Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Iacopo da Puntormo
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VITA DI IACOPO DA PUNTORMO PITTORE FIORENTINO
L’antichi, o vero maggiori di Bartolomeo di Iacopo di Martino, padre di Iacopo da Puntormo del quale al presente scriviamo la vita, ebbono, secondo che alcuni affermano, origine dall’Ancisa, castello del Valdarno di sopra, assai famoso per avere di lì tratta similmente la prima origine gl’antichi di Messer Francesco Petrarca. Ma o di lì o d’altronde che fussero stati i suoi maggiori, Bartolomeo sopra detto, il quale fu fiorentino e secondo che mi vien detto della famiglia de’ Carucci, si dice che fu discepolo di Domenico del Ghirlandaio, e che avendo molte cose lavorato in Valdarno come pittore secondo que’ tempi ragionevole, condottosi finalmente a Empoli a fare alcuni lavori e quivi e ne’ luoghi vicini dimorando, prese moglie in Puntormo una molto virtuosa e da ben fanciulla, chiamata Alessandra, figliuola di Pasquale di Zanobi e di monna Brigida sua donna. Di questo Bartolomeo adunque nacque l’anno 1493 Iacopo, ma essendogli morto il padre l’anno 1499, la madre l’anno 1504 e l’avolo l’anno 1506, et egli rimaso al governo di monna Brigida sua avola, la quale lo tenne parecchi anni in Puntormo, e gli fece insegnare leggere e scrivere et i primi principii della grammatica latina, fu finalmente dalla medesima condotto di tredici anni in Firenze e messo ne’ pupilli, acciò da quel magistrato, secondo che si costuma, fussero le sue poche facultà custodite e conservate, e lui posto che ebbe in casa d’un Battista calzolaio, un poco suo parente, si tornò monna Brigida a Puntormo e menò seco una sorella di esso Iacopo. Ma indi a non molto essendo anco essa monna Brigida morta, fu forzato Iacopo a ritirarsi la detta sorella in Fiorenza e metterla in casa d’un suo parente chiamato Nicolaio, il quale stava nella via de’ Servi. Ma anche questa fanciulla, seguitando gl’altri suoi, avanti fusse maritata si morì l’anno 1512. Ma per tornare a Iacopo, non era anco stato molti mesi in Fiorenza, quando fu messo da Bernardo Vettori a stare con Lionardo da Vinci, e poco dopo con Mariotto Albertinelli, con Piero di Cosimo, e finalmente, l’anno 1512, con Andrea del Sarto, col quale similmente non stette molto perciò che, fatti che ebbe Iacopo i cartoni dell’archetto de’ Servi, del quale si parlerà di sotto, non parve che mai dopo lo vedesse Andrea ben volentieri, qualunche di ciò fusse la cagione.
La prima opera dunque che facesse Iacopo in detto tempo, fu una Nunziata piccoletta per un suo amico sarto, ma essendo morto il sarto prima che fusse finita l’opera, si rimase in mano di Iacopo, che allora stava con Mariotto, il quale n’aveva vanagloria e la mostrava per cosa rara a chiunche gli capitava a bottega. Onde venendo di que’ giorni a Firenze Raffaello da Urbino, vide l’opera et il giovinetto che l’avea fatta, con infinita maraviglia, profetando di Iacopo quello che poi si è veduto riuscire. Non molto dopo essendo Mariotto partito di Firenze et andato a lavorare a Viterbo la tavola che fra’ Bartolomeo vi aveva cominciata, Iacopo, il quale era giovane malinconico e soletario, rimaso senza maestro andò da per sé a stare con Andrea del Sarto, quando a punto egli avea fornito nel cortile de’ Servi le storie di San Filippo, le quale piacevano infinitamente a Iacopo, sì come tutte l’altre cose e la maniera e disegno d’Andrea. Datosi dunque Iacopo a far ogni opera d’immitarlo, non passò molto che si vide aver fatto acquisto maraviglioso nel disegnare e nel colorire, in tanto che alla pratica parve che fusse stato molti anni all’arte. Ora avendo Andrea di que’ giorni finita una tavola d’una Nunziata per la chiesa de’ frati di San Gallo oggi rovinata, come si è detto nella sua vita, egli diede a fare la predella di quella tavola a olio a Iacopo, il quale vi fece un Cristo morto con due Angioletti che gli fanno lume con due torce e lo piangono, e dalle bande in due tondi, due Profeti, i quali furono così praticamente lavorati, che non paiono fatti da giovinetto, ma da un pratico maestro. Ma può anco essere, come dice il Bronzino ricordarsi avere udito da esso Iacopo Puntormo, che in questa predella lavorasse anco il Rosso. Ma sì come a fare questa predella fu Andrea da Iacopo aiutato, così fu similmente in fornire molti quadri et opere che continuamente faceva Andrea.
In quel mentre, essendo stato fatto sommo pontefice il cardinale Giovanni de’ Medici e chiamato Leone Decimo, si facevano per tutta Fiorenza dagl’amici e divoti di quella casa molte armi del Pontefice, in pietre, in marmi, in tele et in fresco. Per che volendo i frati de’ Servi fare alcun segno della divozione e servitù loro verso la detta casa e Pontefice, fecero fare di pietra l’arme di esso Leone e porla in mezzo all’arco del primo portico della Nunziata, che è in sulla piazza, e poco appresso diedero ordine che ella fusse da Andrea di Cosimo pittore messa d’oro et adornata di grottesche, delle quali era egli maestro eccellente, e dell’imprese di casa Medici, et oltre ciò messa in mezzo da una Fede e da una Carità. Ma conoscendo Andrea di Cosimo che da sé non poteva condurre tante cose, pensò di dare a fare le due figure ad altri; e così chiamato Iacopo, che allora non aveva più che dicianove anni, gli diede a fare le dette due figure ancor che durasse non piccola fatica a disporlo a volere fare, come quello che essendo giovinetto non voleva per la prima mettersi a sì gran risico, né lavorare in luogo di tanta importanza; pure fattosi Iacopo animo ancor che non fusse così pratico a lavorare in fresco come a olio, tolse a fare le dette due figure. E ritirato (perché stava ancora con Andrea del Sarto) a fare i cartoni in Santo Antonio alla porta a Faenza, dove egli stava, gli condusse in poco tempo a fine. E ciò fatto menò un giorno Andrea del Sarto suo maestro a vederli, il quale Andrea vedutigli con infinita maraviglia e stupore gli lodò infinitamente; ma poi, come si è detto, che se ne fusse o l’invidia o altra cagione, non vide mai più Iacopo con buon viso. Anzi andando alcuna volta Iacopo a bottega di lui o non gl’era aperto o era uccellato dai garzoni, di maniera che egli si ritirò affatto e cominciò a fare sottilissime spese, perché era poverino, e studiare con grandissima assiduità. Finito dunque che ebbe Andrea di Cosimo di metter d’oro l’arme e tutta la gronda, si mise Iacopo da sé solo a finire il resto, e trasportato dal disio d’acquistare nome, dalla voglia del fare e dalla natura che l’avea dotato d’una grazia e fertilità d’ingegno grandissimo, condusse quel lavoro con prestezza incredibile a tanta perfezzione, quanta più non arebbe potuto fare un ben vecchio e pratico maestro eccellente; per che, cresciutogli per quella sperienza l’animo, pensando di poter fare molto miglior opera, aveva fatto pensiero, senza dirlo altrimenti a niuno, di gettar in terra quel lavoro e rifarlo di nuovo secondo un altro suo disegno, che egli aveva in fantasia. Ma in questo mentre avendo i frati veduta l’opera finita e che Iacopo non andava più al lavoro, trovato Andrea lo stimolarono tanto, che si risolvé di scoprirla. Onde, cercato di Iacopo per domandare se voleva farvi altro e non lo trovando, perciò che stava rinchiuso intorno al nuovo disegno e non rispondeva a niuno, fece levare la turata et il palco e scoprire l’opera; e la sera medesima, essendo uscito Iacopo di casa per andare ai Servi, e come fusse notte mandar giù il lavoro che aveva fatto e mettere in opera il nuovo disegno, trovò levato i ponti e scoperto ogni cosa con infiniti popoli attorno che guardavano. Per che, tutto in còllora, trovato Andrea si dolse che senza lui avesse scoperto, aggiugnendo quello che avea in animo di fare. A cui Andrea ridendo rispose: "Tu hai il torto a dolerti perciò che il lavoro che tu hai fatto sta tanto bene che se tu l’avessi a rifare, tengo per fermo che non potresti far meglio, e perché non ti mancherà da lavorare, serba cotesti disegni ad altre occasioni". Quest’opera fu tale, come si vede, e di tanta bellezza, sì per la maniera nuova e sì per la dolcezza delle teste che sono in quelle due femine e per la bellezza de’ putti vivi e graziosi, ch’ella fu la più bella in fresco che insino allora fusse stata veduta già mai; perché oltre ai putti della Carità, ve ne sono due altri in aria, i quali tengono all’arme del Papa un panno, tanto begli che non si può far meglio, sanza che tutte le figure hanno rilievo grandissimo e son fatte per colorito e per ogni altra cosa tali, che non si possono lodare a bastanza. E Michelagnolo Buonarroti, veggendo un giorno quest’opera e considerando che l’avea fatta un giovane d’anni 19, disse: "Questo giovane sarà anco tale per quanto si vede, che se vive e seguita porrà quest’arte in cielo". Questo grido e questa fama sentendo gl’uomini di Puntormo, mandato per Iacopo gli fecero fare dentro nel castello sopra una porta, posta in sulla strada maestra, un’arme di papa Leone, con due putti, bellissima, come che dall’acqua sia già stata poco meno che guasta.
