Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550)/Perino del Vaga

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Sebastiano Veniziano Michelangelo Bonarroti Fiorentino

PERINO DEL VAGA

Pittore Fiorentino

Grandissimo è certo il dono della virtú, la quale, non guardando a grandezza di roba né a dominio di stati o nobiltà di sangue, il piú delle volte cigne et abbraccia e sollieva da terra uno spirito povero, assai piú che non fa un bene agiato di ricchezze. E questo lo fa il cielo perché e’ vol mostrarci quanto possa in noi lo influsso delle stelle e de’ segni suoi, compartendo a chi piú et a chi meno de le grazie sue. Le quali sono il piú delle volte cagione che nelle complessioni di noi medesimi nascere ci fanno piú furiosi o lenti, piú deboli o forti, piú salvatichi o domestici, fortunati o sfortunati e di minore e di maggior virtú.

E chi di questo dubitasse punto, lo sgannerà al presente la vita di Perino del Vaga, eccellentissimo pittore e molto ingegnoso. Il quale, nato di padre povero e rimasto piccol fanciullo abbandonato da’ suoi parenti, fu dalla virtú sola guidato e governato. La quale egli, come sua legittima madre, conobbe sempre e quella onorò del continuo.

E l’osservazione della arte della pittura fu talmente seguita da lui con ogni studio, che fu cagione di fare nel tempo suo quegli ornamenti tanto egregii e lodati, che hanno dato nome a Genova et al Principe Doria. Laonde si può senza dubbio credere che il cielo solo sia quello che conduca gli uomini da quella infima bassezza dov’e’ nascono, a ’l sommo della grandezza dove eglino ascendono, quando, con l’opere loro affaticandosi, mostrano essere seguitatori delle scienzie che e’ pigliano a imparare; come pigliò e seguitò per sua Perino l’arte de ’l disegno, nella quale mostrò eccellentissimamente e con grazia la perfezzione nelle figure sue. E non solo nelli stucchi paragonò gli antichi, ma tutti gli artefici moderni in quel che abbraccia tutto il genere della pittura, con tutta quella bontà che può desiderarsi da ingegno umano che voglia far conoscere, nelle difficultà di questa arte, la bellezza, la bontà e la vaghezza e leggiadria ne’ colori e negli altri ornamenti. Ma vegnamo piú particularmente a l’origine sua. Fu nella città di Fiorenza un Giovanni Buonaccorsi che, nelle guerre di Carlo VIII Re di Francia, come giovane et animoso e liberale, in servitú con quel principe spese tutte le facultà sue nel soldo e nel giuoco, et in ultimo ci lasciò la vita. A costui nacque un figliuolo, il cui nome fu Piero che, rimasto piccolo di due mesi per la madre morta di peste, fu con grandissima miseria allattato da una capra in una villa, fino che il padre, andato a Bologna, riprese una seconda donna, alla quale erano morti di peste i figliuoli et il marito.

Costei, con il latte appestato, finí di nutrire Piero, chiamato Perino per vezzi, come ordinariamente per li piú si costuma chiamare i fanciulli, il qual nome se li mantenne poi tuttavia.

Fu condotto da ’l padre in Fiorenza e, nel suo ritornarsene in Francia, lasciato ad alcuni suoi parenti, i quali, o per non avere il modo o per non voler quella briga di tenerlo e farli insegnare qualche mestiero ingegnoso, lo acconciarono allo speziale del Pinadoro, acciò che egli imparasse quel mestiero. Ma non piacendoli quella arte, fu preso per fattorino da Andrea de’ Ceri pittore, piacendogli e l’aria et i modi di Perino e parendoli vedere in esso un non so che d’ingegno e di vivacità da sperare che qualche buon frutto dovesse col tempo uscir di lui. Era Andrea non molto buon pittore, anzi ordinario, di questi che stanno a bottega aperta publicamente a lavorare ogni cosa meccanica.

Era costui consueto dipignere ogni anno per la festa di San Giovanni certi ceri che andavano ad offerirsi, insieme con gli altri tributi della città, e per questo si chiamava Andrea de’ Ceri, da ’l cognome del quale fu poi detto un pezzo Perino de’ Ceri. Custodí Andrea Perino qualche anno, et insegnatili i principii dell’arte il meglio ch’e’ sapeva, fu forzato nel tempo dell’età sua di XI anni acconciarlo con miglior maestro di lui. Aveva Andrea stretta dimestichezza con Ridolfo figliuolo di Domenico Ghirlandaio, che era tenuto nella pittura persona molto pratica e valente, come si vede di suo in Fiorenza molte opere in assai luoghi e publici e privati. Con costui acconciò Andrea de’ Ceri Perino, acciò che egli attendesse al disegno e cercasse di fare acquisto in quell’arte come mostrava l’ingegno, che egli aveva certo grandissimo, con quella voglia et amore che piú poteva. E cosí seguitando, fra molti giovani che egli aveva in bottega che attendevano all’arte, in poco tempo venne a passargli innanzi con lo studio e con la sollecitudine.

Eravi fra gli altri uno, il quale gli fu uno sprone che continuo lo pugneva, il quale fu nominato Toto del Nunziata, il quale, ancor egli aggiugnendo col tempo a paragone con i begli ingegni, partí di Fiorenza e, con alcuni mercanti fiorentini condottosi in Inghilterra, quivi ha fatto tutte l’opere sue, e da ’l re di quella provincia è stato riconosciuto grandissimamente.

Costui adunque e Perino, esercitandosi a gara l’uno de l’altro, e seguitando nella arte con sommo studio, non ci andò molto tempo che e’ vennero eccellenti.

E Perino, disegnando in compagnia di altri giovani, e Fiorentini e forestieri al cartone di Michelagnolo Buonarroti, vinse e tenne il primo grado fra tutti quegli, di maniera che si stava in quella aspettazione di lui, che successe di poi nelle belle opere sue, condotte con tanta arte et eccellenzia. Venne in quel tempo in Fiorenza il Vaga pittor fiorentino, il quale lavorava in Toscanella in quel di Roma cose grosse, per non essere egli maestro eccellente, e soprabondatogli lavoro, aveva di bisogno di aiuti, e desiderava menar seco un compagno et un giovanetto che gli servissi al disegno, che non aveva, et all’altre cose dell’arte ne gli aiuti di quella. Avvenne che costui vide Perino disegnare in bottega di Ridolfo insieme con gli altri giovani, e tanto superiore a quegli che ne stupí. Ma molto piú gli piacque lo aspetto et i modi suoi, atteso che Perino era un bellissimo giovanetto, cortesissimo, modesto e gentile, et aveva tutte le parti del corpo corrispondenti alla virtú dello animo. Invaghito dunque il Vaga di questo giovane, lo domandò se egli volesse andar seco a Roma, che non mancherebbe aiutarlo negli studii e fargli que’ benefizii e patti che egli stesso volesse. Era tanta la voglia che aveva Perino di venire a qualche grado eccellente della professione sua che, quando sentí ricordar Roma, per la voglia che egli ne aveva, tutto si rintenerí e li disse che egli parlasse con Andrea de’ Ceri, che non voleva abbandonarlo, avendolo aiutato perfino allora. Cosí il Vaga, persuaso Ridolfo suo maestro et Andrea che lo teneva, tanto fece che alla fine condusse Perino et il compagno in Toscanella. Quivi cominciarono a lavorare, et aiutando loro Perino, non finirono solamente quell’opera che il Vaga aveva presa, ma molte ancora che e’ pigliarono di poi. Ma dolendosi Perino che le promesse del condursi a Roma erano mandate in lunga per colpa dell’utile e comodità che ne traeva il Vaga, e risolvendosi andarci da per sé, fu cagione che il Vaga, lasciato tutte l’opere, lo condusse a Roma. Dove egli, per l’amore che portava all’arte, ritornò al solito suo disegno, e continovando molte settimane, piú ogni giorno di continuo si accendeva. Volse il Vaga far ritorno a Toscanella, e per questo, fatto conoscere a molti pittori ordinarii Perino per cosa sua, lo raccomandò a tutti quegli amici che ci aveva, acciò lo aiutassino e favorissino nella assenzia sua. E da questa origine, da indi innanzi, si chiamò sempre Perin del Vaga.

Rimasto cosí in Roma, e veduto le opere antiche nelle sculture e le mirabilissime machine de gli edifizii gran parte rimasti nelle rovine, stava in sé ammiratissimo del valore di tanti chiari et illustri che avevano fatte quelle opere. E cosí, accendendosi tuttavia piú in maggior desiderio della arte, ardeva continuamente di pervenire in qualche grado vicino a quelli, sí che con le opere desse nome a sé et utile, como lo avevano dato coloro di chi egli si stupiva vedendo le bellissime opere loro. E mentre che egli considerava alla grandezza loro et alla infinita bassezza e povertà sua, e che altro che la voglia non aveva di volere aggiugnerli e, senza chi lo intrattenesse, che e’ potesse campar la vita, gli conveniva, volendo vivere, lavorare a opere per quelle botteghe oggi con uno dipintore e domane con un altro, nella maniera che fanno i zappatori a giornate. E quanto fusse disconveniente allo studio suo questa maniera di vita, egli medesimo per il dolore se ne dava passione non possendo far que’ frutti, e cosí presto, che l’animo e la volontà et il bisogno suo gli promettevano. Fece adunque proponimento di dividere il tempo, la metà della settimana lavorando a giornate et il restante attendendo al disegno. Aggiugnendo a questo ultimo tutti i giorni festivi, insieme con una gran parte delle notti, e rubando al tempo il tempo, per divenire famoso e fuggir da le mani di altrui piú che gli fusse possibile.

