Leonardo prosatore/Appendice

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Appendice sulle allegorie vinciane

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Massime e pensieri Glossarietto
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APPENDICE

SULLE ALLEGORIE VINCIANE


Già da parecchio tempo gli studiosi di Leonardo da Vinci si sono interessati agli schizzi e alle note allegoriche sparsi ne’ suoi manoscritti, sia per trovarne la fonte letteraria, sia per darne l’esatta interpretazione, sia per indicarne con sicurezza lo scopo.

Le fonti principali delle allegorie tolte dal mondo delle bestie sono, com’è noto, il «Fiore di Virtù», l’«Acerba» e «Plinio»1 che restarono, per tutto il Quattro e il Cinquecento e più in là, le fonti tradizionali di tutte le imprese cavalleresche e amorose che allietavano armi, libri, veli, capitelli, vesti, porte, cassapanche e medaglie.

Chi apra i trattati del Giovio, del Simeoni, del Ruscelli ritrova molti e molti dei simboli raccolti da Leonardo, simboli di carattere generale, adattati bellamente a questo o a quel proposito.

Qui cade opportuno osservare la distinzione che i nostri antichi facevano tra emblema e impresa. Prima di tutto, [p. 348 modifica]tanto l’uno quanto l’altra potevano essere con parole o senza, ma il primo serviva «a dimostrazione di cosa universale» (pur potendo anche esprimere il sentimento particolare di chi lo faceva), la seconda, invece, doveva essere cosa tutt’affatto propria d’un solo. Le parole, nell’emblema, erano la pura spiegazione delle figure; mentre nell’impresa le figure dovevano dire una parte sola del simbolo e le parole l’altra. L’impresa alludeva anche a fatti d’interesse politico, se il personaggio che l’assumeva aveva parte nella vita pubblica, e poteva giustificare per mezzo dell’allegoria la sua condotta, spiegando i sentimenti e le intenzioni recondite che lo avevano guidato.2

Per le imprese s’usavano disegni semplici e, si direbbe ora, stilizzati, tratti per lo più dal regno delle bestie e delle piante: il Giovio considerò errore il mescolarvi figure umane.

Materia capricciosa e ribelle, questa, quando (come quasi sempre in Leonardo), non soccorrano sicuri dati di fatto, anche per l’instabilità dei simboli, che spesso allo stesso animale s’attribuiva una virtù e un vizio, e l’interpretazione resta perciò incerta.

Premesso questo, e premesso che un’impresa sola con figure conosciamo adottata da Ludovico il Moro: quella famosa del negro che con una scopetta ripulisce una matrona, l’Italia3, e una sola rappresentazione simbolica della sua condotta verso Giovan Galeazzo: la miniatura della storia di Francesco Sforza di Giovanni Simonetta, veniamo pure al simbolismo di Leonardo, in cui recentemente s’è voluto [p. 349 modifica] vedere una larghissima intenzione politica, tanto da rendere il sommo artista interprete, anzi giustificatore, della condotta del Moro verso l’inetto nipote.

«Coi simboli politici commentò i principali eventi nel Ducato di Milano dal 2 febbraio 1489), data dell’infelice matrimonio di Gian Galeazzo Sforza, alla discesa di Luigi XII.

Il Moro mise il Vinci accanto a Gian Galeazzo e a Isabella d’Aragona per servire ai disegni suoi ambiziosi di dominio»4.

Così da uno studioso molto addentro in cose vinciane, il compianto Solmi, fu affermato, e l’affermazione ha speciale importanza in quanto darebbe al Vinci una parte, e non piccola, negli intrighi politici della Corte milanese, Corte nella quale (s’è volentieri detto e ripetuto), il Vinci primeggiava per l’alto intelletto, la bellissima persona, la facile e suadente parola, il soave canto, l’elette maniere, ma in cui — viceversa — par sicuro ch’egli non abitasse affatto, e non fosse affatto (da quel che si può rilevare dalle scarse tracce che di lui troviamo nei documenti e nelle lettere di quel periodo), in troppa auge, anzi andasse confuso in mezzo alla turba degli ingegneri, degli architetti e degli artisti minori5.

