le Donne d. c. s. - del N. H. E. Zorzi Baffo, donde stralciamo questi versi:

          «I dise ben chi dise ch’el partio del Goldoni
               El xe una mandra d’asini, un muchio de c... ecc.
          Ho condannà la forma, el liogo, la maniera.
               La ruff... da nolo, l’amiga, la massera.
          La muggier cusì stramba, el bécco del sanser,
               El Schiavon prepotente, e Biasio balloner,
          El fin della Comedia, che l’ha lassa da banda.
          Perchè alle donne oneste i omeni comanda ecc.

Di chi poi fosse e qual fosse la «controcritica» non sappiamo dire: bensì conosciamo il titolo d’una curiosa Critica e Difesa della Commedia intitolada Le Donne de e. s., del Sig. Dottor C. G., Dialogo de n. n. tra sier Zulian e sier Boldo, in ottave Veneziane. Venezia 1755 (dal catal. dei libri stampati da P. Bassaglia), di cui parlano brevemente le Novelle della Rep.a lett.ia per l’a. 1755 nel n. 52 (27 dic ): «Questo galante Dialogo fatto in 8.a rima e con dialetto veneziano, ci fa rammentare il Pezzo teatrale composto dal celebre Molière, e che venne intitolato per ironia Le Donne letterate. Con pari oggetto il sig. G. diè il titolo alla nuova Commedia, intorno alla quale viene scritto Donne de casa soa par che le sia - Ma ’l carattere pò no le sostien....» Tale stampa, già additata fin dal 1885 da Achille Neri (Giorn. st. d. lett. it., vol. V, p. 275: recensione della Bibl.ia gold. dello Spinelli), sfuggì finora alle ricerche degli studiosi. È inutile ricordare che Boldo e Zulian si chiamano i due vecchietti delle Massere.

A malgrado delle offese di pochi nemici, il Goldoni si compiacque del trionfo ottenuto, e nel capitolo per la monacazione di Chiara Vendramin, nel 1760, volle bravamente difendere anche il titolo:

          «Donne de casa soa se sol chiamar
               Certe donne che vive retirae.
               Che fa i fatti de casa e sa laorar.
          E pò le impiega mezze le zornae
               Colle serve, le amighe e col compare,
               Sora el prossimo a dar delle taggiae.
          E le tratta i marii, ste zoggie care,
               Con imperio, con ira e con despetto.
               E le puttele impara da le mare.
          Tutti quanti a sto mondo ha el so defetto.
               Ma el se corregge, basta che ghe sia
               Qualchedun, che dia lume all’intelletto.
          Chi vol trovar della virtù la via,
               Chi brama de saver quel che va fatto.
               Vaga alla scuola de San Zaccaria».

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Quasi quasi, il Goldoni manderebbe a far scuola in convento il suo maestro di moralità nell' arte, Giorgio Baffo. - Nelle Memorie poi, l’autore rivendica addirittura il fine morale della sua commedia: «Je fis cette pièce en Italie pour encourager les bonnes mènagères, et pour corriger les mauvaises»; e incoraggia gli autori francesi a fare altrettanto (P. II, ch. 30). Spiega poi il titolo, «qu’on diroit en bon Toscan le Donne casalinghe (et les Bonnes Mènagères en François)»; ma non ci porge il solito riassunto. «D’ailleurs le merite principal de cette pièce consiste dans le dialogue», ed è perciò intraducibile.