Messo in esecuzione questo pensiero, cominciò a disegnare nella cappella di Papa Iulio, dove la volta di Michelagnolo Buonarroti era dipinta da lui, seguitando gli andari e la maniera di Raffaello da Urbino. E cosí continuando a le cose antiche di marmo, e sotto terra a le grotte per la novità delle grottesche, imparò i modi del lavorar di stucco e, mendicando il pane con ogni stento, sopportò ogni miseria per venir eccellente in questa professione. Né vi corse molto tempo che egli divenne, fra quegli che disegnavano in Roma, il piú bello e miglior disegnatore che ci fusse, atteso che meglio intendeva i muscoli e le difficultà dell’arte ne gli ignudi che forse molti altri, tenuti maestri allora de i migliori. La qual cosa fu cagione che, non solo fra gli uomini della professione, ma ancora fra molti signori e prelati, e’ fosse conosciuto, e massime che Giulio Romano e Giovan Francesco detto il Fattore, discepoli di Raffaello da Urbino, lodatolo al maestro pur assai, fecero ch’e’ lo volse conoscere e vedere l’opre sue ne’ disegni. I quali piaciutili, insieme col fare e la maniera e lo spirito et i modi della vita, giudicò lui, fra tanti quanti ne avea conosciuti, dover venire in gran perfezzione in quell’arte.

Erano già state fabbricate da Raffaello da Urbino le logge papali che Leon X gli aveva ordinate, le quali finite di muraglia, ordinò che Raffaello le facesse lavorare di stucco e dipignere e metter d’oro come meglio a•llui pareva.

E cosí Raffaello fece capo di quell’opera, per gli stucchi e per le grottesche, Giovanni da Udine rarissimo et unico in quegli, ma piú negli animali e frutti et altre cose minute; et ancora che egli avesse scelto per Roma e fatto venir di fuori molti maestri, aveva raccolto una compagnia di persone valenti in piú generi, et ognuno nel suo lavorare, chi stucchi, chi grottesche, altri fogliami, altri festoni e chi storie, et altri metteva d’oro; e cosí, secondo che eglino miglioravano, erano tirati innanzi e fattogli maggior salarii.

Laonde, gareggiando in quell’opera, si condussono a perfezzione molti giovani, che furon poi tenuti molto eccellenti nelle opere loro. In questa compagnia fu consegnato Perino a Giovanni da Udine da Raffaello, per dovere con gli altri lavorare a grottesche e storie, e, secondo che egli si porterebbe, fusse da Giovanni adoperato. Avvenne che, lavorando Perino per la concorrenzia e per far prova et acquisto di sé, non vi andò molti mesi che egli fu, fra tutti coloro che ci lavoravano, tenuto il primo e di disegno e di colorito, anzi il migliore et il piú vago e pulito, e che con piú leggiadra e bella maniera conducesse cosí grottesche e figure, come ne rendono testimonio e chiara fede le grottesche et i festoni e le storie di sua mano che, oltra lo avanzar le altre, son dai disegni e schizzi, che faceva lor Raffaello, le sue molto meglio et osservate molto, come chi considererà in una parte di quelle storie nel mezzo della detta loggia nelle volte, dove sono figurati gli Ebrei quando passano il Giordano con l’arca santa e quando, girando le mura di Gerico, quelle rovinano, e le altre che seguono dopo, come quando, combattendo Iosuè con quegli Amorrei, fa fermare il sole, e molte altre che non fa mestiero per la moltitudine loro nominarle, che si conoscono infra le altre.

Fecene ancora nel principio dove si entra nella loggia, del Testamento nuovo, che sono bellissime, senza che sotto le finestre sono le migliori storie colorite di color di bronzo che siano in tutta quell’opera.

Le quali cose fan stupire ognuno, e per le pitture e per molti stucchi che egli vi lavorò di sua mano. Oltra che il colorito suo è molto piú vago e meglio finito che tutti gli altri.

La quale opera fu cagione che egli salí in tanta fama per le lode, che non si diceva infra gli artefici altro che de le rarissime parti che egli aveva da la natura. Ma queste lode furon cagione non di addormentarlo, perché la virtú lodata cresce, anzi di maggiore studio nella arte, pigliando molto piú vigore, quasi certissimo seguitandola di dovere corre que’ frutti e quegli onori, ch’egli vedeva tutto il giorno in Raffaello da Urbino et in Michelagnolo Buonarroti. E tanto piú lo faceva volentieri, quanto da Giovanni da Udine e da Raffaello vedeva esser tenuto conto di lui et essere adoperato in cose importanti. Usò sempre una sommessione et una obedienzia certo grandissima verso Raffaello, osservandolo di maniera, che da esso Raffaello era amato come proprio figliuolo.

Fecesi in questo tempo, per ordine di Papa Leone, la volta della sala de’ Pontefici, che è quella che s’entra in sulle logge a le stanze di papa Alexandro VI dipinte già dal Pinturicchio, la qual volta fu dipinta da Giovan da Udine e da Perino.

Et in compagnia feciono e gli stucchi e tutti quegli ornamenti e grottesche et animali che ci si veggono, oltra le belle e varie invenzioni che da essi furono fatte nello spartimento, avendo diviso quella in certi tondi et ovati per sette pianeti del cielo, tirati da i loro animali, come Giove dall’aquile, Venere dalle colombe, la Luna dalle femmine, Marte da i lupi, Mercurio da i galli, il Sole da i cavalli e Saturno da i serpenti, oltra i dodici segni del Zodiaco et alcune figure delle settantadue imagini del cielo, come l’Orsa maggiore, la Canicola e molte altre che, per la lunghezza loro, le taceremo senza raccontarle per ordine, potendosi tal opera vedere, che tutte queste figure, furono gran parte di sua mano. Oltra che nel mezzo della volta è un tondo con quattro figure finte per vittorie, che tengono il Regno del papa e le chiavi, scortando al di sotto in su, lavorate con una maestrevole arte e molto bene intese. Oltra la leggiadria che egli usò ne gli abiti loro, velando lo ignudo con alcuni pannicini sottili che parte scuoprono le gambe ignude e le braccia, certo con una graziosissima bellezza.

La quale opera fu veramente tenuta, et oggi ancora si tiene, per cosa molto onorata e ricca di lavoro, e cosa allegra e vaga, degna veramente di quel pontifice, il quale non mancò riconoscere le lor fatiche, degne certo di grandissima remunerazione.

Fece Perino una facciata di chiaro oscuro, allora messasi in uso per ordine di Pulidoro e Maturino, la quale facciata è dirimpetto alla casa della Marchesa di Massa, vicino a Maestro Pasquino, condotta molto gagliardamente di disegno e di forza, che gli diede molto onore. Avvenne che l’anno MDXV, il terzo anno del suo pontificato, Papa Leone venne a Fiorenza, e, perché in quella città si feciono molti trionfi, Perino, parte per vedere la pompa di quella città e parte per rivedere la patria, venne inanzi alla corte; e fece in uno arco trionfale a Santa Trinita, una figura grande di sette braccia bellissima, che un’altra in sua concorrenzia fece Toto del Nunziata, già nella età puerile suo concorrente. Parveli nondimeno ognora mille anni ritornarsene a Roma, giudicando molto differente la maniera et i modi degli artefici da quegli che in Roma si usavano. E ripreso l’ordine del solito suo lavorare, fece in Santo Eustachio da la Dogana un San Piero in fresco, il quale è una figura che ha un rilievo grandissimo, fatto con semplice andare di pieghe, ma molto con disegno e giudizio lavorato.

Era in questo tempo l’Arcivescovo di Cipri in Roma, persona molto amatore delle virtú, ma particularmente della pittura et, avendo egli una casa vicino alla Chiavica, nella quale aveva acconcio un giardinetto con alcune statue et altre anticaglie certo onoratissime e belle, e desiderando acompagnarle con qualche ornamento onorato, fece chiamare Perino, che era suo amicissimo, et insieme consultarono che e’ dovesse fare intorno alle mura di quel giardino molte storie di baccanti, di satiri e di fauni e di cose selvagge, alludendo ad una statua d’un Bacco, che egli ci aveva antico, che sedeva vicino a una tigre. E cosí adornò quel luogo di diverse poesie, oltra che li fece fare una loggetta di figure piccole, e varie grottesche e molti quadri di paesi, fatti da Perino e coloriti con una grazia e diligenzia grandissima.

La quale opera è stata tenuta di continuo da gli artefici cosa molto lodevole; e fu cagione farlo conoscere a’ Fucheri mercanti todeschi, i quali, avendo visto l’opera di Perino e piaciutali, perché avevano murato vicino a’ Banchi una casa, che è quando si va a la chiesa de’ Fiorentini, vi fecero fare da lui un cortile et una loggia e molte figure, degne di quelle lode che son le altre cose di sua mano, nelle quali si vede una bellissima maniera et una grazia molto leggiadra.

Aveva in questo tempo Messer Marchionne Baldassini fatto murare una casa molto bene intesa da Antonio da San Gallo, vicino a Santo Agostino, e desiderando che una sala che egli vi aveva fatta fusse dipinta tutta, esaminato molto di que’ giovani acciò che ella fusse e bella e ben fatta, risolvé dopo molti darla a Perino, con il quale, convenutosi de ’l prezzo, vi messe egli mano; né da quello levò per altri l’animo, che egli felicissimamente la condusse a fresco.

Nella quale è uno spartimento a’ pilastri, che mettono in mezzo nicchie grandi e nicchie piccole.

Nelle grandi son varie sorte di filosofi, due per nicchia, et in qualcuna un solo, e nelle minori son putti ignudi e parte vestiti di velo, con certe teste di femmine finte di marmo sopra alle nicchie piccole.

E sopra la cornice che fa fine a’ pilastri, seguiva un altro ordine, partito sopra il primo ordine, con istorie di figure non molto grandi de’ fatti de’ Romani, cominciando da Romulo perfino a Numa Pompilio.

