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Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari Eloquio di Dante Alighieri

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Alessandro Manzoni

1868 Indice:Opere varie (Manzoni).djvu Lettere letteratura Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari Eloquio di Dante Alighieri Intestazione 2 giugno 2008 75% Lettere


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LETTERA INTORNO AL LIBRO

DE VULGARI ELOQUIO

DI

DANTE ALIGHIERI



Carissimo Bonghi,

Dico a socera perchè nora intenda; cioè scrivo a voi in privato per giustificarmi del non aver fatta menzione del libro di Dante De Vulgari Eloquio, nella Relazione di cui anche voi avete accettata la responsabilità. Voi farete poi di questa lettera l’uso che vi suggerirà la vostra prudenza.

M’avete capito.

È indispensabile un pochino di preambolo.

Al libro De Vulgari Eloquio è toccata una sorte, non nova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d’esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno, quantunque libro di ben piccola mole, e quantunque importante, non solo per l’altissima fama del suo autore, ma perchè fu ed è citato come quello che sciolga un’imbarazzata e imbarazzante questione, stabilendo e dimostrando quale sia la lingua italiana.

Prima che ne fosse pubblicato il testo originale, che fu nel 1577, in Parigi, per cura di Jacopo Corbinelli, il Trissino l’aveva fatto conoscere con una sua traduzione, lavorata sopra un manoscritto e stampata in Vicenza per Tolomeo Janiculo, nel 1529. L’autorità di quel libro, sostenuta e combattuta fino da quel primo momento, e poi a vari e lunghi intervalli, fu rimessa in campo dal conte Giulio Perticari, nei due trattati: Degli scrittori del Trecento e de’ loro imitatori (1817), e Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno al Volgare Eloquio (1820).

Bolliva allora l’altra questione tra i romantici e i classicisti, che rammento qui di passaggio, e solamente per la somiglianza del caso. Una parte principale di quella questione era intorno alla poesia drammatica; e su questo punto il libro allegato da molti come autorità irrefragabile, era la Poetica d’Aristotele, piccola cosa anch’essa in quanto alla mole, e che non era letta anch’essa, oserei quasi dire, da nessuno, se non forse da quelli, contro i quali s’allegava.

Ora, per tornar subito al proposito, chi non dovrebbe credere che il libro del Perticari, il quale produsse un effetto che dura ancora, avesse eccitata nel pubblico una vivissima curiosità per quello di Dante, del quale era dato come l’interprete? Chi, essendo ignaro del fatto, non dovrebbe immaginarsi che un qualche editore, gente di buon naso, avesse profittato dell’occasione per ristampare a migliaia di copie il libro del [p. 610 modifica]Volgare Eloquio, di cui non esistevano che scarse e poco trovabili edizioni: la prima, tanto del testo, quanto della traduzione, rarissime, e non più ristampate, nè l’una, nè l’altra, fuorchè insieme con l’altre opere, sia del grande autore, sia del povero traduttore? Ma un’edizioncina da sè, sciolta e leggiera, da correre per le mani di molti, e che sarebbe venuta tanto a proposito, non ci fu chi pensasse, nè a darla, nè a richiederla; forse perchè i miei contemporanei di mezzo secolo fa non s’immaginavano che, per appoggiarsi all’autorità d’un libro, ci fosse bisogno di conoscerlo.

Al giorno d’oggi una tale avvertenza sarebbe superflua, e fuor di luogo. È bensì vero, che il libro De Vulgari Eloquio è citato ora, non meno d’allora, a ogni opportunità; e si può aggiungere (giacchè l’edizioncina non è ancora comparsa) che non è letto di più. Ma sarà probabilmente perchè le persone del giorno d’oggi suppongono che i loro padri e i loro nonni, da cui hanno la cosa per tradizione, l’abbiano letto loro. A ogni modo, l’opinione che Dante, nel libro De Vulgari Eloquio, abbia inteso di definire, e abbia definito quale sia la lingua italiana, è talmente radicata, che non si suppone generalmente che possa neppure esser messa in dubbio.