Il carnovale del medesimo anno, essendo tutta Fiorenza in festa ed in allegrezza per la creazione del detto Leone Decimo, furono ordinate molte feste e fra l’altre due bellissime e di grandissima spesa da due Compagnie di signori e gentiluomini della città, d’una delle quali, che era chiamata il Diamante, era capo il signor Giuliano de’ Medici, fratello del Papa, il quale l’aveva intitolata così per essere stato il diamante impresa di Lorenzo il Vecchio suo padre, e dell’altra, che aveva per nome e per insegna il Broncone, era capo il signor Lorenzo figliuolo di Piero de’ Medici, il quale dico aveva per impresa un broncone, cioè un tronco di lauro secco che rinverdiva le foglie, quasi per mostrare che rinfrescava e risurgeva il nome dell’avolo. Dalla compagnia dunque del Diamante fu dato carico a Messer Andrea Dazzi, che allora leggeva lettere greche e latine nello studio di Fiorenza, di pensare all’invenzione d’un trionfo. Onde egli ne ordinò uno simile a quelli che facevano i Romani trionfando, di tre carri bellissimi e lavorati di legname dipinti con bello e ricco artificio. Nel primo era la Puerizia con un ordine bellissimo di fanciulli, nel secondo era la Virilità con molte persone che nell’età loro virile avevano fatto gran cose, e nel terzo era la Senettù con molti chiari uomini che nella loro vecchiezza avevano gran cose operato, i quali tutti personaggi erano ricchissimamente adobati, in tanto che non si pensava potersi far meglio. Gl’architetti di questi carri furono Raffaello delle Vivuole, il Carota intagliatore, Andrea di Cosimo pittore et Andrea del Sarto, e quelli che feciono et ordinarono gl’abiti delle figure furono ser Piero da Vinci, padre di Lionardo, e Bernardino di Giordano, bellissimi ingegni. Et a Iacopo Puntormo solo toccò a dipignere tutti e tre i carri, nei quali fece in diverse storie di chiaro scuro molte transformazioni degli dii in varie forme, le quali oggi sono in mano di Pietro Paulo Galeotti orefice eccellente. Portava scritto il primo carro in note chiarissime "Erimus", il secondo "Sumus", et il terzo "Fuimus", cioè "Saremo", "Siamo", "Fummo". La canzone cominciava: "Volano gl’anni", etc. Avendo questi trionfi veduto il signor Lorenzo, capo della compagnia del Broncone, e disiderando che fussero superati, dato del tutto carico a Iacopo Nardi gentiluomo nobile e literatissimo al quale, per quello che fu poi, è molto obligata la sua patria Fiorenza, esso Iacopo ordinò sei trionfi per radoppiare quelli stati fatti dal Diamante. Il primo, tirato da un par di buoi vestiti d’erba, rappresentava l’età di Saturno e di Iano, chiamata dell’oro, et aveva in cima del carro Saturno con la falce et Iano con le due teste e con la chiave del tempio della pace in mano e sotto i piedi legato il Furore, con infinite cose attorno pertinenti a Saturno, fatte bellissime e di diversi colori dall’ingegno del Puntormo. Accompagnavano questo trionfo sei coppie di pastori ignudi, ricoperti in alcune parti con pelle di martore e zibellini, con stivaletti all’antica di varie sorte e con i loro zaini e ghirlande in capo di molte sorti frondi. I cavalli sopra i quali erano questi pastori erano senza selle, ma coperti di pelle di leoni, di tigri e di lupi cervieri; le zampe de’ quali, messe d’oro, pendevano dagli lati con bella grazia. Gl’ornamenti delle groppe e staffieri erano di corde d’oro; le staffe teste di montoni, di cane e d’altri simili animali, et i freni e redine fatti di diverse verzure e di corde d’argento. Aveva ciascun pastore quattro staffieri in abito di pastorelli, vestiti più semplicemente d’altre pelli e con torce fatte a guisa di bronconi secchi e di rami di pino che facevano bellissimo vedere. Sopra il secondo carro tirato da due paia di buoi vestiti di drappo ricchissimo, con ghirlande in capo e con paternostri grossi che loro pendevano dalle dorate corne, era Numa Pompilio secondo re de’ Romani con i libri della Religione e con tutti gl’ordini sacerdotali e cose appartenenti a’ sacrifici, perciò che egli fu, appresso i Romani, autore e primo ordinatore della Relligione e de’ sacrifizii. Era questo carro accompagnato da sei sacerdoti sopra bellissime mule, coperti il capo con manti di tela ricamati d’oro e d’argento a foglie d’ellera maestrevolmente lavorati; in dosso avevano vesti sacerdotali all’antica, con balzane e fregi d’oro attorno ricchissimi et in mano chi un turibolo e chi un vaso d’oro e chi altra cosa somigliante. Alle staffe avevano ministri a uso di leviti e le torce che questi avevano in mano erano a uso di candellieri antichi e fatti con bello artifizio. Il terzo carro rappresentava il consolato di Tito Manlio Torquato, il quale fu consolo dopo il fine della prima guerra cartaginese e governò di maniera che al tempo suo fiorirono in Roma tutte le virtù e prosperità. Il detto carro, sopra il quale era esso Tito con molti ornamenti fatti dal Puntormo, era tirato da otto bellissimi cavalli et innanzi gl’andavano sei coppie di senatori togati sopra cavalli coperti di teletta d’oro, accompagnati da gran numero di staffieri rappresentanti littori con fasci, securi et altre cose pertinenti al ministerio della iustizia. Il quarto carro tirato da quattro bufali, acconci a guisa d’elefanti, rappresentava Giulio Cesare trionfante per la vittoria avuta di Cleopatra, sopra il carro tutto dipinto dal Puntormo dei fatti di quello più famosi, il quale carro accompagnavano sei coppie d’uomini d’arme vestiti di lucentissime armi e ricche, tutte fregiate d’oro, con le lance in sulla coscia; e le torce, che portavano li staffieri mezzi armati, avevano forma di trofei in varii modi accomodati. Il quinto carro tirato da cavalli alati, che avevano forma di grifii, aveva sopra Cesare Augusto dominatore dell’universo, accompagnato da sei coppie di poeti a cavallo, tutti coronati, sì come anco Cesare, di lauro e vestiti in varii abiti, secondo le loro provincie; e questi, perciò che furono i poeti sempre molto favoriti da Cesare Augusto il quale essi posero con le loro opere in cielo. Et acciò fussero conosciuti, aveva ciascun di loro una scritta a traverso a uso di banda, nella quale erano i loro nomi. Sopra il sesto carro tirato da quattro paia di giovenchi vestiti riccamente era Traiano imperatore giustissimo, dinanzi al quale, sedente sopra il carro molto bene dipinto dal Puntormo, andavano, sopra belli e ben guerniti cavalli, sei coppie di dottori legisti con toghe infino ai piedi e con mozzette di vai, secondo che anticamente costumavano i dottori di vestire; i staffieri che portavano le torce in gran numero erano scrivani, copisti e notai con libri e scritture in mano. Dopo questi sei veniva il carro, o vero trionfo dell’età e secol d’oro, fatto con bellissimo e ricchissimo artifizio, con molte figure di rilievo fatte da Baccio Bandinelli, e con bellissime pitture di mano del Puntormo, fra le quali di rilievo furono molto lodate le quattro virtù cardinali. Nel mezzo del carro surgeva una gran palla in forma d’apamondo, sopra la quale stava prostrato bocconi un uomo come morto, armato d’arme tutte ruginose, il quale avendo le schiene aperte e fesse, della fessura usciva un fanciullo tutto nudo e dorato, il quale rappresentava l’età dell’oro resurgente e la fine di quella del ferro, della quale egli usciva e rinasceva per la creazione di quel Pontefice. E questo medesimo significava il broncone secco, rimettente le nuove foglie, come che alcuni dicessero che la cosa del broncone alludeva a Lorenzo de’ Medici, che fu duca d’Urbino. Non tacerò che il putto dorato, il quale era ragazzo d’un fornaio, per lo disagio che patì per guadagnare dieci scudi, poco appresso si morì. La canzone che si cantava da quella mascherata, secondo che si costuma, fu composizione del detto Iacopo Nardi, e la prima stanza diceva così:
Colui che dà le leggi alla natura, e i varii stati, e secoli dispone, d’ogni bene è cagione: e il mal, quanto permette, al mondo dura: onde questa figura, contemplando, si vede come con certo piede l’un secol dopo l’altro al mondo viene e muta il bene in male, e il male in bene.