Sonvi varii ornamenti contraffatti di varie pietre di marmi, senza che v’è sopra il cammino di pietre bellissimo una Pace la quale abbrucia armi e trofei, che è molto viva. Della quale opera fu tenuto conto, mentre visse Messer Marchionne, e di poi da tutti quelli che operano in pittura, oltra quelli che non sono della professione, che la lodano straordinariamente.

Fece nel monasterio delle monache di Santa Anna una cappella in fresco con molte figure, lavorata da lui con la solita diligenzia. Et in Santo Stefano del Cacco, ad uno altare, dipinse in fresco per una gentildonna romana una Pietà con un Cristo morto in grembo alla Nostra Donna, e ritrasse di naturale quella gentildonna che par ancor viva. La quale opera è condotta con una destrezza molto facile e molto bella.

Aveva in questo tempo Antonio da San Gallo fatto in Roma, in su una cantonata di una casa, che si dice l’immagine di Ponte, un tabernacolo molto ornato di trevertino e molto onorevole, per farvi far dentro di pitture qualcosa di bello; e cosí ebbe commissione dal padrone di quella casa che lo dessi a fare a chi li pareva che fusse atto a farvi qualche onorata pittura.

Antonio, che conosceva Perino di que’ giovani che ci erano per il migliore, a•llui lo allogò. Et egli, messovi mano, vi fece dentro Cristo quando incorona la Nostra Donna, e nel campo fece uno splendore con un coro di Serafini et angeli che hanno certi panni sottili che spargono fiori, et altri putti molto belli e varii, e cosí nelle due facce del tabernacolo fece nell’una San Bastiano e nell’altra Santo Antonio, opera certo ben fatta e simile alle altre sue, che sempre furono e vaghe e graziose. Aveva finito nella Minerva, un protonotario, una cappella di marmo in su quattro colonne; e come quello che desiderava lassarvi una memoria d’una tavola, ancora che non fusse molto grande, sentendo la fama di Perino, convenne seco e gniene fece lavorare a olio. Et in quella volse a sua elezzione un Cristo sceso di croce; il quale Perino, con ogni studio e fatica, si messe a condurre.

Dove egli lo figurò esser già in terra deposto, et insieme le Marie intorno che lo piangono, fingendo un dolore e compassionevole affetto nelle attitudini e gesti loro.

Oltra che vi sono que’ Niccodemi, e le altre figure ammiratissime, meste et afflitte nel vedere l’innocenzia di Cristo morto. Ma quel che egli fece divinissimamente furono i duo ladroni, rimasti confitti in sulla croce, che sono oltra al parer morti e veri, molto ben ricerchi di muscoli e di nervi, avendo egli occasione di farlo, rappresentandosi a gli occhi di chi li vede, le membra loro in quella morte violenta tirate da i nervi et i muscoli da’ chiovi e dalle corde.

Oltra che vi è un paese nelle tenebre, contrafatto con molta discrezione e molta arte. E se questa opera non avesse la inondazione del diluvio che venne a Roma l’anno MD*** fatto dispiacere coprendola piú di mezza, che l’acqua rintenerí di maniera il gesso e fece gonfiare il legname di sorte, che tanto quanto se ne bagnò dappiè si è scortecciato di maniera che se ne gode poco, anzi fa compassione il guardalla e grandissimo dispiacere, che ella sarebbe certo de le pregiate cose che avesse Roma.

Facevasi in questo tempo per ordine di Iacopo Sansovino rifar la chiesa di San Marcello di Roma, convento de’ frati de’ Servi, fabbrica oggi rimasta imperfetta. E cosí avendo eglino tirate a fine di muraglia alcune cappelle e coperte di sopra, ordinaron que’ frati che Perino facesse in una di quelle per ornamento d’una Nostra Donna, devozione in quella chiesa, due figure in due nicchie che la mettessino in mezzo: l’una fu San Giuseppo e l’altra San Filippo, frate de’ Servi et autore di quella religione.

E sopra quelli fece alcuni putti condotti da lui perfettissimamente, dove ne messe in mezzo della facciata uno ritto in sun un dado, che tiene sulle spalle il fine di due festoni che esso manda verso le cantonate della cappella, dove sono due altri putti che gli reggono a sedere in su quelli, faccendo con le gambe attitudini bellissime.

E questo lavorò con tanta arte, con tanta grazia, con tanta bella maniera, dandoli nel colorito una tinta di carne e fresca e morbida, che si può dire che sia carne vera, piú che dipinta.

E certo si posson tenere per i piú begli che in fresco facesse mai artefice nessuno; la cagione è che nel guardo vivono, nell’attitudine si muovono, e ti fan segno con la bocca voler isnodare la parola, e che l’arte vince la natura, anzi che ella confessa non poter fare in quella piú di questo. Fu questo lavoro di tanta bontà nel cospetto di chi intendeva l’arte, che ne acquistò gran nome, ancora che egli avessi fatto molte opere e si sapesse certo quello che egli si sapeva de ’l grande ingegno suo in quel mestiero; e se ne tenne molto piú conto e maggiore stima, che prima non si era fatto. E per questa cagione Lorenzo Pucci Cardinale Santi IIII, avendo preso alla Trinità, convento de’ frati Calavresi e Franciosi che veston l’abito di San Francesco di Paula, una cappella a man manca allato allato alla cappella maggiore, la allogò a Perino, acciò che in fresco vi dipignesse la vita della Nostra Donna.

La quale cominciata da• llui, ha finito tutta la volta et una facciata sotto uno arco; e cosí fuor di quella, sopra uno arco della cappella, fece due profeti grandi di quatro braccia e mezzo, figurando Isaia e Daniel, i quali nella grandezza loro mostrano quella arte e bontà di disegno e vaghezza di colore, che può perfettamente mostrare una pittura fatta da artefice grande. Come apertamente vedrà chi considererà lo Esaia che, mentre legge, si conosce la maninconia che rende in sé lo studio et il desiderio nella novità del leggere, perché affisato lo sguardo a un libro, con una mano alla testa mostra come l’uomo sta qualche volta quando egli studia. Similmente il Daniel immoto alza la testa a le contemplazioni celesti, per isnodare i dubbi a’ suoi popoli.

Sono nel mezzo di questi, due putti che tengono l’arme de ’l cardinale, con bella foggia di scudo, i quali, oltra lo esser dipinti che paion di carne, mostrano ancora esser di rilievo.

Sono sotto spartite nella volta quattro storie, dividendole la crociera, ciò è gli spigoli delle volte. Nella prima è la Concezzione di essa Nostra Donna, la seconda è la Natività sua; nella terza è quando ella saglie i gradi del tempio, e la quarta è quando San Giuseppo la sposa. In una faccia, quanto tiene l’arco della volta, è la sua Visitazione, nella quale sono molte belle figure, e massime alcune che son salite in su certi basamenti, che per veder meglio la cerimonia di quelle donne, stanno con una prontezza molto naturale. Oltra che i casamenti e l’altre figure hanno del buono e del bello in ogni loro atto.

Non seguitò piú giú, venendoli male; e guarito, cominciò, l’anno MDXXIII, la peste, la quale fu d’una sorte in Roma, che se egli volse campar la vita, gli convenne far proposito partirsi di Roma.

Era in questo tempo in detta città il Piloto orefice, amicissimo e molto familiare di Perino, il quale aveva volontà partirsi; e cosí desinando una mattina insieme, persuase Perino ad allontanarsi e venire a Fiorenza, atteso che egli era molti anni che egli non ci era stato, e che non sarebbe se non grandissimo onor suo farsi conoscere e lasciare in quella qualche segno della eccellenzia sua. Et ancora che Andrea de’ Ceri e la moglie che lo avevano allevato fussin morti, nondimeno egli, come nato in quel paese, ancor che non ci avesse niente, ci aveva amore.

La qual persuasione non durò molto, che egli et il Piloto una mattina partirono, et inverso Fiorenza ne vennero. Et arrivati in quella, ebbe grandissimo piacere riveder le cose vecchie dipinte da’ maestri passati che già gli furono studio nella sua età puerile, e cosí ancora quelle di que’ maestri che vivevano allora de’ piú celebrati e tenuti migliori in quella città. Quivi fu operato da’ suoi amici che egli avesse una opera in fresco, de la quale diremo di sotto.

Avvenne che, trovandosi un giorno seco per fargli onore molti artefici, pittori, scultori, architetti, orefici et intagliatori di marmi e di legnami, che secondo il costume antico si erano ragunati insieme, chi per vedere et accompagnare Perino et udire quello che e’ diceva, e molti per veder che differenza fusse fra gli artefici di Roma e quegli di Fiorenza nella pratica, et i piú v’erano per udire i biasimi e le lode che sogliono spesso dire gli artefici l’un de l’altro, e cosí ragionando insieme d’una cosa in altra, pervennero, guardando l’opere e vecchie e moderne per le chiese, in quella del Carmine per veder la cappella di Masaccio. Dove guardando ognuno fisamente e moltiplicando in varii ragionamenti in lode di quel maestro, e che egli avesse avuto tanto di giudizio che egli in quel tempo, non vedendo altro che l’opere di Giotto, avesse lavorato con una maniera sí moderna nel disegno, nella invenzione e nel colorito, che egli avesse avuto forza di mostrare, nella facilità di quella maniera, la difficultà di questa arte. Oltra che nel rilievo e nella resoluzione e nella pratica non ci era stato nessuno di quegli che avevano operato, che ancora lo avesse raggiunto. Piacque assai questo ragionamento a Perino, e rispose a tutti quegli artefici che ciò dicevano, queste parole: "Io non niego quel che voi dite che non sia, e molto piú ancora, ma che questa maniera non ci sia chi la paragoni negherò io sempre; anzi dirò, se si può dire, con soportazione di molti, non per dispregio, ma per il vero, che molti conosco e piú risoluti e piú graziati; le cose de’ quali non sono manco vive in pittura di queste, anzi molto piú belle.