Ora, per giustificare la mia omissione, devo far di più e peggio, negare il fatto addirittura e dire che, riguardo alla questione della lingua italiana, quel libro è fuor de’ concerti, perchè in esso non si tratta di lingua italiana nè punto nè poco.

Ma qui, se voi, abusando del mio permesso, comunicaste questa lettera a più che alcune persone discrete e prudenti, avrò stuzzicato un vespaio; e già mi vedo a venire addosso più d’uno a richiedere delle prove, col tono di chi è persuaso che non se ne possa trovare.

Eccone una, rispondo. Dante era tanto lontano dal pensare a una lingua italiana nel comporre il libro in questione, che alla cosa proposta in quello, non dà mai il nome di lingua. La chiama «Il Volgare che in ogni città dà sentore di sè, e non s’annida in nessuna» Vulgare quod in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla. E poco dopo «l’illustre, cardinale, aulico, cortigiano volgare in Italia, che è d’ogni città italiana, e non par che sia di nessuna.» Illustre, cardinale, aulicum et curiale Vulgare in Latio, quod omnis latæ civitatis est, et nullius esse videtur1. Lingua, mai.

Ma qui, non che accettare questa come una prova, me la buttano in dietro come una meschina questione di parole, e mi dicono che, per chi bada alle cose, è oramai passato in giudicato che Dante, dicendo Volgare Illustre, non ha inteso, nè potuto intender altro che lingua comune all’Italia.

Allora vedete a che cimento m’avrà messo la poca vostra prudenza, allora sarò costretto a dire che, se Dante non diede al Volgare Illustre il nome di lingua, fu perchè, con le qualità che gli attribuisce, e con le condizioni che gl’impone, nessun uomo d’un bon senso ordinario, non che un uomo come lui, avrebbe voluto applicargli un tal nome.

Apriti cielo! pare una bestemmia contro Dante e contro l’Italia. Ma parola detta e sasso tirato non fu più suo. Onde, non volendo affrontare un lungo e aspro conflitto, non trovo altro ripiego se non di pregarli che mi permettano di far loro una sola e breve domanda. E con questa spererei di potere far dire la cosa da loro medesimi.

Dicano dunque se, per lingua, intendono una cosa che non deve ser[p. 611 modifica]vire che a trattare d’alcune materie determinate, e ad essere adoperata in un solo genere di componimenti.

Rispondono naturalmente di no, ma aggiungendo che non vedono cos’abbia a fare con la questione una tale domanda.

Aprano dunque il libro De Vulgari Eloquio al capitolo secondo del libro secondo, e troveranno, verso la metà, che «essendo questo Volgare Illustre l’ottimo tra i volgari; ne segue che le sole cose ottime siano degne d’esser trattate da esso.» Unde cum hoc quod dicimus Illustre sit optimum aliorum vulgarium, consequens est ut sola optima digna sint ipso tractari.

Passa poi subito a dichiarare quali siano quelle cose ottime; ed ecco in succinto la sua dottrina intorno a ciò.

L’uomo ha in certo modo tre vite (homo tripliciter spirituatus est): la vita vegetale, l’animale e la razionale; e ha quindi tre tendenze. Secondo la vita vegetale, cerca l’utile; secondo l’animale, il dilettevole; secondo la razionale, l’onesto. E siccome in ciascheduno di questi tre oggetti ci sono e delle cose più grandi, e delle grandissime; così queste ultime devono esser grandissimamente trattate, e per conseguenza nel grandissimo volgare. Le tre cose grandissime poi sono: nell’utile la salute; nel dilettevole la venere; nell’onesto la virtù. In ciascheduna poi di queste tre cose stesse, ce n’è una relativamente grandissima: cioè prima il valore nell’armi; nella seconda il più alto grado dell’amore; nella terza la rettitudine della volontà. E queste sono le materie da esser trattate col grandissimo volgare. Quare hoc trio, Salus videlicet, Venus, Virtus apparent esse illa magnalia, quæ sint maxime pertractanda, hoc est ea quæ maxima sunt ad ista, ut armorum probitas, amoris ascensio et directio voluntatis.