Bernardo Bellincione, un poetucolo buffone e adulatore, poteva, sì, rivolgersi al Duca o al Moro, con insolente familiarità, ma un artista era, a quei giorni, tenuto ancora non molto più che un artigiano. Le attitudini molteplici di Leonardo furon certo sfruttate dal munifico signore, ma più che dell’artista, più che del fantasioso ordinatore di feste sfarzose, il Moro si giovò dell’ingegnere.

Del resto il Vinci, amante della solitudine per speculare a suo agio il dolcissimo vero, sprezzatore nel suo segreto [p. 350 modifica] della maggior parte degli uomini e delle vicende del mondo, s’interessava assai mediocremente — per non dire affatto — (e lo prova il silenzio eloquente de’ suoi manoscritti), alla torbida vita politica piena d’ipocrisie sottili e di violenze feroci che gli ferveva intorno; l’osservava da presso, certo acutamente, ma il suo spirito indagatore non vi s’indugiava, tutto assorto com’era nella calma contemplazione della natura e nelle sue visioni di verità e di bellezza6.

Un particolarissimo interesse hanno, dunque, i cenni o gli schizzi che lo possono mostrare — sia pure per ordine del suo signore — intento a immaginare allegorie politiche.

Incominciamo dalle poche note (per affreschi o per rappresentazioni teatrali?) che si riferiscono indubbiamente alla Corte milanese. Esse sono già state rilevate da tempo dagli studiosi.

«Il Moro — annota Leonardo — in figura di Ventura colli capelli e panni e mani innanzi. E messer Gualtieri (Gualtieri de’ Bottapetri, tesoriere ducale), con riverente atto lo pigli per li panni da basso, venendoli dalla parte dinanzi»7.

Qui più che d’un’allegoria — notiamo — si tratta d’una rappresentazione con qualche particolare simbolico, come nella miniatura già accennata della storia di F. Sforza; in essa Messer Gualtieri e il Moro sarebbero stati ritratti al naturale, a imperituro ricordo e glorificazione della munificenza del Principe.

Questa rappresentazione è ben distinta, e (curioso!) nessuno fin qui l’ha notato, da quest’altra che segue immediatamente nel manoscritto leonardesco: [p. 351 modifica]

«Ancora la Povertà in figura spaventevole corra dirieto a un giovanetto, el Moro lo copra col lembo della vesta e con la verga dorata minacci tale monstro».

Ed è distinta per una ben semplice ragione: se nella prima il Moro ha «e panni e mani innanzi» (solito atteggiamento della Fortuna che, spinta da un vento favorevole, sparge i beni), non può nello stesso tempo coprire «col lembo della vesta» il giovanetto, e minacciare con la verga dorata la Povertà: altrimenti avrebbe quattro mani!

Il tesoro di Gian Galeazzo e d’Isabella fu incettato da Lodovico; dunque, questa traccia leonardesca — fu concluso — rappresenta nel giovanetto fuggente il Duca stesso che lo zio salva dalle strette della povertà: Leonardo così giustificava la condotta del Moro.

Veramente, ecco, per un ingegno tanto sottile e complesso com’era anche nelle allegorie (e lo vedremo) l’ingegno di Leonardo, bisogna confessare che l’invenzione per un caso così delicato sarebbe abbastanza grossolana.

Il Moro, rappresentato qui neppur simbolicamente, ma in persona, avrebbe di necessaria conseguenza voluto che anche il Duca fosse ritratto al naturale: e allora, perchè Leonardo non lo nomina?

Del resto, chi nella Corte ducale non avrebbe riso in cuor suo vedendo Giovan Galeazzo fuggire dinanzi alla Povertà? e quando mai n’era stato minacciato?

Povero accorgimento anche da parte del Moro una rappresentazione solo in parte simbolica di tal fatta!

Bella maniera di giustificarsi!

È molto più naturale lasciare le cose come Leonardo stesso le ha scritte: lasciare il giovanetto anonimo, e vedere in questa seconda fantasia dell’artista semplicemente un’altra glorificazione della liberalità del Moro.

Con le due tracce ora esaminate non ha poi nulla a vedere questa terza, e non so proprio come il Solmi abbia potuto fare di tutte tre una sola:

«Erba colle radice insù. Per uno che fussi sul finire la roba o la grazia».