E mi duole in servigio vostro, io che non sono il primo dell’arte, che non ci sia luogo qui vicino che si potesse farvi una figura; che innanzi che io mi partisse di Fiorenza, farei una prova, allato a una di queste in fresco medesimamente, acciò che voi co ’l paragone vedeste se ci è nessuno ne’ moderni che l’abbia paragonato".

Era fra costoro un maestro tenuto il primo in Fiorenza nella pittura, e come curioso di veder l’opere di Perino, e per abbassarli lo ardire, messe innanzi un suo pensiero, che fu questo: "Se bene egli è pieno - diss’egli - costí ogni cosa, avendo voi cotesta fantasia, che è certo buona e da lodare, egli è qua al dirimpetto dove è il San Paulo di sua mano, non men buona e bella figura che si sia ciascuna di queste della cappella, dove agevolmente potrete mostrarci quello che voi dite, faccendo un altro apostolo allato, o volete a quel San Piero di Masolino o allato al San Paulo di Masaccio". Era il San Piero piú vicino alla finestra et eraci migliore spazio e miglior lume, et oltre a questo non era manco bella figura che il San Paulo. Adunque ognuno confortavan Perino a fare, et a lui il pregava che avevan caro veder questa maniera di Roma, oltra che molti dicevano che egli sarebbe cagione di levar loro de ’l capo questa fantasia, tenuta nel cervello tante decine d’anni, e che s’ella fusse meglio, tutti correrano a le cose moderne. Per il che, persuaso Perino da quel maestro, che gli disse in ultimo ch’e’ non doveva mancarne, per la persuasione e piacere di tanti begli ingegni, oltra che elle erano due settimane di tempo quelle che a fresco conducevano una figura, e che loro non mancherebbono spender gli anni in lodare le sue fatiche.

E benché costui dicesse cosí, era di animo contrario, persuadendosi che egli non dovesse far però cosa molto meglio che facevano allora quegli artefici, che tenevano il grado de’ piú eccellenti.

Accettò Perino di far questa prova, e chiamato di concordia Messer Giovanni da Pisa priore del convento, gli dimandarono licenzia de ’l luogo per fare tale opera, che invero di grazia e cortesemente lo concesse loro; e cosí, preso una misura del vano, con le altezze e larghezze, si partirono. Fu fatto da Perino un cartone di uno apostolo in persona di Santo Andrea e finito diligentissimamente. Et era Perino già resoluto voler dipignerlo, e fattoci far l’armadura per cominciarlo.

Ma inanzi a questo nella venuta sua molti amici suoi, che avevano visto in Roma eccellentissime opere sue, gli avevano allogato quella opera a fresco, ch’io dissi, avendo proccurato che egli come gli altri lasciasse di sé in Fiorenza qualche memoria di sua mano che avesse a mostrare la bellezza e la vivacità dell’ingegno che egli aveva nella pittura, acciò che e’ fusse cognosciuto e forse, da chi governava allora, messo in opera in qualche lavoro d’importanza.

Erano in Camaldoli di Fiorenza allora uomini artefici che si ragunavano a una Compagnia, nominata de’ Martiri, la quale aveva avuto voglia piú volte di far dipignere una facciata, che era in quella, drentovi la storia di essi martiri quando e’ son condannati alla morte dinanzi a i due imperadori romani che, dopo la battaglia e presa loro, gli fanno in quel bosco crocifiggere e sospendere a quegli alberi.

La quale storia fu messa per le mani a Perino, et ancora che il luogo fussi discosto et il prezzo piccolo, fu di tanto potere la invenzione della storia e la facciata che era assai grande, che egli si dispose a farla; ancora che egli fusse assai confortato da chi gli era amico, atteso che questa opera lo metterebbe in quella considerazione che meritava la sua virtú fra i cittadini che non lo conoscevano, e fra gli artefici suoi in Fiorenza, dove non era conosciuto se non per fama. Deliberatosi dunque a lavorare, prese questa cura, e fattone un disegno piccolo, che fu tenuto cosa divina, e messo mano a fare un carton grande quanto l’opera, lo condusse (non si partendo d’intorno a quello) a un termine che tutte le figure principali erano finite del tutto.

E cosí lo apostolo si rimase indietro, senza farvi altro.

Aveva Perino disegnato questo cartone in su ’l foglio bianco, sfumato e tratteggiato, lasciando i lumi della propria carta, condotto tutto con una diligenzia mirabile; nel quale erano i due imperadori nel tribunale che sentenziavano a la croce tutti i prigioni, i quali erano volti verso il tribunale, chi ginocchioni, chi ritto et altro chinato, tutti ignudi legati per diverse vie, in attitudini varie, storcendosi con atti di pietà e conoscendosi il tremar delle membra, per aversi a disgiugner l’anima nella passione e tormento del crucifiggersi. Oltra che vi era accennato in quelle teste la costanzia della fede ne’ vecchi, il timore della morte ne’ giovani, in altri il dolore delle torture nello stringerli le legature, il torso e le braccia.

Vedevasi appresso il gonfiar de’ muscoli, e fino a ’l sudor freddo della morte, accennato in quel disegno. Oltra che si vedeva ne’ soldati che gli guidavano una fierezza terribile, impietosissima e crudele nel presentargli a ’l tribunale per la sentenzia e nel guidargli a le croci. Oltra che vi erano per il dosso degli imperadori e de’ soldati, corazze all’antica et abbigliamenti molto ornati e bizzari, senza i calzari, le scarpe, le celate, le targhe e le altre armadure fatte con tutta quella copia di bellissimi ornamenti che piú si possa fare et imitare et aggiugnere allo antico, disegnate con quello amore et artificio e fine, che può far tutti gli estremi dell’arte.

Il quale cartone, vistosi per gli artefici e per altri intendenti ingegni, giudicarono non aver visto pari bellezza e bontà in disegno dopo quello di Michelagnolo Buonarroti, fatto in Fiorenza per la sala del Consiglio. Laonde acquistato Perino quella maggiore fama che egli piú poteva acquistare nell’arte, mentre che egli andava finendo tal cartone, per passar tempo, fece mettere in ordine e macinare colori a olio per fare al Piloto orefice suo amicissimo un quadretto non molto grande; il quale condusse a fine quasi piú di mezzo, dentrovi una Nostra Donna. Era già molti anni stato suo domestico un Ser Raffaello di Sandro, prete zoppo, cappellano di San Lorenzo, il quale portò sempre amore a gli artefici di disegno; costui persuase Perino a tornare seco in compagnia, non avendo egli né chi gli cucinasse, né chi lo tenesse in casa, essendo stato il tempo che ci era stato, oggi con uno amico e domani con un altro. Laonde Perino andò alloggiare seco e vi stette molte settimane. Avvenne che la peste cominciò a scoprirsi in certi luoghi in Fiorenza, e messe a Perino paura di non infettarsi, per il che deliberato partirsi di quella città, volse satisfare a Ser Raffaello tanti dí che era stato seco a mangiare, ma non volse mai Ser Raffaello acconsentire di pigliar niente; anzi disse: "E’ mi basta un tratto avere uno straccio di carta di tua mano".

Per il che, visto questo Perino, tolse circa a quatro braccia di tela grossa, e fattola appiccare ad un muro che era fra due usci della sua saletta, vi fece una storia contraffatta di colore di bronzo, in un giorno et in una notte.

Questa serviva per ispalliera, dentrovi la storia di Mosè quando e’ passa il Mar Rosso e che Faraone si sommerge in quello co’ suoi cavalli e co’ suoi carri.

Dove Perino fece attitudini bellissime di figure, chi nuota armato e chi ignudo, altri abbracciando il collo a’ cavalli, bagnati le barbe e’ cappelli, nuotano e gridano per la paura della morte, cercando il piú che possono con quel che veggono scampo da allungar la vita. Da l’altra parte del mare vi è Mosè, Aron e gli altri Ebrei, maschi e femmine, che ringraziano Idio. Èvvi un numero di vasi che egli finge che abbino spoliato lo Egitto, con bellissimi garbi e varie forme, e femmine con acconciature di testa molto varie, la quale finita, lassò per amorevolezza a Ser Raffaello, e gli fu cara tanto, quanto se li avesse lassato il priorato di San Lorenzo.

La qual tela fu tenuta di poi in pregio e lodata, e dopo la morte di Ser Raffaello rimase, con le altre sue robe, a Domenico di Sandro pizzicagnolo suo fratello.

Partissi da Fiorenza Perino, lasciato in abbandono l’opera de’ Martiri, della quale gli rincrebbe grandemente, e certo se ella fusse stata in altro luogo che in Camaldoli, la arebbe egli finita; ma considerato che gli uffiziali della Sanità avevano preso per gli appestati lo stesso convento di Camaldoli, volle piú tosto salvare sé che lasciar fama in Fiorenza, bastandoli aver mostrato quanto e’ valeva nel disegno.

Rimase il cartone e le altre sue robe a Giovanni di Goro orefice suo amico, che si morí nella peste; e dopo lui pervenne poi nelle mani del Piloto, che lo tenne molti anni spiegato in casa sua, mostrandolo volentieri a ogni persona d’ingegno, che era tenuto certo cosa rarissima; né so dove e’ si capitasse dopo la morte del Piloto.

Stette fuggiasco molti mesi da la peste Perino in piú luoghi, né per questo spese mai il tempo indarno, che egli continovamente non disegnasse e studiasse cose dell’arte. Ma cessata la peste se ne tornò a Roma et attese a far cose piccole, le quali io non narrerò altrimenti.