Riportò dell’opere che fece in questa festa il Puntormo, oltre l’utile, tanta lode che forse pochi giovani della sua età n’ebbero mai altre tanta in quella città, onde, venendo poi esso papa Leone a Fiorenza, fu negl’apparati che si fecero molto adoperato, perciò che accompagnatosi con Baccio da Monte Lupo, scultore d’età, il quale fece un arco di legname in testa della via del Palagio dalle scalee di Badia, lo dipinse tutto di bellissime storie, le quali poi per la poca diligenza di chi n’ebbe cura, andarono male; solo ne rimase una nella qual Pallade accorda uno strumento in sulla lira d’Apollo, con bellissima grazia; dalla quale storia si può giudicare di quanta bontà e perfezzione fussero l’altre opere e figure. Avendo nel medesimo apparato avuto cura Ridolfo Ghirlandaio di acconciare e d’abbellire la sala del papa, che è congiunta al convento di Santa Maria Novella ed è antica residenza de’ pontefici in quella città, stretto dal tempo, fu forzato a servirsi in alcune cose dell’altrui opera, per che, avendo l’altre stanze tutte adornate, diede cura a Iacopo Puntormo di fare nella cappella, dove aveva ogni mattina a udir messa Sua Santità, alcune pitture in fresco. Laonde, mettendo mano Iacopo all’opera vi fece un Dio Padre con molti putti et una Veronica che nel sudario aveva l’effigie di Gesù Cristo, la quale opera da Iacopo fatta in tanta strettezza di tempo, gli fu molto lodata. Dipinse poi dietro all’Arcivescovo di Fiorenza, nella chiesa di San Ruffello, in una cappella, in fresco la Nostra Donna col Figliuolo in braccio in mezzo a San Michelagnolo e Santa Lucia e due altri Santi inginocchioni, e nel mezzo tondo della cappella un Dio Padre con alcuni Serafini intorno. Essendogli poi, secondo che aveva molto disiderato, stato allogato da maestro Iacopo frate de’ Servi a dipignere una parte del cortile de’ Servi, per esserne andato Andrea del Sarto in Francia e lasciato l’opere di quel cortile imperfette, si mise con molto studio a fare i cartoni, ma perciò che era male agiato di roba e gli bisognava, mentre studiava per acquistarsi onore, aver da vivere, fece sopra la porta dello spedale delle donne, dietro la chiesa dello spedal de’ preti, fra la piazza di San Marco e via di San Gallo, dirimpetto a punto al muro delle suore di Santa Caterina da Siena, due figure di chiaro scuro bellissime: cioè Cristo in forma di pellegrino che aspetta alcune donne ospiti per alloggiarle, la quale opera fu meritamente molto in que’ tempi et è ancora oggi dagl’uomini intendenti lodata. In questo medesimo tempo dipinse alcuni quadri e storiette a olio per i maestri di Zecca, nel carro della moneta che va ogni anno per S. Giovanni a processione; l’opera del qual carro fu di mano di Marco del Tasso. Et in sul poggio di Fiesole sopra la porta della Compagnia della Cecilia una Santa Cecilia colorita in fresco con alcune rose in mano, tanto belle, e tanto bene in quel luogo accomodata, che per quanto ell’è, delle buone opere che si possano vedere in fresco. Queste opere avendo veduto il già detto maestro Iacopo frate de’ Servi et acceso maggiormente nel suo disiderio, pensò di fargli finire a ogni modo l’opera del detto cortile de’ Servi, pensando che a concorrenza degl’altri maestri che vi avevano lavorato, dovesse fare in quello che restava a dipignersi qualche cosa straordinariamente bella. Iacopo, dunque, messovi mano, fece non meno per disiderio di gloria e d’onore, che di guadagno, la storia della visitazione della Madonna con maniera un poco più ariosa e desta che insino allora non era stato suo solito, la qual cosa accrebbe, oltre all’altre infinite bellezze, bontà all’opera infinitamente, perciò che le donne, i putti, i giovani et i vecchi sono fatti in fresco tanto morbidamente e con tanta unione di colorito, che è cosa maravigliosa; onde le carni d’un putto che siede in su certe scalee, anzi pur quelle insiememente di tutte l’altre figure, son tali, che non si possono in fresco far meglio né con più dolcezza, perché quest’opera, appresso l’altre che Iacopo avea fatto, diede certezza a gl’artefici della sua perfezzione, paragonandole con quelle d’Andrea del Sarto e del Francia Bigio. Diede Iacopo finita quest’opera l’anno 1516 e n’ebbe per pagamento scudi sedici e non più. Essendogli poi allogata da Francesco Pucci, se ben mi ricorda, la tavola d’una cappella che egli avea fatto fare in San Michele Bisdomini della via de’ Servi, condusse Iacopo quell’opera con tanta bella maniera e con un colorito sì vivo, che par quasi impossibile a crederlo. In questa tavola la Nostra Donna che siede porge il putto Gesù a San Giuseppo, il quale ha una testa che ride con tanta vivacità e prontezza, che è uno stupore; è bellissimo similmente un putto fatto per San Giovanni Battista e due altri fanciulli nudi che tengono un padiglione; vi si vede ancora un San Giovanni Evangelista, bellissimo vecchio, et un San Francesco inginocchioni che è vivo, però che intrecciate le dita delle mani l’una con l’altra e stando intentissimo a contemplare con gl’occhi e con la mente fissi la Vergine et il figliuolo, par che spiri. Né è men bello il S. Iacopo che a canto agli altri si vede, onde non è maraviglia se questa è la più bella tavola che mai facesse questo rarissimo pittore. Io credeva che dopo quest’opera e non prima avesse fatto il medesimo a Bartolomeo Lanfredini, lung’Arno fra il ponte Santa Trinita e la Carraia, dentro a un andito sopra una porta, due bellissimi e graziosissimi putti in fresco che sostengono un’arme; ma poi che il Bronzino, il quale si può credere che di queste cose sappia il vero, afferma che furono delle prime cose che Iacopo facesse, si dee credere che così sia indubitatamente e lodarne molto maggiormente il Puntormo, poiché son tanto belli, che non si possono paragonare, e furono delle prime cose che facesse. Ma seguitando l’ordine della storia, dopo le dette fece Iacopo agl’uomini di Puntormo una tavola, che fu posta in Sant’Agnolo lor chiesa principale alla capella della Madonna, nella quale sono un S. Michelagnolo et un San Giovanni Evangelista. In questo tempo l’uno di due giovani che stavano con Iacopo, cioè Giovanmaria Pichi dal Borgo a San Sepolcro, che si portava assai bene et il quale fu poi frate de’ Servi, e nel Borgo e nella pieve a Santo Stefano fece alcune opere, dipinse, stando dico ancora con Iacopo, per mandarlo al Borgo, in un quadro grande un San Quintino ignudo e martirizzato, ma perché disiderava Iacopo, come amorevole di quel suo discepolo, che egli acquistasse onore e lode, si mise a ritoccarlo, e così non sapendone levare le mani e ritoccando oggi la testa, domani le braccia, l’altro il torso, il ritoccamento fu tale, che si può quasi dire che sia tutto di sua mano; onde non è maraviglia se è bellissimo questo quadro che è oggi al Borgo nella chiesa de’ frati osservanti di San Francesco. L’altro dei due, Giovanni, il quale fu Giovan Antonio Lappoli aretino, di cui si è in altro luogo favellato, avendo come vano ritratto se stesso nello specchio, mentre anch’egli ancora si stava con Iacopo, parendo al maestro che quel ritratto poco somigliasse, vi mise mano e lo ritrasse egli stesso tanto bene, che par vivissimo; il quale ritratto è oggi in Arezzo in casa gl’eredi di detto Giovan Antonio. Il Puntormo similmente ritrasse in uno stesso quadro due suoi amicissimi: l’uno fu il genero di Becuccio Bichieraio, et un altro, del quale parimente non so il nome; basta, che i ritratti son di mano del Puntormo. Dopo fece a Bartolomeo Ginori, per dopo la morte di lui, una filza di drapelloni, secondo che usano i fiorentini, et in tutti dalla parte di sopra fece una Nostra Donna col Figliuolo nel taffetà bianco, e di sotto nella balzana di colorito fece l’arme di quella famiglia secondo che usa. Nel mezzo della filza, che è di ventiquattro drapelloni, ne fece due, tutti di taffetà bianco senza balzana, nei quali fece due San Bartolomei alti due braccia l’uno, la quale grandezza di tutti questi drappelloni e quasi nuova maniera, fece parere meschini e poveri tutti gl’altri stati fatti insino allora; e fu cagione che si cominciarono a fare della grandezza che si fanno oggi, leggiadra molto e di manco spesa d’oro. In testa all’orto e vigna de’ frati di S. Gallo, fuor della porta che si chiama dal detto Santo, fece in una cappella, che era a dirittura dell’entrata nel mezzo, un Cristo morto, una Nostra Donna che piagneva e duo putti in aria, uno de’ quali teneva il calice della Passione in mano e l’altro sosteneva la testa del Cristo cadente. Dalle bande erano da un lato San Giovanni Evangelista lacrimoso e con le braccia aperte e dall’altro Santo Agostino in abito episcopale, il quale apoggiatosi con la man manca al pastorale, si stava in atto veramente mesto e contemplante la morte del Salvatore. Fece anco a Messer... Spina, familiare di Giovanni Salviati, in un suo cortile dirimpetto alla porta principale di casa, l’arme di esso Giovanni stato fatto di que’ giorni cardinale da papa Leone, col cappello rosso sopra e con due putti ritti, che per cosa in fresco sono bellissimi e molto stimati da Messer Filippo Spina, per esser di mano del Puntormo. Lavorò anco Iacopo nell’ornamento di legname che già fu magnificamente fatto, come si è detto altra volta, in alcune stanze di Pierfrancesco Borgherini, a concorrenza d’altri