Se il sillogismo non è diventato una bugia; se quella che hanno accettata, e per forza, è una maggiore; se le parole citate ora formano la sua minore; anche gli oppositori hanno detto che, per Volgare Illustre, Dante non ha intesa una lingua.

Cos’ha inteso dunque? mi si domanda.

È un’altra questione, e alla quale non son tenuto di rispondere; perchè la mia tesi è puramente negativa, e credo d’averla dimostrata. Però, se il sostituire il fatto vero all’immaginato non è necessario a una dimostrazione di questo genere, può esser utile a render più compita la cognizione della cosa. E del rimanente, il libro in questione ce ne dà il mezzo tanto pronto, quanto sicuro. Perchè, subito dopo le parole citate in ultimo, vi leggiamo: «Delle quali tre cose troviamo aver poetato in volgare gli uomini illustri, cioè Bertrando de Born, le armi; Arnaldo Daniel, l’amore; Girardo de Borneil, la rettitudine; Cino da Pistoja, l’amore; il suo amico (Dante medesimo) la rettitudine.» E cita di ciascheduno il primo verso d’una canzone.

Qui, senza fermarci su quella mescolanza di tre trovatori perigordini con due poeti italiani, cosa che esclude l’intenzione di parlare d’una lingua speciale, troviamo anche un indizio della cosa, di cui Dante intende parlare, cioè del linguaggio della poesia, anzi d’un genere particolare di poesia.

E l’indizio è tutt’altro che vano, poichè immediatamente dopo, viene il terzo capitolo, in cui «si distinguono i modi del poetare in volgare,» e sono «canzoni, ballate, sonetti e diversi altri modi legittimi e irregolari, come si mostrerà in appresso.»

Si passa poi a dichiarare che, essendo la canzone l’eccellentissimo di que’ modi, si deve in essa usare l’eccellentissimo volgare. E di quella preminenza si assegnano più ragioni; perchè, quantunque ogni cosa scritta [p. 612 modifica]in versi sia canzone, pure a quella sola si dà per eccellenza un tal nome; perchè non ha bisogno d’aiuti estrinsechi, a differenza della ballata, che è bensì più nobile del sonetto, ma richiede l’accompagnamento della musica; perché apporta più onore a’ suoi autori, che la ballata; perchè è conservata più caramente che gli altri componimenti in versi, come consta a quelli che visitano i libri; perchè, finalmente, nelle sole canzoni si comprende l’arte intera. Ma, per non dilungarmi in altri particolari che non importano al mio argomento, mi restringo a dire che, in tutto il rimanente di quel libro secondo e ultimo di quelli che abbiamo, non si tratta d’altro che della canzone, fino e incluso l’ultimo capitolo, intitolato: «Della varietà de’ ritmi, e come devono essere disposti nella canzone.»

Ma se quel libro è l’ultimo per noi, non era tale per Dante, il quale si proponeva in vece di aggiungerne due altri a compimento dell’opera. Però, riguardo alla nostra questione, è come se ci fossero anche questi. E n’abbiamo il miglior mallevadore che si possa desiderare: Dante medesimo. «Omettiamo,» scrive egli nel quarto capitolo del libro secondo, «di parlare ora del modo delle ballate e de’ sonetti, perchè intendiamo dichiararlo nel quarto libro di quest’opera, dove tratteremo del Volgare Mediocre.» Più sotto poi, divide in tre i generi delle cose che possono esser cantate, canenda videntur; e sono Tragedia, Commedia, Elegia. Per la Tragedia, dice doversi prendere il Volgare Illustre, quello della canzone; per la Commedia, ora il mediocre, ora l’umile; e della distinzione di questi si riserva di parlare nel quarto libro; per l’Elegia l’umile.

Sicchè e in ciò che è venuto fino a noi; e in ciò che ci manca, tutto s’aggira intorno a canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose da cantarsi; sempre poesia, niente altro che poesia.