Fu l’anno MDXXIII creato Papa Clemente VII, che fu un grandissimo refrigerio alla arte della pittura e della scultura, state da Adriano VI, mentre che e’ visse, tenute tanto basse, che non solo non si era lavorato per lui niente, ma non se ne dilettando, anzi piú tosto avendole in odio, e cagione che nessuno altro se ne dilettasse era stato, o spendesse, o trattenesse nessuno artefice; per il che Perino allora fece molte cose nella creazione del nuovo pontefice.

Et oltre a questo convennono di capo dell’arte, in cambio di Raffaello da Urbino già morto, Giulio Romano e Giovan Francesco detto il Fattore, acciò che si scompartissino i lavori a gli altri secondo l’usato di prima. Per il che Perino, che aveva lavorato un’arme de ’l papa in fresco col cartone di Giulio Romano sopra la porta de ’l Cardinal Ceserino, si portò tanto egregiamente, che dubitarono di lui, perché, ancora che eglino avessino il nome di discepoli di Raffaello e redato le cose sue, non avevano redato interamente l’arte e la grazia che egli coi colori dava alle sue figure. Presono partito adunque Giulio e Gian Francesco d’intrattenere Perino, e cosí l’anno Santo del Giubileo MDXXV diedero la Caterina, sorella di Gianfrancesco, a Perino per donna, acciò che fra loro fussi quella intera amicizia, che tanto tempo avevon contratta, convertita in parentado. Laonde continovando a le opere che egli faceva continovamente, non ci andò troppo tempo che, per le lode dategli nella prima opera fatta in S. Marcello, fu deliberato dal priore di quel convento e da certi capi della Compagnia del Crocifisso, la quale ci ha una cappella fabbricata da gli uomini suoi per ragunarvisi, che ella si dovesse dipignere; e cosí allogorono a Perino questa opera, con isperanza di avere qualche cosa eccellente di suo. Perino, fattovi fare i ponti, cominciò l’opera, e fece nella volta a mezza botte, nel mezzo, una storia quando Dio, fatto Adamo, cava de la costa sua Eva sua donna, nella quale storia si vede Adamo ignudo, bellissimo et artifizioso che, oppresso dal sonno, giace, mentre che Eva vivissima a man giunte si leva in piedi e riceve la benedizzione dal suo Fattore, la figura del quale è fatta di aspetto ricchissimo e grave, in maestà, diritta, con molti panni attorno, che vanno girando i lembi lo ignudo; fecevi da una banda a man ritta due Evangelisti, de’ quali finí tutto il San Marco et il San Giovanni, eccetto la testa et un braccio ignudo. Fecevi in mezzo fra l’uno e l’altro, due puttini che abracciano per ornamento un candelliere, che veramente son di carne vivissimi, e similmente i Vangelisti molto belli, nelle teste e ne’ panni e braccia e tutto quel che lor fece di sua mano.

La quale opera, mentre che egli la fece, ebbe molti impedimenti, e di malattie e d’altri infortuni, che accagiono giornalmente a chi si vive. Oltra che dicano che mancarono danari ancora a quelli della compagnia; e talmente andò in lunga questa pratica che l’anno MDXXVII venne la rovina di Roma, che fu messa quella città a sacco, e spento molti artefici e distrutto e portato via molte opere. Perino, trovandosi in tal frangente, et avendo donna et una puttina, con la quale corse in collo per Roma per camparla di luogo in luogo, fu in ultimo miserissimamente fatto prigione, dove si condusse a pagar taglia con tanta sua disavventura, che fu per dar la volta del cervello.

Passato le furie del sacco, era sbattuto talmente per la paura che egli aveva ancora, che le cose dell’arte si erano allontanate da lui; fece nientedimeno per alcuni soldati spagnoli tele a guazzo et altre fantasie e, rimessosi in assetto, viveva come gli altri poveramente. Era rimasto il Baviera, che teneva le stampe di Raffaello, che non aveva perso molto, e per l’amicizia che egli aveva con Perino, per intrattenerlo gli fece disegnare una parte d’istorie, quando gli dèi si trasformano per conseguire i fini de’ loro amori. I quali furono intagliati in rame da Iacopo Caraglio eccellente intagliatore di stampe. Et invero in questi disegni si portò tanto bene che, riservando i dintorni e la maniera di Perino, e tratteggiando quegli con un modo facilissimo, cercò ancora dargli quella leggiadria e quella grazia che aveva dato Perino a’ suoi disegni.

Mentre che le rovine del sacco avevano distrutta Roma e fatto partir di quella gli abitatori et il papa stesso, che si stava in Orvieto, non essendovi rimasti molti e non si faccendo faccenda di nessuna sorte, capitò a Roma Niccola Veneziano, raro et unico maestro di ricami, servitore del Principe Doria, il quale, e per la amicizia vecchia con Perino e perché egli ha sempre favorito e voluto bene a gli uomini dell’arte, persuase Perino a partirsi di quella miseria e lo consigliò inviarsi a Genova, promettendoli che egli farebbe opera con quel principe, che era amatore e si dilettava della pittura, che gli farebbe fare opere grosse. E massime che Sua Eccellenzia gli aveva molte volte ragionato che arebbe avuto voglia di far uno appartamento di stanze con bellissimi ornamenti.

Non bisognò molto persuader Perino, il quale, e dal bisogno oppresso e dalla voglia di uscir di Roma appassionato, deliberò con Niccola partire. E dato ordine di lasciar la sua donna e la figliuola bene acompagnata a sua parenti in Roma, assettato il tutto, se ne andò a Genova. Dove arrivato, e per mezzo di Niccola fatto noto a quel principe, fu tanto grato a Sua Eccellenzia la sua venuta, quanto cosa che in sua vita per trattenimento avessi mai avuta. Fattogli dunque accoglienze e carezze infinite, dopo molti ragionamenti e discorsi, alla fine diedero ordine di cominciare il lavoro, e conchiusono dovere fare un palazzo ornato di stucchi e di pitture a fresco, a olio e d’ogni sorte, il quale piú brevemente che io potrò mi ingegnerò di descrivere con le stanze e le pitture e l’ordine suo, lasciando stare dove cominciò prima Perino a lavorar, acciò non confonda nel dire questa opera, che di tutte le sue è la meglio.

Dico adunque che a l’entrata del palazzo del principe è una porta di marmo, di componimento et ordine dorico, fattone disegni e modelli di man di Perino, con sue appartenenze di piedistalli, base, fuso, capitelli, architrave, fregio, cornicione e frontispizio, con alcune bellissime femmine a sedere che reggono una arme. La quale opera e lavoro intagliò di quadro maestro Giovanni da Fiesole, e le figure condusse a perfezzione Silvio scultore da Fiesole, fiero e vivo maestro.

Entrando dentro alla porta è, sopra il ricetto, una volta piena di stucchi con istorie varie e grottesche, con suoi archetti, ne’ quali è dentro per ciascuno cose armigere, chi combatte appiè, chi a cavallo, e battaglie varie lavorate con una diligenzia et arte certo grandissima.

Truovansi le scale a man manca, le quali non possono avere il piú bello e ricco ornamento di grotteschine alla antica, con varie storie e figurine piccole, maschere, putti, animali et altre fantasie, fatte con quella invenzione e giudizio che solevano esser le cose sue, che in questo genere veramente si possono chiamare divine. Salita la scala, si giugne in una bellissima loggia, la quale ha nelle teste, per ciascuna, una porta di pietra bellissima, sopra le quali, ne’ frontispizii di ciascuna, sono dipinte due figure, un maschio et una femmina, volte l’una al contrario dell’altra per l’attitudine, mostrando una la veduta dinanzi, l’altra quella di dietro. Èvvi la volta con cinque archi, lavorata di stucco superbamente, e cosí tramezzata di pitture con alcuni ovati, dentrovi storie fatte con quella somma bellezza, che piú si può fare; e le facciate son lavorate fino in terra, dentrovi molti capitani a sedere armati, parte ritratti di naturale e parte imaginati, fatti per tutti gli invitti capitani antichi e moderni di casa Doria, e di sopra loro son queste lettere d’oro grandi che dicono: MAGNI VIRI MAXIMI DVCES OPTIMA FECERE PRO PATRIA.

Nella prima sala, che risponde in su la loggia dove s’entra per una delle due porte a man manca, nella volta sono gli ornamenti di stucchi bellissimi; in su gli spigoli e nel mezzo è una storia grande di un Naufragio di Enea in mare, nel quale sono ignudi vivi e morti, in diverse e varie attitudini, oltra un buon numero di galee e navi, chi salve e chi fracassate dalla tempesta del mare, non senza bellissime considerazioni delle figure vive che si adoprano a difendersi, senza gli orribili aspetti che mostrano nelle cere il travaglio dell’onde, il pericolo della vita e tutte le passioni che danno le fortune marittime.