maestri, et in particulare vi dipinse di sua mano in due cassoni alcune storie de’ fatti di Ioseffo in figure piccole, veramente bellissime. Ma chi vuol veder quanto egli facesse di meglio nella sua vita, per considerare l’ingegno e la virtù di Iacopo nella vivacità delle teste, nel compartimento delle figure, nella varietà dell’attitudini e nella bellezza dell’invenzione, guardi in questa camera del Borgherini, gentiluomo di Firenze, all’entrare della porta nel canto a man manca, un’istoria assai grande pur di figure piccole, nella quale è quando Iosef in Egitto, quasi re e principe, riceve Iacob suo padre con tutti i suoi fratelli e figliuoli di esso Iacob con amorevolezze incredibili; fra le quali figure ritrasse a’ piedi della storia a sedere sopra certe scale Bronzino, allora fanciullo e suo discepolo, con una sporta, che è una figura viva e bella a maraviglia. E se questa storia fusse nella sua grandezza (come è piccola) o in tavola grande o in muro, io ardirei di dire che non fusse possibile vedere altra pittura fatta con tanta grazia, perfezzione e bontà, con quanta fu questa condotta da Iacopo, onde meritamente è stimata da tutti gl’artefici la più bella pittura che il Puntormo facesse mai. Né è maraviglia che il Borgherino la tenesse quanto faceva in pregio, né che fusse ricerco da grand’uomini di venderla per donarla a grandissimi signori e principi. Per l’assedio di Firenze, essendosi Pierfrancesco ritirato a Lucca, Giovanbattista della Palla, il quale disiderava con altre cose che conduceva in Francia d’aver gl’ornamenti di questa camera e che si presentassero al re Francesco a nome della Signoria, ebbe tanti favori e tanto seppe fare e dire, che il gonfalonieri et i signori diedero commessione si togliesse e si pagasse alla moglie di Pierfrancesco. Per che, andando con Giovambattista alcuni ad essequire in ciò la volontà de’ signori, arivati a casa di Pierfrancesco, la moglie di lui che era in casa, disse a Giovambattista la maggior villania che mai fusse detta ad altro uomo: "Adunque", diss’ella, "vuoi essere ardito tu Giovambattista, vilissimo rigattiere, mercatantuzzo di quattro danari, di sconficcare gl’ornamenti delle camere de’ gentiluomini e questa città delle sue più ricche et onorevoli cose spogliare, come tu hai fatto e fai tuttavia, per abbellirne le contrade straniere et i nimici nostri? Io di te non mi maraviglio, uomo plebeo e nimico della tua patria, ma dei magistrati di questa città, che ti comportano queste scelerità abominevoli. Questo letto, che tu vai cercando per lo tuo particolare interesse et ingordigia di danari, come che tu vada il tuo malanimo con finta pietà ricoprendo, è il letto delle mie nozze, per onor delle quali Salvi mio suocero fece tutto questo magnifico e regio apparato, il quale io riverisco per memoria di lui e per amore di mio marito, et il quale io intendo col proprio sangue e colla stessa vita difendere. Esci di questa casa con questi tuoi masnadieri, Giovambattista, e vadi a chi qua ti ha mandato comandando che queste cose si lievino dai luoghi loro, che io son quella che di qua entro non voglio che si muova alcuna cosa; e se essi, i quali credono a te uomo dappoco e vile, vogliono il re Francesco di Francia presentare, vadano e si gli mandino, spogliandone le proprie case, gl’ornamenti e letti delle camere loro; e se tu sei più tanto ardito che tu venghi per ciò a questa casa, quanto rispetto si debba dai tuoi pari avere alle case de’ gentiluomini, ti farò con tuo gravissimo danno conoscere". Queste parole adunque di madonna Margherita, moglie di Pierfrancesco Borgherini e figliuola di Ruberto Acciaiuoli nobilissimo e prudentissimo cittadino, donna nel vero valorosa e degna figliuola di tanto padre, col suo nobil ardire et ingegno fu cagione che ancor si serbano queste gioie nelle lor case. Giovanmaria Benintendi, avendo quasi ne’ medesimi tempi adorna una sua anticamera di molti quadri di mano di diversi valentuomini, si fece fare dopo l’opera del Borgherini, da Iacopo Puntormo, stimolato dal sentirlo infinitamente lodare, in un quadro l’adorazione de’ Magi che andarono a Cristo in Betelem. Nella quale opera, avendo Iacopo messo molto studio e diligenza, riuscì nelle teste et in tutte l’altre parti varia, bella e d’ogni lode dignissima. E dopo fece a Messer Goro da Pistoia, allora segretario de’ Medici, in un quadro la testa del Magnifico Cosimo vecchio de’ Medici dalle ginocchia in su, che è veramente lodevole, e questa è oggi nelle case di Messer Ottaviano de’ Medici nelle mani di Messer Alessandro suo figliuolo, giovane, oltre la nobiltà e chiarezza del sangue, di santissimi costumi, letterato e degno figliuolo del Magnifico Ottaviano e di madonna Francesca, figliuola di Iacopo Salviati e zia materna del signor duca Cosimo. Mediante quest’opera, e particolarmente questa testa di Cosimo, fatto il Puntormo amico di Messer Ottaviano, avendosi a dipignere al Poggio a Caiano la sala grande, gli furono date a dipignere le due teste, dove sono gl’occhi che danno lume - cioè le finestre - dalla volta infino al pavimento; per che Iacopo, disiderando più del solito farsi onore, sì per rispetto del luogo e sì per la concorrenza degl’altri pittori che vi lavoravano, si mise con tanta diligenza a studiare, che fu troppa; perciò che guastando e rifacendo oggi quello che avea fatto ieri, si travagliava di maniera il cervello, che era una compassione, ma tuttavia andava sempre facendo nuovi trovati con onor suo e bellezza dell’opera. Onde, avendo a fare un Vertunno con i suoi agricultori, fece un villano che siede con un pennato in mano, tanto bello e ben fatto, che è cosa rarissima, come anco sono certi putti che vi sono, oltre ogni credenza vivi e naturali. Dall’altra banda, facendo Pomona e Diana con altre dee, le aviluppò di panni forse troppo pienamente, nondimeno tutta l’opera è bella e molto lodata. Ma mentre che si lavorava quest’opera, venendo a morte Leone, così rimase questa imperfetta, come molte altre simili a Roma, a Firenze, a Loreto et in altri luoghi; anzi povero il mondo e senza il vero mecenate degl’uomini virtuosi. Tornato Iacopo a Firenze, fece in un quadro a sedere Santo Agostino vescovo che dà la benedizione, con due putti nudi che volano per aria molto belli, il qual quadro è nella piccola chiesa delle suore di San Clemente in via di San Gallo, sopra un altare. Diede similmente fine a un quadro d’una pietà con certi Angeli nudi, che fu molto bell’opera e carissima a certi mercanti Raugei, per i quali egli la fece. Ma sopra tutto vi era un bellissimo paese, tolto per la maggior parte da una stampa d’Alberto Duro. Fece similmente un quadro di Nostra Donna col Figliuolo in collo e con alcuni putti intorno, la quale è oggi in casa d’Alessandro Neroni, et un altro simile, cioè d’una Madonna, ma diversa dalla sopra detta e d’altra maniera, ne fece a certi spagnuoli, il quale quadro essendo a vendersi a un rigattiere di lì a molti anni lo fece il Bronzino comperare a Messer Bartolomeo Panciatichi. L’anno poi 1522 essendo in Firenze un poco di peste e però partendosi molti per fuggire quel morbo contagiosissimo e salvarsi, si porse occasione a Iacopo d’alontanarsi alquanto e fuggire la città; per che, avendo un priore della Certosa, luogo stato edificato dagl’Acciaiuoli fuor di Firenze tre miglia, a far fare alcune pitture a fresco ne’ canti d’un bellissimo e grandissimo chiostro che circonda un prato, gli fu messo per le mani Iacopo, per che, avendolo fatto ricercare et egli avendo molto volentieri in quel tempo accettata l’opera, se n’andò a Certosa menando seco il Bronzino solamente. E gustato quel modo di vivere, quella quiete, quel silenzio e quella solitudine (tutte cose secondo il genio e natura di Iacopo) pensò con quella occasione fare nelle cose dell’arti uno sforzo di studio e mostrare al mondo avere acquistato maggior perfezione e variata maniera da quelle cose che avea fatto prima. Et essendo non molto inanzi dell’Alemagna venuto a Firenze un gran numero di carte stampate e molto sottilmente state intagliate col bulino da Alberto Duro, eccellentissimo pittore tedesco e raro intagliatore di stampe in rame e legno, e fra l’altre molte storie grandi e piccole della Passione di Gesù Cristo, nelle quali era tutta quella perfezzione e bontà nell’intaglio di bulino, che è possibile far mai, per bellezza, varietà d’abiti et invenzione, pensò Iacopo, avendo a fare ne’ canti di que’ chiostri istorie della Passione del Salvatore, di servirsi dell’invenzioni sopra dette d’Alberto Duro, con ferma credenza d’avere non solo a sodisfare a se stesso, ma alla maggior parte degl’artefici di Firenze, i quali tutti a una voce, di comune giudizio e consenso, predicavano la bellezza di queste stampe e l’eccellenza d’Alberto. Messosi dunque Iacopo a imitare quella maniera, cercando dare alle figure sue, nell’aria delle teste, quella prontezza e varietà che avea dato loro Alberto, la prese tanto gagliardamente, che la vaghezza della sua prima maniera, la quale gli era stata data dalla natura tutta piena di dolcezza e di grazia, venne alterata da quel nuovo studio e fatica e cotanto offesa dall’accidente di quella tedesca, che non si conosce in tutte quest’opere, come che tutte sien belle, se non poco di quel buono e grazia che egli aveva insino allora dato a tutte le sue figure. Fece dunque all’entrare del chiostro in un canto Cristo nell’orto, fingendo l’oscurità della notte illuminata dal lume della luna tanto bene, che par quasi di giorno; e mentre Cristo ora, poco lontano si stanno dormendo Pietro, Iacopo e Giovanni, fatti di maniera tanto simile a quella del Duro, che è una maraviglia; non lungi è Giuda che conduce i giudei, di viso così strano anch’egli, sì come sono le cere di tutti que’ soldati fatti alla tedesca, con arie stravaganti, ch’elle muovono a compassione chi le mira della semplicità di quell’uomo che cercò con tanta pacienza e fatica di sapere quello che dagl’altri si fugge e si cerca di perdere per lasciar quella maniera che di bontà avanzata tutte l’altre e piaceva ad ognuno infinitamente. Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e’ fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abandonare? A lato a questa, nella quale è Cristo menato dai giudei inanzi a Pilato, dipinse nel Salvatore tutta quell’umiltà che veramente si può immaginare nella stessa innocenza tradita dagl’uomini malvagi, e nella moglie di Pilato la compassione e temenza che hanno di se stessi coloro che temono il giudizio divino; la qual donna, mentre raccomanda la causa di Cristo al marito, contempla lui nel volto con pietosa maraviglia. Intorno a Pilato sono alcuni soldati tanto propriamente nell’arie de’ volti e negl’abiti tedeschi, che chi non sapesse di cui mano fusse quell’opera, la crederebbe veramente fatta da oltramontani. Bene è vero che nel lontano di questa storia è un coppieri di Pilato, il quale scende certe scale con un bacino et un bocale in mano, portando da lavarsi le mani al padrone, è bellissimo e vivo, avendo in sé un certo che della vecchia maniera di Iacopo. Avendo a far poi in uno degl’altri cantoni la ressurrezione di Cristo, venne capriccio a Iacopo, come quello che non avendo fermezza nel cervello andava sempre nuove cose ghiribizzando, di mutar colorito, e così fece quell’opera d’un colorito in fresco tanto dolce e tanto buono, che se egli avesse con altra maniera che con quella medesima tedesca condotta quell’opera, ella sarebbe stata certamente bellissima, vedendosi nelle teste di que’ soldati, quasi morti e pieni di sonno in varie attitudini, tanta bontà, che non pare che sia possibile far meglio. Seguitando poi in uno degl’altri canti le storie della Passione, fece Cristo che va con la croce in spalla al monte Calvario e dietro a lui il popolo di Gierusalem che l’accompagna, et innanzi sono i due ladroni ignudi, in mezzo ai ministri della giustizia, che sono parte a piedi e parte a cavallo, con le scale, col titolo della croce, con martelli, chiodi, funi et altri sì fatti instrumenti; et al sommo, dietro a un monticello, è la Nostra Donna con le Marie che piangendo aspettano Cristo, il quale essendo in terra cascato nel mezzo della storia, ha intorno molti giudei che lo percuotono, mentre Veronica gli porge il sudario accompagnata da alcune femine vecchie e giovani, piangenti lo strazio che far veggiono del Salvatore. Questa storia, o fusse perché ne fusse avertito dagl’amici, o vero che pure una volta si accorgesse Iacopo, benché tardi, del danno che alla sua dolce maniera avea fatto lo studio della tedesca, riuscì molto migliore che l’altre fatte nel medesimo luogo. Conciò sia che certi giudei nudi et alcune teste di vecchi sono tanto ben condotte a fresco, che non si può far più; se bene nel tutto si vede sempre servata la detta maniera tedesca. Aveva dopo queste a seguitare negl’altri canti la crucifissione e deposizione di croce, ma lasciandole per allora con animo di farle in ultimo, fece al suo luogo Cristo deposto di croce, usando la medesima maniera, ma con molta unione di colori. Et in questa, oltre che la Madalena, la quale bacia i pie’ di Cristo, è bellissima, vi sono due vecchi fatti per Ioseffo da Baramazia e Nicodemo, che se bene sono della maniera tedesca, hanno le più bell’arie e teste di vecchi, con barbe piumose e colorite con dolcezza maravigliosa che si possano vedere. E perché, oltre all’essere Iacopo per ordinario lungo ne’ suoi lavori, gli piaceva quella solitudine della Certosa, egli spese in questi lavori parecchi anni, e poi che fu finita la peste et egli tornatosene a Firenze, non lasciò per questo di frequentare assai quel luogo et andare e venire continuamente dalla Certosa alla città. E così seguitando sodisfece in molte cose a que’ padri, e fra l’altre fece in chiesa, sopra una delle porte che entrano nelle capelle, in una figura dal mezzo in su, il ritratto d’un frate converso di quel monasterio, il quale allora era vivo et aveva centoventi anni, tanto bene e pulitamente fatta, con vivacità e prontezza, ch’ella merita che per lei sola si scusi il Puntormo della stranezza e nuova ghiribizzosa maniera che gli pose adosso quella solitudine e lo star lontano dal comerzio degl’uomini. Fece oltre ciò, per la camera del priore di quel luogo, in un quadro la Natività di Cristo, fingendo che Giuseppo nelle tenebre di quella notte faccia lume a Gesù Cristo con una lanterna, e questo per stare in sulle medesime invenzioni e capricci che gli mettevano in animo le stampe tedesche; né creda niuno che Iacopo sia da biasimare perché egli imitasse Alberto Duro nell’invenzioni, perciò che questo non è errore e l’hanno fatto e fanno continuamente molti pittori, ma perché egli tolse la maniera stietta tedesca in ogni cosa, ne’ panni, nell’aria delle teste e l’attitudini, il che doveva fuggire e servirsi solo dell’invenzioni, avendo egli interamente con grazia e bellezza la maniera moderna. Per la forestiera de’ medesimi padri fece in un gran quadro di tela colorita a olio, senza punto affaticare o sforzare la natura, Cristo a tavola con Cleofas e Luca grandi quanto il naturale, e perciò che in quest’opera seguitò il genio suo, ella riuscì veramente maravigliosa, avendo massimamente, fra coloro che servono a quella mensa, ritratto alcuni conversi di que’ frati, i quali ho conosciuto io, in modo che non possono essere né più vivi né più pronti di quel che sono. Bronzino intanto, cioè mentre il suo maestro faceva le sopra dette opere nella Certosa, seguitando animosamente i studi della pittura e tuttavia dal Puntormo, che era de’ suoi discepoli amorevole, inanimito, fece, senza aver mai più veduto colorire a olio, in sul muro sopra la porta del chiostro che va in chiesa, dentro sopra un arco, un S. Lorenzo ignudo in sulla grata, in modo bello, che si cominciò a vedere alcun segno di quell’eccellenza nella quale è poi venuto, come si dirà a suo luogo; la qual cosa a Iacopo, che già vedeva dove quell’ingegno doveva riuscire, piacque infinitamente. Non molto dopo, essendo tornato da Roma Lodovico di Gino Capponi, il quale aveva compero in Santa Felicita la cappella che già i Barbadori feciono fare a Filippo di ser Brunellesco, all’entrare in chiesa a man ritta, si risolvé di far dipignere tutta la volta e poi farvi una tavola con ricco ornamento. Onde, avendo ciò conferito con Messer Niccolò Vespucci cavaliere di Rodi, in quale era suo amicissimo, il cavaliere, come quelli che era amico anco di Iacopo e da vantaggio conosceva la virtù e valore di quel valentuomo, fece e disse tanto, che Lodovico allogò quell’opera al Puntormo. E così, fatta una turata che tenne chiusa quella cappella tre anni, mise mano all’opera. Nel cielo della volta fece un Dio Padre che ha intorno quattro Patriarchi molto belli, e nei quattro tondi degl’angoli fece i quattro Evangelisti, cioè tre ne fece di sua mano et uno il Bronzino tutto da sé. Né tacerò con questa occasione che non usò quasi mai il Puntormo di farsi aiutare ai suoi giovani, né lasciò che ponessero mano in su quello che egli di sua mano intendeva di lavorare; e quando pur voleva servirsi d’alcun di loro, massimamente perché imparassero, gli lasciava fare il tutto da sé, come qui fece fare a Bronzino. Nelle quali opere che in sin qui fece Iacopo in detta cappella, parve quasi che fusse tornato alla sua maniera di prima, ma non seguitò il medesimo nel fare la tavola, perciò che, pensando a nuove cose, la condusse senz’ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che a pena si conosce il lume dal mezzo et il mezzo da gli scuri. In questa tavola è un Cristo morto, deposto di croce, il quale è portato alla sepoltura; èvvi la Nostra Donna che si vien meno e l’altre Marie fatte con modo tanto diverso dalle prime, che si vede apertamente che quel cervello andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare, non si contentando e non si fermando in alcuno. Insomma il componimento di questa tavola è diverso affatto dalle figure delle volte e simile il colorito, et i quattro Evangelisti che sono nei tondi de’ peducci delle volte sono molto migliori e d’un’altra maniera. Nella facciata dove è la finestra sono due figure a fresco, cioè da un lato la Vergine, dall’altro l’Agnolo che l’anunzia, ma in modo l’una e l’altra stravolte, che si conosce, come ho detto, che la bizzarra stravaganza di quel cervello di niuna cosa si contentava già mai. E per potere in ciò fare a suo modo, acciò non gli fusse da niuno rotta la testa, non volle mai, mentre fece quest’opera, che neanche il padrone stesso la vedesse. Di maniera, che avendola fatta a suo modo, senza che niuno de’ suoi amici l’avesse potuto d’alcuna cosa