E così l’aveva intesa Giovanni Boccaccio, più d’un secolo e mezzo prima che comparisse la traduzione del libro di Dante, e con essa l’interpretazione del Trissino. Ecco le parole del Boccaccio nella Vita di Dante, comparsa in stampa la prima volta in fronte all’edizione, ora rarissima, della Divina Commedia, pubblicata nel 1477 da Vindelin da Spira, insieme col commento attribuito a Benvenuto da Imola.

«Appresso, già vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De Vulgari Eloquentia, dove intendeva di dare dottrina a chi imprender la volesse, del dire in rima. E comechè per lo stesso libretto apparisca lui avere in animo in ciò comporre quattro libri; o che più non ne facesse, dalla morte soprappreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che due solamente.»

Il Trissino messe questo squarcio nel frontispizio della sua traduzione, come un argomento in favore della autenticità del libro; ma volendo mettere in mostra solamente ciò che faceva per lui, usò la magra furberia di lasciare indietro le parole «dove intendeva di dare dottrina a chi imprender la volesse, di dire in rima,» che avrebbero disturbato il suo disegno di tirare il libro di Dante alla questione della lingua, come fece nel suo dialogo «Il Castellano.» Ma, o Messer Gian Giorgio, se vedevate che quelle parole avrebbero potuto dar da pensare agli altri, perché non principiare dal pensarci voi? Quella era la vera furberia.

Se poi, tra gli oppositori, ce ne fossero alcuni (che non vorrei credere) ancora restii ad accettare le conseguenze del loro concedo maiorem, rivolgo a questi una seconda e ultima domanda. Credono che, tra le condizioni d’una lingua, ci sia quella, che i suoi vocaboli abbiano a esser composti d’un numero di sillabe, piuttosto che d’un altro? E, sentito rispondermi un no ancor più risoluto e più stupefatto del primo, cavo fuori, da quei capitoli del secondo libro, che avevo messi da parte, il settimo, dove Dante specifica i vocaboli convenienti al Volgare illustre. Principia [p. 613 modifica]dal distinguere i vocaboli in puerili, muliebri e virili (puerilia, muliebria, virilia); e questi in silvestri e in cittadini (silvestria et urbana); e de’ cittadini, altri pettinati e scorrenti, altri irsuti e ruvidi (qæedam hirsuta et reburra). Scartate quindi le specie di vocaboli che non convengono al Volgare Illustre, «rimangono solamente» dice «i pettinati e i cittadini irsuti, che sono nobilissimi e membri del Volgare Illustre.» Sola etenim pexa, hirsutaque urbana tibi restare videbis, quæ nobilissima sunt, et membra Vulgaris Illustris. Pettinati poi chiama i trisillabi, o vicinissimi alla trisibilità, con altre condizioni che non occorre di riferire. Pexa vocamus illa quæ trisyllaba, vel vicinissima trisyllabitati. Gl’irsuti li divide in necessari e ornativi: necessari, e da non potersi scansare, certi monosillabi, come si, vo, me, te, se, a, e, i, o, u; ornativi quelli che, misti ai pettinati, formano un costrutto di bella armonia.

Non vi par egli che ce ne sia più che abbastanza per far confessare anche ai più recalcitranti, che nel libro De Vulgari Eloquio non si tratta d’una lingua, nè italiana, nè altra qualunque? Vi dirò, ma questo, proprio in confidenza, che, maravigliato io medesimo d’un così pronto e intero successo, ebbi, un momento, il prurito di finire con un grido di trionfo. Ma riflettendo che tutto il talento e lo studio che c’è voluto, consiste nell’aver letto un libriccino di sessantuna pagina in piccol sesto, chè tante ne occupa il Trattato nell’edizione del Corbinelli, ho tirata indietro la mia spacconata.

«Come face le corna la lumaccia.» In verità, sarebbe stato un povero Veni, Vidi, Vici.

Finisco invece più sensatamente, col chiedervi scusa del disturbo che v’ho dato, e col pregarvi, anzi con l’intimarvi di continuare a voler bene, fin che c’è tempo, al vostro

Alessandro Manzoni.


Milano 1868.

Note

  1. De Vulgari Eloquio. Lib. I, cap. XVI.