Che c’entra? Affatto! Leonardo notava tutto quel che [p. 352 modifica]gli poteva servire o che gl’interessava man mano che gliene veniva l’idea, senza ordine alcuno: si che spesso è avvenuto anche a valenti lettori d’unire quello che doveva essere separato.

Ecco un’altra traccia; ma questa allude sicuramente alle voci sinistre che correvano sul Moro: per l’usurpazione sempre meno mascherata del potere ai danni del nipote, o per la sua chiamata dei Francesi in Italia?

«Il Moro co’ gli occhiali e la Invidia colla falsa Infamia dipinta e la Giustizia nera pel Moro»8.

Ma è molto dubbio, almeno, se si debba farne una cosa sola con quest’altra:

«La Fatica con la vite in mano».

A ogni modo, non sarebbe mai da intendere la vite pianta, dando a essa il simbolo cantato dallo Zanella in Egoismo e Carità, e interpretando, come fa il Solmi: «il Moro lavora solo per il bene altrui», ma sarebbe da intendere la vite meccanica, che bene può essere attributo della Fatica.

Abbastanza sibillini sono quest’altri cenni in cui non so ricostruire nè il nesso d’idee che li dovrebbe legare, nè l’insieme d’una visione pittorica.

Il Solmi non esita a dirli una rappresentazione allegorica — bugiarda naturalmente — dell’imprigionamento di Filippo Eustachio e di Luigi Terzaghi (1489), fatto sotto colore di punire macchinazioni contro Gian Galeazzo, ma in realtà per togliergli amici:

«L’Ermellino col fango. Galeazzo fra tempo tranquillo. Effige di Fortuna. Lo strugolo colla pazienza fa nascere i figlioli. L’oro in verghe s’affinisce nel foco»9. Note sconnesse, [p. 353 modifica]forse disunite, certo oscure nel loro scopo ultimo. Cerchiamo di commentarle.

Scrive Leonardo: «L’Ermellino prima vol morire che ’mbrattarsi»10. E poi: «L’Ermellino, per la sua moderanza, non mangia se non una sola volta il dì, e prima si lascia pigliare a’ cacciatori che voler fuggire nella infangata tana11.

E questo Leonardo avrebbe scritto in onore di Lodovico? questo, mentre avrebbe dovuto dire che la malafama del Moro era dovuta alla calunnia, e non a vera colpa?

Al caso, molto meglio era parlare dello schizzo riprodotto dal Colvin, in cui l’Invidia cerca di colpire con uno strale ch’ha forma di lingua, la Virtù o Fama12; ovvero dell’altro riprodotto dal Colvin e dal Richter in cui l’Invidia (o Calunnia) a cavallo d’un mostro, insegue e prende la mira, mentre l’Ingratitudine seduta in groppa sceglie un’altra freccia dal turcasso: entrambe non s’accorgono che dietro loro sta la Morte, scheletro orrendo armato della clessidra e della falce13. Ci sarebbe qui — volendola trovare — anche una minaccia di morte contro i detrattori del Moro!

Il fatto è — invece — che le spiegazioni che il Vinci lasciò di questi schizzi e d’altri affini sono di carattere puramente morale.

Egli si è compiaciuto di complicare il simbolismo, con quella ricerca dell’inusitato, del sottile, del difficile che è predilezione d’ingegni italiani pure lucidi, sintetici e poderosi: si veda, per esempio, la minuta descrizione delle vesti e degli ornamenti simbolici d’un cavaliere, e delle Virtù che gli stanno intorno14, e più tutta la lunga spiegazione che accompagna lo schizzo d’un mostro binato, il Dolore e [p. 354 modifica] il Piacere15, o l’altra che illustra quello dell’Invidia che cavalca la Morte16.

Appare chiaro da quei passi (ch’io non cito per brevità), come la preoccupazione di Leonardo fosse tutta nel rendere il simbolo, per mezzo di attributi non comuni, il più compiuto che fosse possibile: le riflessioni che lo conducono a ciò sono riflessioni di moralista, e non contengono il più lontano accenno a fatti particolari, e molto meno a fatti politici.