Questa fu la prima storia et il primo principio che Perino cominciasse per il principe, e dicesi che nella sua giunta in Genova era già comparso inanzi a lui per dipignere alcune cose Ieronimo da Trevisi, il quale dipigneva una facciata che guardava verso il giardino, e mentre che Perino cominciò a fare il cartone della storia che di sopra s’è ragionata de ’l Naufragio, e mentre che egli a bell’agio andava trattenendosi e vedendo Genova, continovava o poco o assai al cartone, di maniera che già n’era finito gran parte in diverse fogge, e disegnati quegli ignudi, altri di chiaro e scuro, altri di carbone e di lapis nero, altri gradinati, altri tratteggiati e dintornati solamente. Mentre dico che Perino stava cosí e non cominciava, Ieronimo da Trevisi mormorava di lui, dicendo: "Che cartoni e non cartoni! Io, io ho l’arte su la punta del pennello". E sparlando piú volte in questa o simil maniera, pervenne a gli orecchi di Perino, il quale, presone sdegno, subito fece conficcare nella volta, dove aveva andare la storia dipinta, il suo cartone, e levato in molti luoghi le tavole del palco acciò si potesse vedere di sotto, aperse la sala. Il che sentendosi, corse tutta Genova a vederlo e, stupiti de ’l gran disegno di Perino, lo celebrarono immortalmente. Andovvi fra gli altri Ieronimo da Trevisi, il quale vide quello che egli mai non pensò veder di Perino; e, spaventato dalla bellezza sua, si partí di Genova senza chieder licenzia al Principe Doria, tornandosene in Bologna dove egli abitava. Restò adunque Perino a servire il principe e finí questa sala colorita in muro a olio, che fu tenuta et è cosa singularissima nella sua bellezza, essendo (come dissi) in mezzo della volta e dattorno e fin sotto le lunette, lavori di stucchi bellissimi. Nella altra sala, dove si entra per la porta della loggia a man ritta, fece medesimamente nella volta pitture a fresco, e lavorò di stucco in uno ordine quasi simile quando Giove fulmina i Giganti, dove sono molti ignudi, maggiori del naturale, molto begli. Similmente in cielo tutti gli dèi, i quali, nella tremenda orribilità de’ tuoni, fanno atti vivacissimi e molto proprii, secondo le nature loro. Oltra che gli stucchi sono lavorati con somma diligenzia et il colorito in fresco non può essere piú bello, atteso che Perino ne fu maestro perfetto e molto valse in quello.

Fecevi quattro camere, nelle quali tutte le volte sono lavorate di stucco in fresco, e scompartitevi dentro le piú belle favole di Ovidio che paion vere, né si può imaginare la bellezza, la copia et il vario e gran numero che sono per quelle, di figurine, fogliami, animali e grottesche, fatte con grande invenzione. Similmente, da l’altra banda dell’altra sala, fece altre quatro camere, guidate da •llui e fatte condurre da i suoi garzoni, dando loro però i disegni cosí degli stucchi, come delle storie, figure e grottesche, che infinito numero, chi poco e chi assai, vi lavorò. Come Luzio Romano, che vi fece molte opere di grottesche e di stucchi, e molti lombardi.

Basta che non vi è stanza che non abbia fatto qualche cosa e non sia piena di fregiature, perfino sotto le volte, di vari componimenti pieni di puttini, maschere bizzarre et animali che è uno stupore. Oltra che gli studioli, le anticamere, i destri, ogni cosa è dipinto e fatto bello.

Entrasi da ’l palazzo al giardino in una muraglia terragnola che in tutte le stanze e fin sotto le volte ha fregiature molto ornate, e cosí le sale e le camere e le anticamere, fatte della medesima mano. E cosí in questa opera lavorò ancora il Pordenone, come dissi nella sua vita. E cosí Domenico Beccafumi sanese rarissimo pittore, che mostrò non essere inferiore a nessuno de gli altri, quantunque l’opere che sono in Siena di sua mano siano piú eccellenti che egli abbi fatto infra tante sue.

Ma per tornare a le opere che fece Perino dopo quelle che egli lavorò nel palazzo de ’l principe, come un fregio in una stanza in casa Gianettin Doria, dentrovi femmine bellissime, oltra che per la città fece molti lavori a molti gentiluomini, in fresco e coloriti a olio, come una tavola in San Francesco molto bella, con bellissimo disegno, e similmente in una chiesa dimandata Santa Maria de Consolazione, ad un gentiluomo di casa Baciadonne, nella qual tavola fece una Natività di Cristo, opera lodatissima, ma messa in luogo oscuro talmente, che per colpa del non aver buon lume, non si può conoscer la sua perfezzione, e tanto piú che Perino cercò di dipignerla con una maniera oscura, e nel vero aría bisogno di gran lume.

Senza i disegni che e’ fece de la maggior parte della Eneide con le storie di Didone, che se ne fece panni di arazzi, e similmente i begli ornamenti disegnati da lui nelle poppe delle galee, intagliati e condotti a perfezzione dal Carota e dal Tasso, intagliatori di legname fiorentini, i quali eccellentemente mostrarono quanto e’ valessino in quell’arte.

Oltra tutte queste cose, dico, fece ancora un numero grandissimo di drapperie per le galee del principe, et i maggiori stendardi che si potessi fare per ornamento e bellezza di quelle.

Laonde e’ fu per le sue buone qualità tanto amato da quel principe, che se egli avessi atteso a servirlo, arebbe grandemente conosciuta la virtú sua. Mentre che egli lavorò in Genova, gli venne fantasia di levar la moglie di Roma, e cosí comperò in Pisa una casa, piacendoli quella città, e quasi pensava, invecchiando, elegger quella per sua abitazione.

Era in quel tempo operaio del Duomo di Pisa Messer ***, il quale aveva desiderio grandissimo di abbellir quel tempio et aveva fatto fare un principio di ornamenti di marmo molto belli per cappelle giú per la chiesa, levando alcune vecchie e goffe che v’erano e senza proporzione, le quali aveva condotte di sua mano Stagio da Pietra Santa, intagliatore di marmi molto pratico e valente. E cosí dato principio, l’operaio pensò di riempier dentro a’ detti ornamenti di tavole a olio, e fuora seguitare a fresco storie e partimenti di stucchi, e di mano de’ migliori e piú eccellenti maestri che egli trovassi, senza perdonare a spesa che ci fussi potuta intervenire; perché egli aveva già dato principio alla sagrestia e l’aveva fatta nella nicchia principale dietro a l’altar maggiore, dove era finito già l’ornamento di marmo e fatti molti quadri da Giovannantonio Sogliani pittore fiorentino, il resto de’ quali, insieme con le tavole e cappelle che mancavano, fu poi dopo molti anni fatto finire da Messer Sebastiano della Seta, operaio di quel duomo.

Venne in questo tempo in Pisa tornando da Genova Perino, e visto questo principio per mezzo di Batista del Cervelliera, persona intendente nell’arte e maestro di legname, in prospettive et in rimessi ingegnosissimo, fu condotto allo operaio e, discorso insieme de le cose dell’opera del duomo, fu ricerco che, a un primo ornamento dentro alla porta ordinaria che s’entra, dovessi farvi una tavola, che già era finito l’ornamento, e sopra quella una storia, quando San Giorgio ammazzando il serpente libera la figliuola di quel re.

Cosí fatto Perino un disegno bellissimo, che faceva in fresco un ordine di putti e d’altri ornamenti fra l’una cappella e l’altra, e nicchie con profeti e storie in piú maniere, piacque tal cosa all’operaio. E cosí fattone cartone d’una di quelle, cominciò a colorire quella prima, dirimpetto alla porta detta di sopra, e finí sei putti, i quali sono molto ben condotti. E cosí doveva seguitare intorno intorno, che certo era ornamento molto ricco e molto bello, e sarebbe riuscita tutta insieme una opera molto onorata.

Avvenne che egli volse ritornare a Genova, avendovi egli del continuo preso e pratiche amorose et altri suoi piaceri, a e’ quali egli era inclinato a certi tempi. E nella sua partita diede una tavoletta dipinta a olio, che egli aveva fatta per le monache di San Maffeo a quelle, che è dentro nel munistero fra loro. Arrivato poi in Genova, dimorò in quella molti mesi faccendo per il principe altri lavori ancora.

Dispiacque molto all’operaio di Pisa la partita sua, ma molto piú il rimanere quell’opera imperfetta, non cessando scriverli che tornassi, oltra al dimandare ogni giorno de la sua tornata la donna sua, la quale insieme con la figliuola aveva Perino lasciata in Pisa; e veduto poi finalmente che questa era cosa lunghissima, non rispondendo o tornando, allogò la tavola di quella cappella a Giovannantonio Sogliani, che la finí e la messe al luogo suo. Ritornato Perino in Pisa, e visto l’opera di Giovannantonio, sdegnatosi non volse seguitare il principio fatto da lui, dicendo che non voleva che le sue pitture servissino per fare ornamento ad altri maestri.

Laonde si rimase per lui imperfetta quell’opera, e Giovannantonio la seguitò tanto che egli vi fece quattro tavole, le quali parendo poi a Sebastiano della Seta, nuovo operaio, tutte in una medesima maniera e piú tosto manco belle della prima, ne allogò a Domenico Beccafumi sanese, dopo la prova di certi quadri che egli fece intorno alla sagrestia che son molto belli, una tavola che egli fece in Pisa.

La quale non satisfacendoli come i quadri primi, ne fecero fare due ultime che vi mancavano a Giorgio Vasari aretino, le quali furono poste alle due porte accanto alle mura delle cantonate nella facciata dinanzi della chiesa. De le quali insieme con le altre molte opere grandi e piccole, sparse per Italia e fuora in piú luoghi, non conviene che io ne parli altrimenti, ma ne lascerò il giudizio libero a chi le ha vedute o vedrà. Dolse veramente questa opera a Perino, avendo già fattone i disegni, che erano per riuscire cosa degna di lui e da far nominar quel tempio, oltre alla antichità sua, molto maggiormente, e da fare immortale Perino ancora.

Era a Perino nel suo dimorare tanti anni in Genova, ancora che egli ne cavasse utilità e piacer, venutali a fastidio, ricordandosi di Roma nella felicità di Leone.