avertire, ella fu finalmente con maraviglia di tutto Firenze scoperta e veduta. Al medesimo Lodovico fece un quadro di Nostra Donna per la sua camera della medesima maniera, e nella testa d’una Santa Maria Madalena ritrasse una figliuola di esso Lodovico, che era bellissima giovane. Vicino al monasterio di Boldrone, in sulla strada che va di lì a Castello et in sul canto d’un’altra che saglie al poggio e va a Cercina, cioè due miglia lontano da Fiorenza, fece in un tabernacolo a fresco un Crucifisso, la Nostra Donna che piange, San Giovanni Evangelista, Santo Agostino e San Giuliano, le qual tutte figure non essendo ancora sfogato quel capriccio e piacendogli la maniera tedesca, non sono gran fatto dissimili da quelle che fece alla Certosa. Il che fece ancora in una tavola che dipinse alle monache di Santa Anna, alla porta a S. Friano, nella qual tavola è la Nostra Donna col Putto in collo e Sant’Anna dietro, San Piero e San Benedetto con altri Santi, e nella predella è una storietta di figure piccole, che rappresentano la signoria di Firenze quando andava a processione con trombetti, pifferi, mazzieri, comandatori e tavolaccini e col rimanente della famiglia. E questo fece però che la detta tavola gli fu fatta fare dal capitano e famiglia di palazzo. Mentre che Iacopo faceva quest’opera, essendo stati mandati in Firenze da papa Clemente Settimo, sotto la custodia del legato Silvio Passerini cardinale di Cortona, Alessandro et Ipolito de’ Medici, ambi giovinetti, il Magnifico Ottaviano, al quale il Papa gli aveva molto raccomandati, gli fece ritrarre amendue dal Puntormo, il quale lo servì benissimo e gli fece molto somigliare, come che non molto si partisse da quella sua maniera appresa dalla tedesca. In quel d’Ipolito ritrasse insieme un cane molto favorito di quel signore, chiamato Rodon, e lo fece così proprio e naturale che pare vivissimo; ritrasse similmente il vescovo Ardinghelli che poi fu cardinale, et a Filippo del Migliore suo amicissimo dipinse a fresco nella sua casa di via Larga, al riscontro della porta principale in una nicchia, una femina figurata per Pomona, nella quale parve che cominciasse a cercare di volere uscire in parte di quella sua maniera tedesca. Ora, vedendo per molte opere Giovambattista della Palla farsi ogni giorno più celebre il nome di Iacopo, poiché non gl’era riuscito mandare le pitture dal medesimo e da altri state fatte al Borgherini, al re Francesco, si risolvé, sapendo che il re n’aveva disiderio, di mandargli a ogni modo alcuna cosa di mano del Puntormo, per che si adoperò tanto, che finalmente gli fece fare in un bellissimo quadro la ressurezzione di Lazzaro, che riuscì una delle migliori opere che mai facesse e che mai fusse da costui mandata (fra infinite che ne mandò) al detto re Francesco di Francia. E oltre che le teste erano bellissime, la figura di Lazzaro, il quale ritornando in vita ripigliava i spiriti nella carne morta, non poteva essere più maravigliosa, avendo anco il fradiciccio intorno a gl’occhi e le carni morte affatto nell’estremità de’ piedi e delle mani là dove non era ancora lo spirito arrivato. In un quadro d’un braccio e mezzo fece alle donne dello spedale degl’Innocenti in uno numero infinito di figure piccole l’istoria degl’undicimila martiri stati da Diocleziano condennati alla morte e tutti fatti crucifiggere in un bosco, dentro al quale finse Iacopo una battaglia di cavalli e d’ignudi molto bella et alcuni putti bellissimi, che volando in aria aventano saette sopra i crucifissori. Similmente intorno all’imperadore che gli condanna sono alcuni ignudi che vanno alla morte bellissimi. Il qual quadro, che è in tutte le parti da lodare, è oggi tenuto in gran pregio da don Vincenzio Borghini, spedalingo di quel luogo e già amicissimo di Iacopo. Un altro quadro simile al sopra detto fece a Carlo Neroni, ma con la battaglia de’ martiri sola e l’Angelo che gli battezza, et appresso il ritratto di esso Carlo. Ritrasse similmente nel tempo dell’assedio di Fiorenza Francesco Guardi in abito di soldato, che fu opera bellissima, e nel coperchio poi di questo quadro dipinse Bronzino Pigmalione che fa orazione a Venere, perché la sua statua ricevendo lo spirito s’aviva e divenga (come fece secondo le favole di poeti) di carne e d’ossa. In questo tempo, dopo molte fatiche, venne fatto a Iacopo quello che egli aveva lungo tempo disiderato: perciò che avendo sempre avuto voglia d’avere una casa che fusse sua propria e non avere a stare a pigione, per potere abitare e vivere a suo modo, finalmente ne comperò una nella via della Colonna, dirimpetto alle monache di Santa Maria degl’Angeli. Finito l’assedio, ordinò papa Clemente a Messer Ottaviano de’ Medici che facesse finire la sala del Poggio a Caiano. Per che, essendo morto il Francia Bigio et Andrea del Sarto, ne fu data interamente la cura al Puntormo, il quale fatti fare i palchi e le turate, cominciò a fare i cartoni; ma perciò che se n’andava in ghiribizzi e considerazioni, non mise mai mano altrimenti all’opera. Il che non sarebbe forse avvenuto se fusse stato in paese il Bronzino, che allora lavorava all’imperiale luogo del duca d’Urbino vicino a Pesero; il quale Bronzino, se bene era ogni giorno mandato a chiamare da Iacopo, non però si poteva a sua posta partire, però che avendo fatto nel peduccio d’una volta all’imperiale un Cupido ignudo molto bello et i cartoni per gl’altri, ordinò il prencipe Guidobaldo, conosciuta la virtù di quel giovane, d’essere ritratto da lui. Ma perciò che voleva essere fatto con alcune arme che aspettava di Lombardia, il Bronzino fu forzato trattenersi più che non arebbe voluto con quel prencipe e dipignergli in quel mentre una cassa d’arpicordo, che molto piacque a quel prencipe; il ritratto del quale finalmente fece il Bronzino, che fu bellissimo e molto piacque a quel prencipe. Iacopo dunque scrisse tante volte e tanti mezzi adoperò, che finalmente fece tornare il Bronzino; ma non pertanto, non si poté mai indurre quest’uomo a fare di quest’opera altro che i cartoni, come che ne fusse dal Magnifico Ottavio e dal duca Alessandro sollecitato. In uno de’ quali cartoni, che sono oggi per la maggior parte in casa di Lodovico Capponi, è un Ercole che fa scoppiare Anteo, in un altro una Venere et Adone, et in una carta una storia d’ignudi che giuocano al calcio. In questo mezzo, avendo il signor Alfonso Davalo marchese del Guasto ottenuto, per mezzo di fra’ Niccolò della Magna, di Michelagnolo Buonarroti un cartone d’un Cristo che appare alla Madalena nell’orto, fece ogni opera d’avere il Puntormo, che glielo conducesse di pittura, avendogli detto il Buonarroto che niuno poteva meglio servirlo di costui. Avendo dunque condotta Iacopo questa opera a perfezzione, ella fu stimata pittura rara per la grandezza del disegno di Michelagnolo e per lo colorito di Iacopo, onde avendola veduta il signor Alessandro Vitelli, il quale era allora in Fiorenza capitano della guardia de’ soldati, si fece fare da Iacopo un quadro del medesimo cartone, il quale mandò e fé porre nelle sue case a Città di Castello. Veggendosi adunque quanta stima facesse Michelagnolo del Puntormo e con quanta diligenza esso Puntormo conducesse a perfezzione e ponesse ottimamente in pittura i disegni e cartoni di Michelagnolo, fece tanto Bartolomeo Bettini, che il Buonarruoti suo amicissimo gli fece un cartone d’una Venere ignuda con un Cupido che la bacia, per farla fare di pittura al Pontormo e metterla in mezzo a una sua camera, nelle lunette della quale aveva cominciato a fare dipignere dal Bronzino Dante, Petrarca e Boccaccio, con animo di farvi gl’altri poeti che hanno con versi e prose toscane cantato d’amore. Avendo dunque Iacopo avuto questo cartone, lo condusse, come si dirà, a suo agio a perfezzione in quella maniera che sa tutto il mondo senza che io lo lodi altrimenti. I quali disegni di Michelagnolo furono cagione che considerando il Puntormo la maniera di quello artefice nobilissimo, se gli destasse l’animo e si risolvesse per ogni modo a volere secondo il suo sapere imitarla e seguitarla. Et allora conobbe Iacopo quanto avesse mal fatto a lasciarsi uscir di mano l’opera del Poggio a Caiano, come che egli ne incolpasse in gran parte una sua lunga e molto fastidiosa infermità, et in ultimo la morte di papa Clemente, che ruppe al tutto quella pratica. Avendo Iacopo, dopo le già dette opere, ritratto di naturale in un quadro Amerigo Antinori, giovane allora molto favorito in Fiorenza, et essendo quel ritratto molto lodato da ognuno, il duca Alessandro avendo fatto intendere a Iacopo che voleva da lui essere ritratto in un quadro grande, Iacopo per più commodità lo ritrasse per allora in un quadretto grande quanto un foglio di carta mezzana con tanta diligenza e studio, che l’opere de’ miniatori non hanno che fare alcuna cosa con questa; perciò che, oltre al somigliare benissimo, è in quella testa tutto quello che si può disiderare in una rarissima pittura. Dal quale quadretto, che è oggi in guardaroba del duca Cosimo, ritrasse poi Iacopo il medesimo Duca in un quadro grande con uno stile in mano disegnando la testa d’una femina, il quale ritratto maggiore donò poi esso duca Alessandro alla signora Taddea Malespina sorella della marchesa di Massa. Per quest’opere disegnando il Duca di volere ad ogni modo riconoscere liberamente