Non so neppure trovare come, poi, si possa far simbolo «dell’abile politica del Moro che assicurava a Galeazzo e a Isabella la libertà minacciata da nemici esterni o interni»17, la figurina d’un cacciatore che, accompagnato da un cane, lancia il falcone per impadronirsi d’un uccello che vola libero ancora per poco. Lo schizzo è così dal Vinci stesso commentato «Corta libertà»18.

E molto meno so trovare come possa riferirsi alla condotta del Moro quest’altra allegoria:

«Il calderigio (cardellino) dà il tortomaglio (titimaglio, pianta della specie dell’euforbio, velenosa), ai figlioli in gabbia. Prima morte che perdere libertà»19.

Tralascio, per abbreviare, osservazioni più minute, tutte dello stesso genere, per parlare di alcuni disegni anepigrafi che hanno messo a dura prova la curiositá di parecchi.

Nella Royal Library di Windsor è conservato un bel disegno a sanguigna di Leonardo20. Una barca, solcando un mare parecchio mosso, ha lasciato ormai lontano una riva [p. 355 modifica] scogliosa e sta per approdare, in mezzo a forti ondate spumose, a una spiaggia piana su cui troneggia un mappamondo sormontato da un’aquila coronata, con l’ali spiegate, e circondata da raggi.

La barca ha la vela gonfia di vento propizio, e per albero maestro un vero albero frondoso, la cui ramificazione e forma di foglie fa pensare al gelso, l’impresa cara a Ludovico, perchè — dice il Giovio — «sapientissima omnium arborum, fiorisce stando per fuggire il gelo e le brine e fa frutto prestissimo, intendendo di dire che con la saviezza sua conosceva i tempi futuri, ma non conobbe già...»21.

Seduto a poppa sta un grosso peloso animale umanizzato nella movenza sì da rammentare lo scimmiotto. Tutto sommato, la bestia a cui s’avvicina di più è il lupo, ma non voglio nascondere che il muso è alquanto porcino.

Esso ha una zampa appoggiata su una specie di bussola-timone, e osserva attentamente, in atto di guidare la barca.

Un raggio intenso parte dal petto dell’aquila, attraversa la vela e l’albero, e cade sull’ago della bussola.

Il Berenson interpreta: l’aquila, l’Impero; il lupo, la Chiesa... e il resto, il più difficile, lascia, come fosse ovvio, alla facile fantasia del lettore.

Il disegno è riprodotto anche dal Braun, e il Müntz lesse sul globo la data 1516, data che lo assegnerebbe alla tarda vecchiezza di Leonardo.

Che in Francia, quando ormai il Moro era morto da ben otto anni, e già da sedici aveva perduto lo Stato, Leonardo pensasse a disegnare — come crede il Solmi — l’allegoria dello Stato milanese che, sorretto dal Moro (gelso), a sua volta guidato da cattivi consiglieri (lupo), va a frangersi contro la politica imperiale, mi par difficile ammettere, anche perchè la barca ha lasciato da un pezzo la riva ronchiosa, e ora sta per approdare, sia pure con un mare agitato, alla spiaggia piana.

Che questa allegoria fosse un omaggio alla memoria dello [p. 356 modifica] Sforza e un’adulazione verso casa di Francia mi pare, poi, ancor meno credibile.

Ma la presenza del gelso e dell’aquila certo autorizza a ricercare un significato politico. E quella benedetta data 1516 che sconcerta tutto!

Vero, però, che per quanto io (e altri con me) abbia osservato con cura il globo, non son riuscita a vedervi cifra alcuna, nè arabica, nè romana, nè in parola... sarà una cecità mia o un abbaglio del Müntz? Anche il Seidlitz pare non ci abbia visto nulla22.

Se il disegno potesse, dunque, come credo, attribuirsi a un ventennio prima (circa il 1495) certo le cose camminerebbero meglio. Poichè allora, infatti, Ludovico — sconcertato e impaurito dai Francesi — si volgeva a casa d’Austria per scacciarli dalla penisola, Leonardo era ancora alla Corte di Milano e poteva benissimo glorificare — attraverso i marosi degli avvenimenti — la saldezza dello Stato sostenuto dalla prudenza e avvedutezza (gelso) del Moro.