E quantumque egli nella vita del Cardinale Ipolito de’ Medici avesse avuto lettere di servirlo e si fusse disposto a farlo, la morte di quel signore fu cagione che cosí presto egli non si rimpaniassi. Stando le cose in questo termine, molti suoi amici procuravano il suo ritorno, et egli infinitamente piú di loro. Cosí andorono piú lettere in volta, et in ultimo una mattina gli toccò il capriccio, e senza far motto partí di Pisa et a Roma si condusse. E fattosi conoscere al Reverendissimo Cardinale Farnese e poi a papa Paulo, stè molti mesi che egli non fece niente: prima perché era trattenuto d’oggi in domane, e poi, perché gli venne male in un braccio, di sorte che egli spese parecchi centi di scudi, senza il disagio, inanzi che e’ potesse guarire; per il che, non avendo chi lo trattenessi, fu tentato per la poca carità della corte partirsi molte volte; pure il Molza e molti altri suoi amici lo confortavano ad aver pacienzia, con persuaderli che Roma non era piú quella, e che ora ella vuole che un sia stracco et infastidito da lei, innanzi ch’ella lo elegga et acarezzi per suo. E massime chi seguita l’orme di qualche bella virtú.

Comperò in questo tempo Messer Pietro de’ Massimi una cappella alla Trinità, dipinta la volta e le lunette con ornamenti di stucco, e cosí la tavola a olio di mano di Giulio Romano e di Gianfrancesco suo cognato; e desideroso quel gentiluomo di farla finire affatto, levò via una sepoltura di marmo che era in faccia di quella, fatta ad una cortigiana famosissima, con certi putti molto ben lavorati. E cosí fatto alla tavola uno ornamento di legno dorato, che prima ne aveva uno di stucco povero, allogò a finire le facciate di quella, con istucchi e figure, a Perino. Il quale fatto fare i ponti e la turata, mise mano e dopo molti mesi a fine la condusse. Fecevi uno spartimento di grottesche bizzarre e belle, parte di basso rilievo e parte dipinte, e ricinse due storiette non molto grandi con uno ornamento di stucchi molto varii, in ciascuna facciata la sua, che nella una era la probatica piscina, con quegli rattratti e malati e l’angelo che viene a commuover le acque, oltra che vi si vede le vedute di que’ portici che scortono in prospettiva benissimo, e gli andamenti e gli abiti de’ sacerdoti, fatti con una grazia molto pronta, ancora che le figure non sieno molto grandi. E nell’altra la resurressione di Lazzero quatriduano, che si mostra nel suo riaver la vita molto ripieno della palidezza e paura della morte. Oltre che vi son molti che lo sciolgono, e pure assai che si maravigliano, e tanti che stupiscono, senza che la storia è adorna di alcuni tempietti che sfuggono nel loro allontanarsi, lavorati con grandissimo amore et il simile sono tutte le cose dattorno di stucco. Sonvi quattro storiettine minori, due per faccia, che mettono in mezzo quella grande; nelle quali sono in una, quando il centurione dice a Cristo che liberi con una parola il figliuolo che more; nell’altra, quando e’ caccia i venditor de ’l Tempio; la Trasfigurazione et un’altra simile. Fecevi ne’ risalti de’ pilastri di dentro quattro figure in abito di profeti, che sono veramente nella lor bellezza quanto eglino possino essere di bontà e di proporzione ben fatti e finiti; e similmente quella opera condotta sí diligente, che piú tosto alle cose miniate che dipinte per la sua finezza somiglia. Vedevisi una vaghezza di colorito molto viva et una gran pacienza usata in condurla, mostrando quel vero amore che si debbe avere all’arte. E questa opera dipinse egli tutta di sua man propria, vero è che gran parte di quegli stucchi fece condurre co’ suoi disegni a Guglielmo Milanese stato già seco a Genova amato gran tempo da lui, avendogli già voluto dare la sua figliuola per donna, il quale per restaurar le anticaglie di casa Farnese, oggi è fatto frate del Piombo, in luogo di fra’ Bastian Viniziano: questa opera con molti disegni, che egli fece, fu cagione che il Reverendissimo Cardinale Farnese gli cominciasse a dar provvisione e servirsene in molte cose. Fu fatto levare per ordine di Papa Paulo un cammino che era nella camera del Fuoco e metterlo in quella della Segnatura, dove erano le spalliere di legno in prospettiva, fatte di mano di fra’ Giovanni intagliatore per Papa Iulio; et avendo nell’una e nell’altra camera dipinto Raffaello da Urbino, bisognò rifare tutto il basamento alle storie della camera della Segnatura. Per il che fu dipinto da Perino uno ordine finto di marmo con termini varii e festoni, maschere et altri ornamenti, et in certi vani, storie contrafatte di color di bronzo, l’uno e l’altro in fresco. Nelle storie era come di sopra trattando a’ filosofi, della filosofia, a’ teologi, della teologia, a’ poeti del medesimo, tutti e’ fatti di coloro che erano stati periti in quelle professioni. Et ancora che egli non le conducessi tutte di sua mano, egli le ritoccava in secco di sorte, oltra il fare i cartoni tanti finiti, che poco meno sono che s’elle fussino di sua mano. E ciò fece egli perché, sendo infermo d’un catarro, non poteva tanta fatica. Laonde visto il papa che egli meritava, e per l’età e per ogni cosa sendosi raccomandato, gli fece una provvisione di ducati XXV il mese, che gli durò infino a la morte. Et aveva cura di servire il palazzo, e cosí, casa Farnese. Aveva scoperto già Michelagnolo Buonarroti, nella cappella del papa, la facciata del Giudizio, e vi mancava di sotto a dipignere il basamento, dove si aveva appiccare una spalliera di arazzi, tessuta di seta e d’oro, come i panni che parano la cappella. Ordinò il papa che si mandassi a tessere in Fiandra, e cosí con consenso di Michelagnolo fecero che Perino cominciò una tela dipinta, della medesima grandezza, dentrovi femmine e putti e termini, che tenevono festoni, molto vivi, con bizzarrissime fantasie. La quale rimase imperfetta in Bel Vedere in alcune stanze dopo la morte sua, opera certo degna di lui e dell’ornamento di sí divina pittura.

Aveva fatto finire di murare Anton da San Gallo, in palazzo del papa, la sala grande de i Re, dinanzi alla cappella di Sisto IIII. Nella quale fece nel cielo uno spartimento grande di otto facce, e croce et ovati nel rilievo e sfondato di quella. E cosí la diedero a Perino che la lavorassi di stucco, in quegli ornamenti e piú ricchi, e piú begli, che si poteva fare, nella difficultà di quell’arte. Cosí cominciò e fece negli ottangoli in cambio d’una rosa, quattro putti tutti tondi, di rilievo, che puntano i piedi al mezzo, e con le braccia girando, fanno una rosa bellissima. Oltra che per il resto dello spartimento sono tutte le imprese di casa Farnese, e nel mezzo della volta l’arme del papa. E veramente si può dire questa opera, di stucco, di bellezza e di finezza e di difficultà, aver passato quante ne fecero mai gli antichi et i moderni, e degna veramente d’un capo della religione cristiana. Cosí fece fare con suo disegno le finestre di vetro al Pastorin da Siena, valente in quel mestiero, e sotto fece ordinar le facciate, per farvi le storie di sua mano, in ornamenti di stucchi bellissimi. La quale opera se la morte forse non gli avesse impedito quel buono animo che aveva, arebbe fatto conoscere quanto i moderni avessino avuto cuore non solo in paragonare a gli antichi le opere loro, ma forse in passarle di gran lunga. Mentre che lo stucco di questa volta si faceva e che egli pensava a i disegni delle storie, in San Pietro di Roma si rovinavono le mura vecchie di quella chiesa, per rifar le nuove della fabbrica. E pervenuti i muratori a una pariete dove era una Nostra Donna et altre pitture di man di Giotto, furon viste da Perino che era in compagnia di Messer Niccolò Acciauoli, dottor Fiorentino e suo amicissimo, e mossosi l’uno e l’altro a pietà di quella pittura convennero con que’ muratori, che non la rovinassino. Anzi tagliassino attorno il muro, e con travi e ferri la allacciassino intorno, talché salva la potessino tramutare e rimurare. Era sotto l’organo di San Piero un luogo, che non v’era altare né cosa ordinata, e però deliberorono murarla quivi e farvi la cappella della Madonna. E di piú farli certi ornamenti di stucchi e di pitture, et insieme mettervi la memoria di un Niccolò Acciaiuoli, che già fu Senator di Roma. Fecene dunche Perino i disegni, e vi messe mano subito aiutato da’ suoi giovani, che tutto il colorito fu di Marcello Mantovano suo creato, la quale opera fu fatta con molta diligenzia.

Stava nel medesimo San Pietro, il Sacramento, per lo amor della muraglia, molto poco onorato. Laonde fatti sopra la compagnia di quello uomini deputati ordinorono che e’ si facesse in mezzo la chiesa vecchia una cappella, et Antonio da San Gallo la fece fare, parte di spoglie di colonne di marmo antiche e parte aggiugnendovi altri ornamenti e di marmi e di bronzi e di stucchi, mettendo un tabernacolo in mezzo di mano di Donatello per piú ornamento, e faccendovi un sopra cielo bellissimo, con molte storie minute de le figure del Testamento vecchio, figurative del Sacramento. Fecesi ancora in mezzo a quella una storia un po’ maggiore, dentrovi la Cena di Cristo con gli Apostoli, e sotto due profeti che mettono in mezzo il Corpo di Cristo. Cosí fece fare alla chiesa di San Giuseppo vicino a Ripetta, et ordinò che un di que’ suoi giovani facesse la cappella di quella chiesa, che fu poi ritocca e finita da lui. Fece similmente una cappella nella chiesa di San Bartolomeo in Isola con suoi disegni, la quale medesimamente ritoccò; et in San Salvatore del Lauro fece dipignere intorno allo altar maggiore alcune storie, e di grottesche nella volta ancora. Cosí di fuori nella facciata una Annunziata condotta da Girolamo Sermoneta suo creato.