Non solo ai tempi del Goldoni, ma anche nell’Ottocento le Donne de casa soa goderono fortuna, a differenza delle Massere. Le troviamo, per esempio, recitate dalla Compagnia Morelli a Venezia nel 1821 (v. Gazzetta privileg. di V en., 5 maggio) e nel 1823 (ivi, 4 sett.); dalla Compagnia Reale di Modena Romagnoli e Bon a Milano, nel 1827 (sett.: v. I Teatri, giorn. dramm.", Mil.) e nel 1828 (dic.); e ancora a Venezia dalla Compagnia di Luigi Duse, dopo il ’46 (Rasi, I comici italiani, vol. I, p. 802), e nel 1851 a Torino, dalla Compagnia Reale Sarda (Costetti, La Comp. R. S. ecc., Milano, 1893, p. 193). Troppe cose dovrei qui ripetere, che si possono leggere nella Nota storica delle Massere: però tiriamo innanzi e ascoltiamo alcuni giudizi espressi dai critici. Molti, come il Paravia, il Molmenti, il Masi, il Caprin e Maria Ortiz, ricordarono con onore le Donne de casa soa accanto alle Massere; e vedemmo già qualche citazione. Anche il buon Meneghezzi le collocò insieme con le Morbinose fra i «capi d’opera», ma aggiunse il voto malvagio, che «qualche felice penna italiana» le riducesse «a facile ed elegante prosa» (Della vita e delle opere di C. G. ecc., Milano, 1827, p. 170). Quanto meglio, salvo le scorrezioni, Domenico Gavi, il quale accolse la presente commedia e il Campiello fra le tredici più belle del Goldoni- «Il veneziano dialetto vi è adoperato con tutta la grazia e maestria: svelto e rapido lo stile: il verso è alessandrino, facile, e a suo talento pieghevole e pronto; le rime spontanee, svariate e felici: l'intreccio piano e spedito; i caratteri delle donne gradatamente diversi, e insieme uniformi nell’interesse che hanno e sottilità delle faccende di casa; usa di molto felici e begli artifizii per condurre i discorsi in giro su tutte le cose di famiglia, economia, lavoro, occupazione, ogni minimo vantaggio e profitto. Le scene una da altra provengono spontaneamente; un nodo altro porge: i teneri innocenti amori di Tonino e di Checca, e il carattere d’Isidoro, aspro Dalmata e buono, formano episodio, viluppo e scioglimento a un medesimo tempo, lasciando luogo alle più care piacevolezze. L’atto quarto con gran giudizio e diletto finisce; il quinto è un po’ voto, e per riempirlo commette il fallo che Angiola muti carattere, qual è di spiritosa, disinvolta e fedele alla data parola, in volubile, scioccherella e mancatrice di fede: e si scorge in gran pena e sudore il poeta; nondimeno sa poi trarne vantaggioso partito e bel giuoco, e termina bene; ed è commedia bella, bella e poi bella» (Della vita di C. G. ecc., Milano, 1826, pp. 163-3). - Del sudare di Goldoni non ci siamo accorti, nè del mutato carattere di Anzola; tuttavia ci piace l’entusiasmo dell’umile scrittore.

La buona morale vi ammirò Ferd. Galanti (C. G. ecc., Padova, 1882, p. 235: «...Tipi e costumi semplici, ritratti colla semplice favella del buon popolo veneziano, avvivata da continue arguzie, da proverbii, da osservazioni sen[p. 522 modifica]sate...») e, di recente, Ang. De Gubernatis: «Le donne casalinghe sono le buone massaie all’antica, che in casa comandano loro, ma hanno giudizio, non sono troppo spendereccie, ne si fanno criticare per i loro costumi... Angiola dispone a modo suo della sorte de’ giovani, comanda a bacchetta in casa, e domina, col suo brio e con la sua festività, tutta l’azione, del resto, molto scarsa, ma pure piena di vita» (C. G., Firenze, 1911, p. 295). Meglio difese l’insegnamento della commedia Cesare Musatti: «Sior’Anzola e siora Betta non potrebbero essere più accorte massaie di quello che si dimostrano fino da bel principio... Ora ponete mente all’epoca in cui scriveva Goldoni; epoca, come ognun sa, di bagordi, di baldoria, di dissipazioni in alto e anche in basso; e chi potrà negare che anche con Le donne de casa soa egli si prefiggesse raddrizzare un po’ il mal costume?» (l. c). Nessuna meraviglia che Carlo Dejob vi scorgesse un tantino di predica: «Fontanelle se félicitait de n’avoir jamais donne le plus petit ridicale à la plus petite vertu. Goldoni va plus loin: au risque de tomber dans la plus terre à terre des prédications, il loue les bonnes ménagères qui discutent s’il est plus avantageux d’acheter la toile toute préparee ou de la préparer soi-méme, qui méritent que le man leur remette tous les gains et leur demanda de quoi acheter un chapeau, qui se promettent d’allaiter elles-mèmes leurs enfants... (Le femmes dans la comédie etc, Paris, 1899, p. 345). Ricordo infine L. Falchi (Intendimenti sociali di C. G., Roma, 1907, pp. 82-3).