E anche il lupo che siede al governo della bussola (uno degli emblemi notati da Leonardo con la spiegazione «per ben dirigere)»23, e guida la barca secondo la direzione della luce dell’Impero, potrebbe essere il Moro stesso. Infatti nel ms. H. si legge: «Correzione. Quando il lupo va assentito intorno a qualche stallo di bestiame, e che per caso esso ponga il piede in fallo in modo facci strepido, egli si morde il pie, per correggere tale errore»24.

Lodovico aveva invitato (se non si vuol proprio dire [p. 357 modifica]chiamato), i Francesi in Italia; egli stesso lo confessava e se ne scusava presso i Veneziani: avvedutosi dello sbaglio, volgendosi all’Impero, da se stesso si correggeva.

Se poi, uscendo dalla interpretazione politica, si vuol trovarne una morale, non è difficile pescarne e più d’una. Per esempio: la barca e l’albero (antichissimi simboli), rappresentano la vita umana; il lupo l’avarizia, l’avidità che governa gli uomini, e che solo intende a conquistare la ricchezza, il dominio della terra (aquila). Allegorìa che si potrebbe confrontare bellamente con l’altra che rappresenta una gran confusione d’oggetti diversi cadenti dall’alto, sotto una pioggia torrenziale, e porta la nota: «o miseria umana, di quante cose per danari ti fai servo!» .

Conclusione ultima di questo lungo discorso: che non si può concluder niente con assoluta certezza.

Un altro disegno che il Colvin dalla fattura giudica appartenere al periodo fiorentino, o al primo tempo della dimora in Milano, è conservato a Oxford. Ne fu fatta una descrizione quasi esatta dal Colvin25, e una inesattissima dal Solmi,26 che perciò errò più grossamente del predecessore nell’interpretazione.

Non si può accontentarsi d’un press’a poco, in così sottile materia, ne trinciare giudizi troppo risoluti: quando la certezza non si può raggiungere bisogna esser cauti.

Tento una terza — e spero più accurata — descrizione dell’attraente disegno.

A sinistra di chi osserva, due figure stanno sedute. La prima è una donna (un visetto fiero), che regge con la sinistra uno spadone snudato, e con la destra presenta uno specchio allo compagna. Questa, che a prima vista pare una graziosa fanciulla, è invece un essere binato: ha due facce, una femminile e giovane, e una maschile e vecchia. Ed è questa seconda che si riflette nello specchio. Lo strano [p. 358 modifica]essere, che ha corpo femminile, sta seduto su un mobile un po’ difficile a classificarsi (una cesta da polli, fu detto), e si china con molto garbo appoggiandovi la mano destra. Pare osservi benevolmente una torma di bestie che han muso e forma di bracchi e coda a fiocco, volpina: un d’essi ha poste le zampe sulla cosidetta cesta e par che abbai contro l’uccellaccio (un gallo?) che, sopra la gabbia, con l’ali penzoloni, le penne rabbuffiate, il becco aperto, stride d’ira e di terrore contro di lui; un altro pare che addenti per la coda una grossa biscia ch’è dentro la gabbia e che si rivolta con la gola spalancata per punire l’incanto.

Dietro le bestie — quindi a destra di chi guarda — è abbozzato un uomo cornuto (un satiro?) che sta mezzo accucciato, e con il braccio destro teso in avanti par offrire qualcosa alla figura binata, o additare il cane che minaccia il gallo.

In alto, un’aquila, o un falcone, cala il suo largo volo sui bracchi, e più in lontananza — appena accennato, ma riconoscibile per l’ampiezza dell’ali — un altro rapace si dirige verso l’essere bifronte.

Il quale alza con qualche violenza il braccio destro che — a differenza del sinistro, femminile — ha muscolatura, polso e mano maschili, e stringe in pugno, a fascio, una serpe, un ramo, e qualcos’altro che non si capisce bene.

La figura, così, ha un doppio movimento conciliato nell’apparenza d’un solo: di grazia nel chinarsi del molle corpo femmineo, di violenza nell’alzarsi del braccio destro virile che par voglia colpire la torma bestiale.

In terra, presso il piede destro, vi sono alcuni uccelletti; il sinistro, tratto un po’ indietro, pare nasconda male un piatto (?) su cui stanno sparse alcune monete.

Quale l’allegoria di questo schizzo così complicato e così attraente nel suo mistero?