Cosí adunque, parte per non potere e parte perché gl’incresceva, piacendoli piú il disegnare che il condur l’opere, andava seguitando quel medesimo ordine, che già tenne Raffaello da Urbino nell’ultimo della sua vita. Il quale quanto sia dannoso e di biasimo ne fanno segno l’opere de’ Chigi e quelle che son condotte da altri, come ancora mostrano queste che fece condurre Perino. Oltra che elle non hanno arrecato molto onore a Giulio Romano ancora, dico, quelle che non son fatte di lor mano. Et ancora che si faccia piacere a i principi, per dar loro l’opere presto, e forse benefizio a gli artefici che vi lavorono, se fussino i piú valenti del mondo non hanno mai quello amore alle cose d’altri, che altrui vi ha da se stesso. Né mai per ben disegnati che siano i cartoni, si imita appunto e propriamente come fa la mano del primo autore. Il quale, vedendo andare in rovina l’opera, disperandosi lascia precipitare affatto. Atteso che chi ha sete d’onore debbe far da sé solo. E questo lo posso io dir per prova che, avendo io faticato con grande studio i cartoni della sala della Cancelleria nel palazzo di San Giorgio di Roma che, per aversi a fare con gran prestezza in cento dí vi si messe tanti pittori a colorirla, che diviarono talmente da i contorni e bontà di quelli, che feci proposito e cosí ho osservato che d’allora in qua nessuno ha messo mano in sulle opere mie. Laonde chi vol conservare i nomi e le opere, ne faccia meno, e tutte di man sua se e’ vol conseguire quello intero onore che cerca acquistare un bellissimo ingegno. Dico adunque che Perino per le tante cure commesseli, era forzato mettere molte persone in opera, et erali venuto sete piú del guadagno che della gloria, parendoli avere gittato via e non avanzato niente nella sua gioventú. E tanto fastidio gli dava il veder venir giovani su che facessino, che cercava metterli sotto di sé, a ciò non li avessino a impedire il luogo.

Venne l’anno MDXLVI Tiziano da Cador pittore veneziano, celebratissimo per far ritratti, et avendo egli già ritratto Papa Paulo, quando Sua Santità andò a Bussè e, non avendo remunerazione di quello, né di alcuni altri che aveva fatti al Cardinale Farnese et a Santa Fiore, capitò allora in Roma, e da essi fu ricevuto onoratissimamente in Bel Vedere. Si levò dunque la voce in corte e poi per Roma, qualmente egli era venuto per fare istorie di sua mano nella sala de’ Re in palazzo, dove Perino doveva farle egli, e vi si lavorava di già i stucchi. Dispiacque molto questa venuta a Perino e se ne dolse con molti amici suoi, non perché e’ credesse che nella storia Tiziano avesse a passarlo lavorando in fresco, ma perché e’ desiderava trattenersi con questa opera pacificamente et onoratamente, fino a la morte. E se pur ne aveva a fare, farla senza concorrenza, bastandoli purtroppo la volta e la facciata della cappella di Michelagnolo a paragone, quivi vicina. Questa suspizione fu cagione che, mentre Tiziano sté in Roma, egli lo sfuggí sempre, e sempre stette di mala voglia fino a la partita sua.

Era castellano di Castel Santo Agnolo, Tiberio Crispo, oggi fatto reverendissimo cardinale, e come persona che si dilettava delle nostre arti, si messe in animo di abbellire Castello, et in quello rifece logge, camere e sale et apparamenti bellissimi, per poter ricever meglio Sua Santità quando ella ci veniva. E cosí fece molte stanze et altri ornamenti, con ordine e disegni di Raffaello da Monte Lupo e poi in ultimo di Antonio da San Gallo. Fecevi far di stucco Raffaello una loggia, et egli vi fece l’angelo di marmo, figura di sei braccia, posta in cima al castello su l’ultimo torrione, e cosí fece dipigner detta loggia a Girolamo Sermoneta, che è quella che volta verso i prati, che, finita, fu poi il resto delle stanze date parte a Luzio Romano. Et in ultimo le sale et altre camere importanti fece Perino parte di sua mano e parte fu fatto da altri, con suoi cartoni. La sala è molto vaga e bella, lavorata di stucchi, e tutta piena di storie romane fatte da’ suoi giovani, che ve ne sono molte di mano di Marco da Siena, discepolo di Domenico Beccafumi, et evvi in certe stanze fregiature bellissime.

Era in questo tempo a San Giustino in quello di Città di Castello, un pittore chiamato Cristofano Gherardi da ’l Borgo a San Sepolcro, il quale dotato dalla natura d’uno ingegno maraviglioso per fare grottesche e figure, venne a Roma per vederla, ma non volse mai lavorare con Perino. Anzi, ritornatosi a San Giustino, ha lavorato quivi in un palazzo de’ Bufalini varie stanze, tenute tutte cosa bellissima. Et aveva per usanza Perino, quando poteva avere giovani valenti, servirsene volentieri nelle opere sue. Né restava egli di lavorare ogni cosa meccanica. Fece molte volte i pennoni delle trombe, le bandiere del castello e quelle della armata della religione. Lavorò drappelloni, sopravveste, portiere et ogni minima cosa dell’arte. Cominciò alcune tele per far panni d’arazzi per il Principe Doria. Fece ancora per il Reverendissimo Cardinal Farnese una cappella, e cosí uno scrittoio alla Eccellentissima Madonna Margherita d’Austria. A Santa Maria del Pianto fece fare uno ornamento intorno alla Madonna; e cosí in piazza Giudea alla Madonna pure un altro ornamento. E molte altre che non iscade per esser tante farne memoria, perché non gli veniva cosa nessuna in mano che egli non le pigliassi e facessi fine. Aveva gran briga con alcuni uffiziali di palazzo, in darli sempre disegni e trattenergli con cose di sua mano, acciò che o per i pagamenti delle provisioni et altre cose sue fusse servito, mercé del dargli loro, o acciò che tutte le cose capitassino o grandi o piccole in man sua. Erasi recato una autorità che tutti i lavori di Roma erano allogati da lui a chi li piaceva, con un prezzo alle volte vilissimo da chi faceva l’opere, che a lui reccavon fatica et a chi le faceva poco utile, et all’arte danno certo grandissimo, e che sia il vero, se la volta della sala de’ Re in palazzo s’egli la avesse presa sopra di sé e lavoratovi insieme con i garzoni, vi avanzava parechi centi di scudi, che furon tutti de’ ministri che guidavano e pagavano le giornate a chi vi lavorava. Laonde, avendo egli preso un carico sí grande e con tanto fastidio che, sendo catarroso et infirmo, poteva malamente sopportare tanti disagii, in avere il giorno e la notte a disegnare, avendo di continuo a satisfare a’ disegni per il palazzo, di ricami, d’intagli, a’ banderai, a i capricci di molti ornamenti di Farnese oltra molti cardinali et altri signori, onde teneva continuo l’animo occupatissimo, in questo ultimo suo aveva sempre intorno scultor di stucchi, intagliatori di legnami, sarti, ricamatori e pittori e mettitor d’oro et altri attenenti all’arte nostra. Non aveva altra consolazione che ritrovarsi con amici alla osteria, la quale egli di continuo esercitò dove egli si trovava, parendoli la beatitudine e la requie del mondo et il riposo de’ suoi travagli, cosí per le cose dell’arte, come per le cose di Venere e per i disordini della bocca, guasta la complessione, si andava da una continua asima consumando, tanto che e’ cadde nel male del tizico, e cosí non giovando rimedii e seguitando il catarro, una sera parlando vicino a casa con uno amico suo, di un subito mal di gocciola cascò morto, nella età sua di quarantasette anni. La perdita del quale dolse infinitamente a molti artefici, e da Messer Iosef Cincio medico di madama, suo genero, e dalla sua donna nella Ritonda di Roma, alla cappella di San Giuseppo, gli fu dato onorato sepolcro con questo epitaffio:
DATVR OMNIBVS MORI

PERINO BONACCVRSIO VAGAE FLORENTINO QVI INGENIO ET ARTE SINGVLARI EGREGIOS CVM PICTORES PER MVLTOS TVM PLASTAS FACILE OMNES SVPERAVIT, CATHERINA PERINI CONIVGI LAVINIA BONACCVRSIA PARENTI IOSEPHVS CINCIVS SOCERO CHARISSIMO ET OPTIMO FECERE. VIXIT ANNOS XLVI MENSES III, DIES XXI.
MORTVVS EST XIIII CALENDIS NOVEMBRIS ANNO
CHRISTI MDXLVII.

CERTANTEM CVM SE, TE QVVM NATVRA VIDERET,
NIL MIRVM SI TE HAS ABDIDIT IN TENEBRAS.
LVX TAMEN ATQVE OPERVM DECVS IMMORTALE TVORVM
TE ILLVSTREM EFFICIENT, HOC ETIAM IN TVMVLO.

Restò nel luogo suo Daniello Volterrano che molto lavorò seco e finí gli altri due profeti, che sono a la cappella del Crocifisso in San Marcello; e nella Trinità fece una cappella bellissima di stucchi e di pittura, alla signora Elena Orsina, e molti altri che non scade farne memoria. Basta che Perino valse ne l’essere universalissimo piú che pittore che sia stato ne’ tempi nostri, perché egli ha introdotto gli artefici a far eccellentemente gli stucchi, le grottesche, i paesi, gli animali et il colorito, tanto in fresco quanto a olio e quanto a tempera, e cosí il disegno d’ogni sorte. Onde se gli può dire che sia stato il padre di queste nobilissime arti, vivendo le virtú sue in quegli altri che lo vanno imitando in ogni effetto onorato dell’arte.