Tutti dunque schierati contro Giorgio Baffo: tanto che a Giacinta Toselli parve che per bocca di Angiola «in cui l’economia confina coll’avarizia, l’amore verso la casa si impicciolisce in norme ristrette, il Goldoni affermasse «alcune sane norme del viver civile, primo accenno alla satira che suonerà alta nella Casa nova» (Saggio d’uno studio estetico e stilistico delle comm. gold, dialettali, Venezia, 1904, p. 52); e a L. T. Belgrano, che in questo stesso personaggio l’autore «adombrasse» la virtuosa Nicoletta, la saggia compagna della sua vita («laddove questa buona massaia conclude l’azione porgendo ottimi avvertimenti alla cognata che s’è fatta sposa»: Imbreviature di Gio. Scriba, Genova, 1882, pp. 31-2. V. inoltre la recensione di G. B. P. al libro del Belgrano, in Gazzetta letteraria, VI, n. 3, Torino, 21 genn. 1882). - Solo discorda nel coro una voce femminile: «Nelle donne de casa soa scritta, dice egli [il Gold.], coll’intento di dar coraggio alle buone massaie, non poteva farne una migliore parodia. Queste donne tutte affacendate della casa..., solo immerse a risparmiare ed accumulare e a combinare matrimoni senz’amore; queste donne grette, ignoranti ed avare, non destano che disgusto e pietà» (Anita Pagliari, La donna nella vita e nella comm. di C. G., in Vita femmin. ital., Roma, aprile 1907, p. 405).

Ci manca la prefazione delle Donne de casa soa, perchè il Goldoni sul punto di partire per Roma (v. a pag. 43 1 ) non trovò parole che per annunciare ai lettori il suo prossimo viaggio e farli partecipi della sua ingenua allegrezza. Ma i versi citati sopra del capitolo ad Alvise Vendramin, ci dicono chiaro che cosa il Goldoni intendesse per donne de casa soa. Le Memorie servirono anche qui a tradire il pensiero dell’autore e a fuorviare i posteri. In altre commedie tentò il Dottor veneziano di rappresentare la moglie, la madre, la figlia secondo le proprie idee di perfezione morale, o secondo quelle dei [p. 523 modifica]suoi tempi: le Donne de casa soa non sono già uno Specchio di virtù o il Giardino della famiglia. Il Goldoni non si cura nemmeno di sapere quali dovrebbero essere, ma bensì cerca di renderle quali a lui appariscono. Il commediografo con la sua meravigliosa percezione della vita reale, accanto al quadro delle lavandaie (i Pettegolezzi delle donne) e delle massere, amò collocare quello della borghesia più bassa a Venezia, nelle Donne gelose e nelle Donne de casa soa. Egli guarda dunque nella casa d’un sanser de Rialto, d’un sensale poco fortunato, perchè «pien de scrupoli» e, come dice la moglie, un tantino «alocco»: e vede il bene e anche il male, le virtù domestiche e anche i difetti, e quello che vede ritrae fedelmente, umoristicamente.

Guardiamo noi pure, e lasciamo in pace il titolo, ch’è tuttavia pittoresco, come amava il Goldoni; e che seanche non fosse appropriato, sarà ripetuto e piacerà per molti secoli ancora, finchè risuonerà un accento del dialetto veneziano. Del resto sior’Anzola e siora Betta si mostrano fin da bel principio due ottime donne de casa soa, lontane da ogni spasso in quella Venezia del Settecento che ci vien descritta come un bordello e un carnovale perpetuo, sempre ritirate, solo occupate negli affari domestici, laboriose e frugali all’eccesso, attente a sorvegliare l’opera della servitù e, se occorre, quella dei mariti. È gente povera, ma fa piacere a entrar in casa: «A mi me sta sul cuor la cusina e quei secchi, - E i peltri, e i candelieri, che i luse co fa specchi. - Certo ghe xe per tutto una gran pulizia» (III, 1) Questo a furia di economia, con sacrifìcio e destrezza. Esse sanno come si può risparmiare sia nella tela, sia nell’olio; mettono da banda, per vivere onestamente, fino «i scorzi de vovo» i gusci delle uova; vogliono esse allevare i propri figliuoli e «tenderghe alle so putte» e si sdegnano, anche senza aver letto Rousseau, contro quelle «sporche» che per paura «de vegnir vecchie presto» non danno il latte alle loro creature, ma le abbandonano a qualche balia (così anche l’avv. G. A. Costantini in una delle Lettere critiche, intitolata La Balia, t. VII, Ven., 1731. - V. Cesare Musatti, Q. e l’allattamento moderno, nella Strenna pel 1907, Ven., Educatorio Rachitici). Se poi c’è in casa una ragazza da marito che non abbia dote, conoscono bene la via di combinare, a contraggenio o no, un bel matrimonio. - Virtù grette quanto si vuole, ma virtù del popolino; e il Baffo ha torto di chiamare sior’Anzola e siora Betta con certi nomacci da trivio, perchè comandano al marito, o perchè hanno il compare accanto, l’amico, spesso innocuo, di casa. Qualche cosa bisogna concedere a queste donne: non è già per colpa di esse che, se Venezia deve cadere, si perderà la patria e la società. Anzi dovrebbero gli stessi storici tenerne di conto più che non abbiano fatto sinora (Falchi, l. c., p. 84).

