Le odi di Orazio/Libro primo/III

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Libro primo
III

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Quinto Orazio Flacco - Odi (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Mario Rapisardi (1883)
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III.


    Te la possente Cipride,
Te gli astri lucidi fratelli d’Elena
    Reggano e il padre agli euri,
4Tutti legandoli, salvo che Jàpige,

    O nave, che Virgilio
A te credutosi ci devi: incolume
    Deh tu lo rendi agli attici
8Lidi, e dell’anima la metà serbami!

    In querce, in bronzo triplice
Chiusa avea l’anima chi primo il fragile
    Legno fidò al mar perfido,
12Nè tremò l’africo vento precipite,

    Che contro borea infuria,
Nè le tristi Jädi, né Noto rabido,
    Ond’Adria il maggior arbitro
16Non ha che inturgidi l’onde o le mitighi.

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    Qual mai di morte specie
Temè chi, placido l’occhio, gli ondívaghi
    Mostri mirò e il mar torbido
20E li scogli orridi d’Acroceraunia?

    Invan chiuse d’inospiti
Mari un dio provvido le terre varie,
    Se l’empie navi ardiscono
24Gl’inaccessibili guadi trascorrere.

    A tentar tutto impavida
L’umana specie corre a l’illecito:
    Il Giapetide impavido
28Con mala fraude diè il foco agli uomini;

    Ma, il foco al dòmo etereo
Sottratto, e macie e schiera insolita
    Di febbri in terra scesero,
32Che il necessario, pria tardo, incedere

    Della morte affrettarono.
Provò già Dedalo l’aere vacuo
    Con vol negato agli uomini;
36Sforzò l’erculea fatica l’Erebo.

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    Nulla a’ mortali è arduo:
Anche al ciel sorgere tentiamo stolidi,
    E non soffriam che all’empie
40Nostr’opre in collera Giove ci fulmini.