la virtù di Iacopo, gli fece dire da Niccolò da Montaguto suo servitore che dimandasse quello che voleva che sarebbe compiaciuto. Ma fu tanta, non so se io mi debba dire la pusillanimità o il troppo rispetto e modestia di quest’uomo, che non chiese se non tanti danari quanto gli bastassero a riscuotere una cappa che egl’aveva al presto impegnata. Il che avendo udito il Duca, non senza ridersi di quell’uomo così fatto, gli fece dare cinquanta scudi d’oro et offerire provisione, et anche durò fatica Niccolò a fare che gl’accettasse. Avendo in tanto finito Iacopo di dipignere la Venere dal cartone del Bettino, la quale riuscì cosa miracolosa, ella non fu data a esso Bettino per quel pregio che Iacopo gliela avea promessa, ma da certi furagrazie, per far male a Bettino, levata di mano a Iacopo quasi per forza e data al duca Alessandro, rendendo il suo cartone al Bettino. La qual cosa avendo intesa Michelagnolo n’ebbe dispiacere per amor dell’amico a cui avea fatto il cartone, e ne volle male a Iacopo, il quale se bene n’ebbe dal Duca cinquanta scudi, non però si può dire che facesse fraude al Bettino, avendo dato la Venere per comandamento di chi gl’era signore, ma di tutto dicono alcuni, che fu in gran parte cagione, per volerne troppo, l’istesso Bettino. Venuta dunque occasione al Puntormo, mediante questi danari, di mettere mano ad acconciare la sua casa, diede principio a murare, ma non fece cosa di molta importanza. Anzi, se bene alcuni affermano che egli aveva animo di spendervi secondo lo stato suo grossamente e fare una abitazione comoda e che avesse qualche disegno, si vede nondimeno che quello che fece, o venisse ciò dal non avere il modo da spendere o da altra cagione, ha più tosto cera di casamento da uomo fantastico e soletario che di ben considerata abitura: conciò sia che alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa. Ma quello che più in lui dispiaceva agl’uomini si era che non voleva lavorare se non quando et a chi gli piaceva, et a suo capriccio; onde essendo ricerco molte volte da gentiluomini che disideravano avere dell’opere sue, et una volta particolarmente dal Magnifico Ottaviano de’ Medici, non gli volle servire, e poi si sarebbe messo a fare ogni cosa per un uomo vile e plebeo e per vilissimo prezzo. Onde il Rossino muratore, persona assai ingegnosa secondo il suo mestiere, facendo il goffo, ebbe da lui per pagamento d’avergli mattonato alcune stanze e fatto altri muramenti, un bellissimo quadro di Nostra Donna, il quale facendo Iacopo, tanto sollecitava e lavorava in esso, quanto il muratore faceva nel murare. E seppe tanto ben fare il prelibato Rossino, che oltre il detto quadro cavò di mano a Iacopo un ritratto bellissimo di Giulio cardinal de’ Medici, tolto da uno di mano di Raffaello, e da vantaggio un quadretto d’un Crucifisso molto bello, il quale, se bene comperò il detto Magnifico Ottaviano dal Rossino muratore per cosa di mano di Iacopo, nondimeno si sa certo che egli è di mano di Bronzino, il quale lo fece tutto da per sé, mentre stava con Iacopo alla Certosa, ancor che rimanesse poi, non so perché, appresso al Puntormo. Le quali tutte tre pitture cavate dall’industria del muratore di mano a Iacopo sono oggi in casa Messer Alessandro de’ Medici figliuolo di detto Ottaviano. Ma ancor che questo procedere del Puntormo, e questo suo vivere soletario et a suo modo fusse poco lodato, non è però se chi che sia volesse scusarlo, che non si potesse. Conciò sia che di quell’opere che fece se gli deve avere obligo; e di quelle che non gli piacque di fare, non l’incolpare e biasimare. Già non è niuno artefice obligato a lavorare se non quando e per chi gli pare; e se egli ne pativa, suo danno. Quanto alla solitudine, io ho sempre udito dire ch’ell’è amicissima degli studi. Ma quando anco così non fusse, io non credo che si debba gran fatto biasimare chi senza offesa di Dio e del prossimo vive a suo modo, et abita e pratica secondo che meglio aggrada alla sua natura. Ma per tornare (lasciando queste cose da canto) all’opere di Iacopo, avendo il duca Alessandro fatto in qualche parte racconciare la villa di Careggi, stata già edificata da Cosimo Vecchio de’ Medici, lontana due miglia da Firenze, e condotto l’ornamento della fontana et il laberinto che girava nel mezzo d’uno cortile scoperto, in sul quale rispondono due logge, ordinò sua eccellenza che le dette logge si facessero dipignere da Iacopo, ma se gli desse compagnia acciò che le finisse più presto e la conversazione, tenendolo allegro, fusse cagione di farlo, senza tanto andare ghiribizzando e stillandosi il cervello, lavorare. Anzi il Duca stesso, mandato per Iacopo, lo pregò che volesse dar quell’opera quanto prima del tutto finita. Avendo dunque Iacopo chiamato il Bronzino, gli fece fare in cinque piedi della volta una figura per ciascuno, che furono la Fortuna, la Iustizia, la Vittoria, la Pace e la Fama. E nell’altro piede, che in tutto son sei, fece Iacopo di sua mano un amore. Dopo, fatto il disegno d’alcuni putti che andavano nell’ovato della volta, con diversi animali in mano che scortano al di sotto in su, gli fece tutti, da uno in fuori, colorire dal Bronzino, che si portò molto bene. E perché mentre Iacopo et il Bronzino facevano queste figure, fecero gl’ornamenti intorno Iacone, Pierfrancesco di Iacopo et altri, restò in poco tempo tutta finita quell’opera con molta sodisfazione del signor Duca, il quale voleva far dipignere l’altra loggia, ma non fu a tempo, perciò che essendosi fornito questo lavoro a dì 13 di dicembre 1536, alli sei di gennaio seguente fu quel signore illustrissimo ucciso dal suo parente Lorenzino, e così questa et altre opere rimasono senza la loro perfezzione. Essendo poi creato il signor duca Cosimo, passata felicemente la cosa di Monte Murlo e messosi mano all’opera di Castello, secondo che si è detto nella vita del Tribolo, sua eccellenza illustrissima per compiacere la signora donna Maria sua madre, ordinò che Iacopo dipignesse la prima loggia, che si truova entrando nel palazzo di Castello a man manca. Per che, messovi mano, primieramente disegnò tutti gl’ornamenti che v’andavano, e gli fece fare al Bronzino per la maggior parte et [a] coloro che avevano fatto quei di Careggi. Di poi rinchiusosi dentro da sé solo, andò facendo quell’opera a sua fantasia et a suo bell’agio, studiando con ogni diligenza, acciò ch’ella fusse molto migliore di quella di Careggi, la quale non avea lavorata tutta di sua mano, il che potea fare commodamente, avendo per ciò otto scudi il mese da sua eccellenza, la quale ritrasse così giovinetta come era nel principio di quel lavoro, e parimente la signora donna Maria sua madre. Finalmente essendo stata turata la detta loggia cinque anni, e non si potendo anco vedere quello che Iacopo avesse fatto, adiratasi la detta signora un giorno con esso lui, comandò che i palchi e la turata fusse gettata in terra. Ma Iacopo essendosi raccomandato et avendo ottenuto che si stesse anco alcuni giorni a scoprirla, la ritoccò prima dove gli parea che n’avesse di bisogno, e poi fatta fare una tela a suo modo, che tenesse quella loggia (quando que’ signori non v’erano) coperta, acciò l’aria, come avea fatto a Careggi, non si divorasse quelle pitture lavorate a olio in sulla calcina secca, la scoperse con grande aspettazione d’ognuno, pensandosi che Iacopo avesse in quell’opera avanzato se stesso e fatto alcuna cosa stupendissima. Ma gl’effetti non corrisposero interamente all’opinione. Perciò che, se bene sono in questa molte parti buone, tutta la proporzione delle figure pare molto difforme, e certi stravolgimenti et attitudini che vi sono pare che siano senza misura e molto strane. Ma Iacopo si scusava con dire che non avea mai ben volentieri lavorato in quel luogo, perciò che essendo fuor di città par molto sottoposto alle furie de’ soldati et ad altri simili accidenti. Ma non accadeva che egli temesse di questo, perché l’aria et il tempo (per essere lavorate nel modo che si è detto) le van consumando a poco a poco. Vi fece dunque nel mezzo della volta un Saturno col segno del Capricorno e Marte ermafrodito nel segno del Leone e della Vergine et alcuni putti in aria che volano come quei di Careggi. Vi fece poi in certe feminone grandi, e quasi tutte ignude, la Filosofia, l’Astrologia, la Geometria, la Musica, l’Aritmetica et una Cerere et alcune medaglie di storiette fatte con varie tinte di colori et apropriate alle figure. Ma con tutto che questo lavoro faticoso e stentato non molto sodisfacesse, e se pur assai, molto meno che non s’aspettava, mostrò sua eccellenza che gli piacesse e si servì di Iacopo in ogni occorrenza, essendo massimamente questo pittore in molta venerazione appresso i popoli, per le molto belle e buon’opere che avea fatto per lo passato. Avendo poi condotto il signor Duca in Fiorenza maestro Giovanni Rosso e maestro Niccolò fiamminghi, maestri eccellenti di panni d’arazzo, perché quell’arte si esercitasse et imparasse dai fiorentini, ordinò che si facessero panni d’oro e di seta per la sala del consiglio de’ Dugento, con spesa di sessantamila scudi, e che Iacopo e Bronzino facessero nei cartoni le storie di Ioseffo. Ma avendone fatte Iacopo due, in uno de’ quali è quando a Iacob è annunziata la morte di Ioseffo e mostratogli i panni sanguinosi e nell’altro