La chiacchiera di Anzola e di Betta risorge dalla commedia riempiendo l’umile abitazione di un angolo dell’antica Venezia, ed ogni frase è una pittura dell’anima dei due personaggi e un’eco suggestiva del tempo lontano (vedasi il cit. libro della Toselli, pp. 50, 85, 88). E quando al coro si unisce la vecchia Laura, un’altra massera, o Bastiana la revendigola, perdiamo anche noi la testa come Tonino: «No so dove che sia; le ha tanto chiaccolà, Le ghe n’ha dito tante, che son mezzo incantà» (III, 8). Solo la grande arte sa dare simili illusioni. E noi vediamo coi nostri occhi il buon Benetto coi ferri di calza in mano e Anzola mentre aiuta il marito a togliersi il tabarro e la velada; [p. 524 modifica]e assistiamo agli strapazzi che riceve dalla moglie sior Gasparo pampalugo, alla presenza del compare (I, 3-7).

L’episodio d’amore di Checca e Tonino è come il centro dell’azione (Falchi: «Accanto all’onesta attività della buona moglie si svolge l’innocente idillio di Checca e di Tonino. Quanta poesia, semplice e pura, e nell’amore che unisce i due giovani!» l. c.): così l’amore di Checchina e Beppo nei Pettegolezzi e, più tardi, di Lucietta e Titta-Nane nelle Baruffe chiozzotte. Ma per l’arte di queste commedie ciò poco importa. Tonino è l’innamorato timido, in balia di quei diavoli di donne, che solo la vista della sua bella rende un po’ ardito. Più risoluta Checchina, la fanciulla docile in apparenza: «Ma se no gh’ho Tonin, certo no me marido» (I, 8). Di lei, tipo leggiadro di veneziana, «grande, bella, ben fatta, bianca co e un sensamin» (IV, 4), s’innamora perfino Isidoro Caicchia, uno di quei Levantini che s’incontravano allora sulla Riva degli Schiavoni, in Piazza, a Rialto (parla un po’ come Abagiggi nei Pettegolezzi: lo ricorda Is. Del Lungo, in Florentia, 1907, p. 356), uomo severo, terribile a momenti al pari d’un capitan Spavento, odiatore delle donne peggio del cavaliere di Ripafratta; e anch’egli cede, più ancora che vinto dagli occhietti di Checchina, ai racconti stupefacenti di sior'Anzola. Poichè le donne qui sono le più forti, come spesso nel teatro goldoniano (non so perchè, vengono a mente i Rusteghi): ed è sior’Anzola, la moglie coi calzoni, ma quanto diversa da tutte le altre, che non cura e che disprezza quel piccolo mondo virile, troppo a lei minore, perchè privo di volontà, o ingenuo. Goldoni tuttavia fa bene a non darle piena vittoria, e i due amanti si sposano senza di lei.

Ecco dunque un frammento di vita umana rivissuto dalla fantasia, e reso con mirabile evidenza, per quella perfetta fusione dell’autore coi suoi personaggi, ch’è privilegio di ogni grandissimo artista. «L’arte drammatica non può fare di più ", direbbe Attilio Momigliano che scrutò con più seria critica, libero da qualsiasi preconcetto scolastico, il «mondo poetico del Goldoni» (L’Italia moderna, V. fasc. 5, 15 marzo 1907). Il Momigliano diede lode alle Massere di commedia «bella, se non perfetta», ma non ricorda le Donne de casa soa; tuttavia a chi accusasse l’umiltà dei personaggi goldoniani, possiamo ripetere le sue parole: «Bisognerebbe che quelli che giudicano il Goldoni superficiale... pensassero che artista grande è chi dà vita ad un oggetto, qualunque esso sia... Il G. ha colto l’anima di cose che sembrerebbero non averla, e, quel che è più, ha saputo, dando loro la vita, non guastarle» (l. c. 473 e 474). Vero è che anche il Momigliano in altra parte afferma: «Quella del G. è arte buona tessuta attorno ad argomenti superficiali» (p. 473), facendo eco in certo modo al De Sanctis (Storia della letteratura italiana), il quale io sono tratto a pensare che forse non potè conoscere appieno i capolavori dell’autore veneziano; ma quando vita e arte s’incontrano in una creazione, cioè quando un argomento concedesi alla elaborazione di un artista, nulla vi è più di superficiale. Davanti all’arte e all’umanità hanno importanza così Orlando e Amleto, come sior’Anzola e il sarto del villaggio; chi vuole il mondo eroico, chi il mondo in apparenza più umile della commedia. E Goldoni è scrittore comico, secondo le idee del tempo, nient’altro che scrittore comico, ma di quel suo mondo comico, si originale e si diverso da Aristofane o da Molière, è il signore sovrano. [p. 525 modifica]