Il Colvin interpreta: le due figure di sinistra sono la Giustizia e la Prudenza di Ludovico: quest’ultima è rappresentata come solevano gli antichi artisti fiorentini. La Prudenza alletta i nemici dello Stato (cani) offrendo loro con la mano sinistra del cibo (che veramente non si vede), e nello [p. 359 modifica] stesso tempo li minaccia alzando col braccio maschile una sferza composta di vari emblemi viscontei-sforzeschi. Il gallo è Giovan Galeazzo; il satiro che aizza i cani (ma se veramente li aizzi è cosa molto dubbia per lo meno), è Cecco Simonetta, l’uccello di preda è l’Impero sempre pronto ad approfittare dei torbidi d’Italia, o lo stesso Ludovico, detto anche nei versi del Bellincione «gentil falcone». La colomba, legata con un laccio al fascio dei svapposti emblemi sforzeschi, è Bona di Savoia, che appunto per impresa prediligeva la colomba.

Questa colomba, disgraziatamente (s’è già visto), non c’è: il Colvin ha scambiato la linea della grande ala del rapace abbozzato in lontananza con un laccio che unisse l’uccello (visto così molto impiccolito nella sua caratteristica apertura d’ali), alla sferza simbolica. Quindi Bona, in balia del Moro, e scagliantesi — per vendicare il suo favorito offeso, il Tassino — contro il fedele Simonetta, sparisce.

E poi? E poi, si può con sicurezza credere che Leonardo giunto alla Corte quando la condanna del Simonetta era già fatto compiuto da qualche anno, e che valeva meglio, per il Moro, seppellire nell’oblio, fosse incaricato d’una simile allegoria?

Peggio della spiegazione del Colvin è la correzione del Solmi. Egli crede che Leonardo qui rappresenti la pretesa congiura ordita (1492) da Bona di Savoia (colomba) e da Bernardo da Cotignola (satiro), contro Galeazzo da Sanseverino e il Moro: «a sinistra la Verità — egli aggiunge — pone in fuga le calunnie con lo specchio riflettente la luce del sole». Cose inesattissime tutte sotto tutti i rapporti.

Credo che si potrebbero appiccicare alla misteriosa allegoria molte altre interpretazioni politiche giovandosi della storia tumultuosa di quegli anni27. Credo, anche, che [p. 360 modifica] altrettanto o più facilmente si potrebbe trovarne di morali, senza mai la certezza d’avere la chiave dell’allegoria.

Io m’accontenterò, per chi volesse divertircisi, di notare che la Prudenza, in un passo di Leonardo, è rappresentata coronata, con tre occhi e vestita di rosso28, che la Perseveranza è simboleggiata in uno schizzo da un’elsa di spada serrata in pugno29; che binati (con due teste, veramente, e quattro braccia su un solo corpo maschile), sono figurati la Voluttà e il Dolore, e che il Dolore reca nella sinistra un fascio di rami secchi, mentre il Piacere lascia cadere delle monete30.

Con questi particolari, non si potrebbe costruire un’interpretazione coi fiocchi? La scena potrebbe così simboleggiare la lotta tra la virtù e i vizi.

Un altro disegno conservato al British Museum, riprodotto dal Berenson31, e descritto con sufficiente esattezza dal Müller Walde32 che lo disse una raffigurazione del mondo che lacera se stesso, fu interpretato dal Solmi come un’allegoria politica: «la calunnia contro il Moro s’avanza, sotto forma di schiera d’animali notturni sospinti da un drago (casa d’Aragona), e da un liocorno (Gian Giacomo Trivulzio), verso una stretta gola formata da due catene rocciose, per penetrare nello Stato lombardo, ma la Verità, riflettendo la luce raggiante del sole, mette in fuga le notturne strige».

Una descrizione del disegno basterà a provare che il Solmi o ha visto male o ha travisato. È sfondo alla scena un muro rovinato qua e là, tra cui crescono ciuffi d’erba e cespugli, come spesso piaceva ai pittori del Quattrocento.