il fuggire di Ioseffo, lasciando la veste, dalla moglie di Putifaro, non piacquero né al Duca, né a que’ maestri che gl’avevano a mettere in opera, parendo loro cosa strana e da non dover riuscire ne’ panni tessuti et in opera. E così Iacopo non seguitò di fare più cartoni altrimenti. Ma tornando a’ suoi soliti lavori, fece un quadro di Nostra Donna che fu dal Duca donato al signor Don... che lo portò in Ispagna. E perché sua eccellenza seguitando le vestigia de’ suoi maggiori ha sempre cercato di abellire et adornare la sua città, essendole ciò venuto in considerazione, si risolvé di fare dipignere tutta la capella maggiore del magnifico tempio di San Lorenzo, fatta già dal gran Cosimo Vecchio de’ Medici. Per che, datone il carico a Iacopo Puntormo, o di sua propria volontà o per mezzo (come si disse) di Messer Pierfrancesco Ricci maiorduomo, esso Iacopo fu molto lieto di quel favore, perciò che se bene la grandezza dell’opera essendo egli assai bene in là con gl’anni gli dava che pensare, e forse lo sgomentava, considerava dall’altro lato quanto avesse il campo largo nella grandezza di tant’opera di mostrare il valore e la virtù sua. Dicono alcuni che veggendo Iacopo essere stata allogata a sé quell’opera, nonostante che Francesco Salviati pittore di gran nome fusse in Firenze et avesse felicemente condotta e di pittura la sala di palazzo, dove già era l’udienza della Signoria, ebbe a dire, che mostrarebbe come si disegnava e dipigneva, e come si lavora in fresco, et oltre ciò, che gl’altri pittori non erano se non persone da dozzina et altre simili parole altiere e troppo insolenti. Ma perché io conobbi sempre Iacopo persona modesta e che parlava d’ognuno onoratamente et in quel modo che dee fare un costumato e virtuoso artefice, come egli era, credo che queste cose gli fussero aposte e che non mai si lasciasse uscir di bocca sì fatti vantamenti, che sono per lo più cose d’uomini vani e che troppo di sé presumono; con la qual maniera di persone non ha luogo la virtù né la buona creanza. E se io arei potuto tacere queste cose, non l’ho voluto fare; però che il procedere come ho fatto mi pare ufficio di fedele e verace scrittore. Basta che se bene questi ragionamenti andarono attorno, e massimamente fra gl’artefici nostri, porto nondimeno ferma opinione che fussero parole d’uomini maligni, essendo sempre stato Iacopo nelle sue azzioni, per quello che appariva, modesto e costumato. Avendo egli adunque con muri, assiti e tende turata quella capella e datosi tutto alla solitudine, la tenne per ispazio d’undici anni in modo serrata che da lui infuori mai non vi entrò anima vivente, né amici né nessuno. Bene è vero che disegnando alcuni giovinetti nella sagrestia di Michelagnolo, come fanno i giovani, salirono per le chiocciole di quella in sul tetto della chiesa e levati i tegoli e l’asse del rosone di quelli che vi sono dorati, videro ogni cosa. Di che accortosi Iacopo l’ebbe molto per male, ma non ne fece altra dimostrazione che di turare con più diligenza ogni cosa, se bene dicono alcuni che egli perseguitò molto que’ giovani, e cercò di fare loro poco piacere. Immaginandosi dunque in quest’opera di dovere avanzare tutti i pittori e forse, per quel che si disse, Michelagnolo, fece nella parte di sopra in più istorie la creazione di Adamo et Eva, il loro mangiare del pomo vietato e l’essere scacciati di Paradiso, il zappare la terra, il sacrifizio d’Abel, la morte di Caino, la benedizione del seme di Noè e quando egli disegna la pianta e misure dell’Arca. In una poi delle facciate di sotto, ciascuna delle quali è braccia quindici per ogni verso, fece la inondazione del Diluvio, nella quale sono una massa di corpi morti et affogati, e Noè che parla con Dio. Nell’altra faccia è dipinta la Ressurezione Universale de’ morti, che ha da essere nell’ultimo e novissimo giorno, con tanta e varia confusione, ch’ella non sarà maggiore da dovero per aventura, né così viva, per modo di dire, come l’ha dipinta il Pontormo. Dirimpetto all’altare fra le finestre, cioè nella faccia del mezzo, da ogni banda è una fila d’ignudi che presi per mano et aggrappatisi su per le gambe e busti l’uno dell’altro, si fanno scala per salire in Paradiso, uscendo di terra, dove sono molti morti che gl’accompagnano; e fanno fine da ogni banda due morti vestiti, eccetto le gambe e le braccia, con le quali tengono due torce accese. A sommo del mezzo della facciata, sopra le finestre fece nel mezzo in alto Cristo nella sua maestà, il quale circondato da molti Angeli tutti nudi fa resuscitare que’ morti per giudicare. Ma io non ho mai potuto intendere la dottrina di questa storia, se ben so che Iacopo aveva ingegno da sé e praticava con persone dotte e letterate, cioè quello volesse significare in quella parte dove è Cristo in alto, che risuscita i morti, e sotto i piedi ha Dio padre che crea Adamo et Eva. Oltre ciò in uno de’ canti dove sono i quattro Evangelisti nudi con libri in mano, non mi pare, anzi in niun luogo, osservato né ordine di storia, né misura, né tempo, né varietà di teste, non cangiamento di colori di carni, et insimma non alcuna regola, né proporzione, né alcun ordine di prospettiva: ma pieno ogni cosa d’ignudi, con un ordine, disegno, invenzione, componimento, colorito e pittura fatta a suo modo, con tanta malinconia e con tanto poco piacere di chi guarda quell’opera, ch’io mi risolvo, per non l’intendere ancor io, se ben son pittore, di lasciarne far giudizio a coloro che la vedranno; perciò che io crederei impazzarvi dentro et avvilupparmi, come mi pare, che in undici anni di tempo che egli ebbe, cercass’egli di avviluppare sé e chiunque vede questa pittura con quelle così fatte figure. E se bene si vede in questa opera qualche pezzo di torso che volta le spalle o il dinanzi et alcune apiccature di fianchi, fatte con maraviglioso studio e molta fatica da Iacopo, che quasi di tutte fece i modelli di terra tondi e finiti, il tutto nondimeno è fuori della maniera sua, e come pare quasi a ognuno, senza misura, essendo nella più parte i torsi grandi e le gambe e braccia piccole, per non dir nulla delle teste, nelle quali non si vede punto punto di quella bontà e grazia singolare che soleva dar loro con pienissima sodisfazione di chi mira l’altre sue pitture. Onde pare che in questa non abbia stimato se non certe parti, e dell’altre più importanti non abbia tenuto conto niuno. Et insomma, dove egli aveva pensato di trapassare in questa tutte le pitture dell’arte, non arrivò a gran pezzo alle cose sue proprie fatte ne’ tempi a dietro. Onde si vede che chi vuol strafare e quasi sforzare la natura, rovina il buono che da quella gli era stato largamente donato. Ma che si può o deve se non avergli compassione, essendo così gl’uomini delle nostre arti sottoposti all’errare come gl’altri? Et il buon Omero, come si dice, anch’egli tal volta s’adormenta. Né sarà mai che in tutte l’opere di Iacopo (sforzasse quanto volesse la natura) non sia del buono e del lodevole. E perché se morì poco avanti che al fine dell’opera, affermano alcuni che fu morto dal dolore, restando in ultimo malissimo sodisfatto di se stesso. Ma la verità che essendo vecchio e molto affaticato dal far ritratti, modelli di terra e lavorare tanto in fresco, diede in una idropisia che finalmente l’uccise d’anni 65. Furono dopo la costui morte trovati in casa sua molti disegni, cartoni e modelli di terra bellissimi, et un quadro di Nostra Donna stato da lui molto ben condotto, per quello che si vide, e con bella maniera molti anni inanzi, il quale fu venduto poi dagl’eredi suoi a Piero Salviati. Fu sepolto Iacopo nel primo chiostro della chiesa de’ frati de’ Servi, sotto la storia che egli già fece della Visitazione, e fu onoratamente accompagnato da tutti i pittori, scultori et architettori. Fu Iacopo molto parco e costumato uomo, e fu nel vivere e vestire suo più tosto misero che assegnato, e quasi sempre stette da sé solo, senza volere che alcuno lo servisse o gli cucinasse. Pure negl’ultimi anni tenne come per allevarselo Battista Naldini, giovane di buono spirito, il quale ebbe quel poco di cura della vita di Iacopo che egli stesso volle che se n’avesse, et il quale sotto la disciplina di lui fece non piccol frutto nel disegno, anzi tale che se ne spera ottima riuscita. Furono amici del Puntormo in particulare in questo ultimo della sua vita Pierfrancesco Vernacci, e don Vincenzio Borghini col quale si ricreava alcuna volta, ma di rado, mangiando con esso loro. Ma sopra ogni altro fu da lui sempre sommamente amato il Bronzino che amò lui parimente come grato e conoscente del benefizio da lui ricevuto. Ebbe il Puntormo di bellissimi tratti, e fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l’avere a incontrare morti. Non andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu oltre ogni credenza solitario. Alcuna volta, andando per lavorare, si mise così profondamente a pensare quello che volesse fare, che se ne partì senz’avere fatto altro in tutto quel giorno che stare in pensiero. E che questo gl’avvenisse infinite volte nell’opera di San Lorenzo, si può credere agevolmente, perciò che quando era risoluto, come pratico e valente, non istentava punto a far quello che voleva, o aveva deliberato di mettere in opera.
IL FINE DELLA VITA DI IACOPO DA PUNTORMO, PITTOR FIORENTINO