Resterebbe da vedere quali elementi tradizionali del teatro assuma e trasformi l’autore nelle Donne de casa soa, ma basterà un cenno. Che il Dottor veneziano avesse letto la Moglie in calzoni del Nelli, recitata fin dal 1727 e stampata dal ’31, si potrebbe quasi giurare, ma che importa, se il Nelli stesso risali a sua volta sino a Molière (A. Moretti, J. A. Nelli, in Rassegna Naz., XII, vol. 51, 1 febbr. 1890, p. 421; E. Maddalena, La Serva amorosa del G., estr. dalla Rivista Dalmat., I, fasc. 5, genn. 1900; P. Toldo, L’oeuvre de Molière etc, Turin, 1910, p. 335), e se sior’Anzola e sior Gasparo non somigliano a Ciprigna e Bonario più che a Filaminta e Crisaldo? Solo accanto al commediografo senese ricorderemo anche il Fagiuoli (Il Marito alla moda) e Gorini Corio (il Frippon francese colla dama alla moda), per mostrare come certe floscie figure di uomini a noi note, in grazia del teatro goldoniano, a Venezia, nel bel mezzo del settecento, appartenessero già da molti decenni alla commedia letteraria (G. Ortolani, Settecento, Ven., 1905..., pp. 365-6 e passim) e, bisogna aggiungere, al teatro musicale italiano. Meglio additeremo agli storici un altro ritratto nella galleria infinita dei cavalieri serventi, sior Benetto, colto nel seno della minor borghesia: il quale però confondesi coi buoni compari di tutti i tempi. Ma basti ormai di questa commedia, che, ove si indulgesse a qualche scena prolissa, potrebbe forse più dei Pettegolezzi e delle Massere piacer anche oggi sulle scene: certo ne è men difficile la rappresentazione.

La famiglia dei Correr, o Corraro, dicesi migrata da Torcello a Rialto fin dal sec. IX, e appartiene alla più antica nobiltà veneziana (v., fra gli altri, Tassini, Curiosità veneziane). Nel sec. XV potè vantare un vescovo, due cardinali (l’uno è l’umanista Gregorio, m. nel 1464) e un papa, Gregorio XII (v., per es., il Nuovo Dizion. Istor., Bassano, t. IV, 1796). Un altro Correr, Antonio Francesco, diventò patriarca di Venezia nel 1734. Dal ramo che abitava a S. Zuan Degolà (S. Gio. Decollato) nacque nel 1750 quel Teodoro che lasciò alla patria, morendo nel 1830, il suo mirabile Museo. — Il senatore e cavaliere Pietro, a cui sono dedicate le Donne de c. s., nacque nella contrada di S. Fosca ai 18 giugno 1707 (da Giovanni e da Elena Landò), sposò nel ’33 la N. D. Mana Querini, fu ambasciatore a Vienna fino al 57, poi a Roma fino al ’61, quindi bailo a Costantinopoli; e morì ai 4 sett. del 1768 (vedasi la Storia ms. ed alberi della Famiglia Correr, cod. Correr 1465: gentile comunicazione del dr. Picciotti Bratti). Il Goldoni gli indirizzò ancora un capitolo nel 1761, per la professione in S. Lorenzo della figlia Maria (v. pure Componimenti diversi, t. I).


Le Donne de casa soa furono impresse la prima volta a Venezia nel t. V dell’ed. Pitteri, che uscì nel nov. del 1758. e poi a Bologna (Corciolani, 1758), a Torino (Guibert e Orgeas VIII, 76), di nuovo a Venezia (Savioli IV, 73; Zatta cl. 3.a, IX, ’93). a Lucca (Bonsignori XXVI, "91), a Livorno (Masi XXX, ’93) e forse altrove nel Settecento. Non si trovano nell’ed. Pasquali. - La presente ristampa seguì con più fedeltà il testo dell’ed. Pitteri, curato dall’autore. Valgano, per la grafia e per il resto, le precedenti avvertenze (vol. II, p. 406). Le note a piè di pagina segnate con lettera alfabetica appartengono al commediografo, quelle con cifra al compilatore di questa edizione.


Fine del dodicesimo volume.