In alto, a sinistra, un sole... meduseo. Presso la spaccatura maggiore del muro sta seduta (volgendogli le spalle), una [p. 361 modifica]donna (un monaco, secondo il Müller Walde, ingannato forse dalla strana acconciatura della testa). Ella, con uno specchio in cui riflette l’imagine del sole, illumina una lotta d’animali ingaggiata ai suoi piedi. Questa lotta converge in un unico punto: un felino (forse un leone), è caduto sotto le zanne d’un drago alato che gli addenta un’orecchia. Ma a sua volta un lupo (?) azzanna il collo del drago. Entrambi, drago e lupo, (giova notarlo) voltano il dorso alle rovine.

A sinistra di chi esamina il disegno accorre un liocorno a soccorrere, pare, il caduto; e in lontananza, dalla stessa parte, sbuca dalle mura, correndo, un cinghiale.

A destra, in primo piano, volgendo il dorso a chi osserva, sta un altro felino, con la schiena inarcata, la coda ritta, e punta e soffia a muso basso contro il drago.

«Verità, sole», scrive Leonardo; e in certi medaglioni allegorici che sono presso a questa nota abbozza una donna alata che mostra uno specchio a un’altra figura allegorica33.

Nessun dubbio, quindi, che qui il sole rappresenti la Verità, e che la donna con lo specchio sia la Virtù o la Scienza. I raggi della Verità illuminano una lotta feroce, in cui Vincitore, ma a sua volta assalito, è un drago, e vittima un leone.

Verrebbe naturale di pensare a Carlo VIII vincitore del Re di Napoli, ma a sua volta assalito dagli Stati italiani con a capo Ludovico stesso (lupo), che primo di tutti iniziò una ferma reazione contro i Francesi. Nulla, però, ci autorizza seriamente a ritenere il drago simbolo della Francia, e il leone del Napoletano34.

Certo che il Moro, in quattro medaglie attribuite al Caradosso, volle celebrato il suo nuovo atteggiamento contro i Francesi, sotto il velo trasparente dell’allegoria35.

In quella dedicata al regno di Napoli un cavallo incoronato (Francia) s’impenna, e ha poste le zampe anteriori [p. 362 modifica]proprio sul petto d’un uomo (Napoletano), al cui soccorso accorre un altro uomo (il Moro), brandendo una mazza (o uno scettro?): come si vede questa scena simbolica non serve a lumeggiare lo schizzo vinciano, e così — purtroppo — è delle altre tre medaglie commemorative del trionfo sui Francesi.

Più tardi, nel 1509, troviamo in una medaglia36 e in una satira in versi latini elegiaci intitolata Venatio Leonum, Venezia rappresentata col simbolo del leone37. Ma è ben povera indicazione, come l’altra che un drago alato, e un drago cristato si trovano continuamente negli stemmi sforzeschi.

Può darsi, sì, che in queste lotte di belve il grande artista abbia voluto simboleggiare qualche avvenimento politico: il male è che non ce n’ha lasciata la chiave. E se, del resto, volessimo trovare interpretazioni di questo genere non solo per il disegno degli Uffizi, ma per tutti i combattimenti di mostri sparsi nei suoi manoscritti, avremmo da lavorare un bel po’ di fantasia.

Che molti degli appunti e dei piccoli schizzi di carattere morale potessero o dovessero servire ad adornare i soffitti, le pareti, gli stipiti o le cassapanche del Castello di Milano o di Pavia è grandemente probabile; ma che — sentenze, schizzi, disegni — fossero, almeno in bel numero, d’allusione politica non mi pare (concludendo) ancora provato, nè facile a provare. E quel poco che, dopo un esame accurato, ci autorizza a congetturare un’interpretazione politica, è maledettamente difficile, intricato, oscuro.

E per tutto questo mi par molto arrischiato fare di Leonardo quasi l’artista-complice del Moro, che — con le sue abili allegorie — avrebbe mascherato la condotta fraudolente del suo Signore, in faccia ai giovani Duchi e alla scettica Corte milanese.



  1. Cfr. G. Calvi, «Il ms. H. di Leonardo, il Fiore di Virtù e l’Acerba» in «Arch. Stor. Lomb.», 1898, p. 73 e sgg.
  2. Cfr. Le imprese illustri di J. Ruscelli. In Venezia, appresso F. de Franceschi, 1583, Cap. V, p. 12.
  3. Cfr. Dialogo dell’imprese militari et amorose di monsignor Giovio. In Vinegia, appresso G. Giolito, 1665, p. 24. Detta impresa è contenuta nell’albo Trivulziano Ms. 21618, ricca e fantastica raccolta d’imprese miste d’allegoria e d’araldica. Per l’araldica sforzesca nel castello di Milano, cfr. F. Malaguzzi Valeri, La Corte di Lodovico il Moro, Milano, Hoepli, 1913, I, p. 320, sgg.
  4. E. Solmi, La politica di Lodovico il Moro nei simboli di Leonardo da Vinci (1489-1499), in: «Scritti vari di erudizione e di critica in onore di R. Renier», Torino, Bocca, 1912. Già un accenno a questo studio è nel Leonardo edito dal Barbera, 1900, p. 71-72.
  5. Cfr. F. Malaguzzi Valeri, Op. cit., p. 586.
  6. «Che potrò io dire — prorompe una volta uscendo dal suo riserbo usuale — cosa più scellerata di quelli che levano le laide al cielo di quelli che con più ardore han nociuto alla patria e alla spezie umana?» Cod. Atl. 382 r. Egli pensava certo, così scrivendo, ai guerrieri e agli uomini politici, che la moltitudine feticcia inchina e glorifica.
  7. Manoscritto J., 138 v.
  8. Manoscritto H., 88 v. — Ch. Ravaisson-Mollien credè di trovare lo schizzo corrispondente a questo cenno nel disegno, molto confuso, della collezione Bonnat, riprodotto dal Berenson, pl. CXX; e ne diè comunicazione nel «Bull. de la Société nationale des antiquaires de France», 1894, p. 191-93.
  9. H., 98 r.
  10. Ib., 48 v.
  11. H., 12 r.
  12. S. Colvin, Drawings of the old masters in the University Galleries and in the Library of Christ Church Oxford, Oxford, at the Clarendon Press, 1907, I, 17.
  13. Id. ib. I, 19.
  14. Richter, p. 351-52.
  15. Id. ib. I, 19.
  16. Id. ib. I, 18. Vedila in questo volume a pag. 309-10.
  17. E. Solmi, op. cit.
  18. H., 63 v.
  19. Ibidem.
  20. Riprodotto in fac-simile dal Braun, Dessins de Léonard, Paris, s. d. l., tav. 17; e da B. Berenson, The drawings of the florentine painters, London, Murray, 1903, plate CXXII. Stampato anche dal Müntuz, Léonard, Paris, Hachette, 1899, p. 305.
  21. Op. cit., p. 24-25.
  22. W. von Seidlitz, nel suo lavoro: I disegni di Leonardo da Vinci a Windsor (Estratto dall’«Arte», anno XIX, fasc. IV), Roma, 1911, catalogando il disegno al n. 94, annota: «Secondo il Berenson l’allegoria si riferisce all’Impero e alla Chiesa, secondo il Müntz sulla sfera si trova la data 1516». Dal che si capisce che lascia a tutte e due la responsabilità delle loro affermazioni.
  23. Manoscritto H., 98 r.
  24. Manoscritto H., 7 v.
  25. Tra i disegni di Windsor n. 184. Ripr. dal Richter, pl. LXIV.
  26. Op. cit. I, p. 16.
  27. Non potrebbe per esempio, il «satiro» essere G. Giacomo Trivulzio, indarno minacciato dal Moro perchè lasciasse l’esercito francese?
  28. Cfr. Richter, p. 351-52.
  29. Id. ib., p. 358.
  30. Colvin, op. cit., I, 19.
  31. Op. cit., pl. CXX.
  32. Lebbnsskinze, ecc., p. 60. Stampato in quest’opera alla tav. 23 e nel Muntz a p. 317.
  33. Cfr. Richter, p. 336.
  34. Per Leonardo, come per i suoi contemporanei, si noti, il drago moralmente era il simbolo della prudenza, e il leone della fortezza.
  35. Vedi A. Armand, Les medailleurs italiens, etc., Paris, Plon, 1883, II, p. 54-55.
  36. G. F. Hill, Notes on italian medals, III, che riprende gli argomenti di C. Rosmini, Dell’istoria intorno alle militari imprese e alla vita di G. I. Trivulzio, Milano, 1815, p. 378-79.
  37. Segnalata dal Rosmini, op. loc. cit.