Lettere (Sarpi)/Vol. I/20

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XX. — Ad Antonio Foscarini

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XX. — Ad Antonio Foscarini
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XX. — Ad Antonio Foscarini.1


Sento molto piacere che V. E. abbia stretto amicizia con il signor presidente de Thou, essendo di realtà compitissimo gentiluomo, affezionato a tutti i buoni. Le sia di avviso che il papa parla al presente con tutte le amorevolezze immaginabili; non fa più menzione di cose acerbe: per il che gli amici che gli credono o mostrano di credergli, ritirano ogni cosa indietro, e forse persuaderebbero tutti, se non fosse che il nunzio non tiene lo stesso modo.

Ho inteso le feste fatte da V. E. nella nascita del duca d’Angiò, veramente regie, essendovi e denari sparsi e conviti pubblici. Il suo antecessore potè, essendo in Moretto, picciol luogo, far qualche cosa alla natività del duca d’Orliens; ma ella in Parigi ha superato ogni magnificenza.

Intorno alle cose del mondo, s’ebbe avviso che Matthias si trovava vicino a Praga quattro leghe, e che l’imperatore apparecchiava la sua partita, la quale disegnava che fosse verso la Sassonia; per dove era quasi risoluto, quantunque il nunzio apostolico gli avesse quasi che protestato che non andasse in luogo di protestanti, e fatto ufficio che andasse in Inspruch. Si sta aspettando l’esito di questa prima mossa. Intendo da persona versata e che (poco è) parte di là, che già sarebbe successo accordo se Matthias fosse assoluto: ma egli ha piuttosto in nome e in apparenza che in esistenza la [p. 61 modifica]sovranità; per il che le cose non si veggono accomodate. Stupisco che in un tanto moto i Gesuiti non si nominino. È egli possibile che tanto negozio possa procedere senza loro? In Venezia io veggo che sempre tardano più; sicchè mi vado quasi certificando di non doverli vedere mai più in questo Stato: e se per buona ventura occorresse loro alcuna cosa sinistra in Germania, ci libererebbono da ogni pensiero, perchè avrebbono assai che fare colà, nè resterebbe loro spazio a che pensare per qui. Non voglio restare di narrarle, per darle sollazzo, una bella storia.

Un gentiluomo, nostro amico, ha fatta qua comparire innanzi a certi devoti de’ Gesuiti una donna vedova, e fattole dar lettere direttive al padre preposito di Ferrara, e ricever risposte. Essa per due mesi ha tenuto questo commercio di lettere, sempre in materia toccante la coscienza. Prima, gli spiegò gli scrupoli che sentiva per non avere osservato l’interdetto; della qual cosa il confessore suo diceva non volerla assolvere. E qui il Gesuita ha risposto, che bisogna che il confessore fosse un luterano, e ch’ella dovesse onninamente mutar confessore. E le nominò diversi in diverse chiese (ed ecco le intelligenze che conservano); poi, passando innanzi, scrisse la donna che aveva mutato confessore e che ’l nuovo, tutt’al contrario, le aveva detto ch’era stato gravissimo peccato e quasi eresia l’essere andata a messa nel tempo dell’interdetto, e peggio che se avesse bestemmiato e rubato; e che al papa stava fare che quel che non è peccato sia peccato, e quello che è non sia; ch’è tanto a dire che ’l papa possa fallare, quanto possa fallar Cristo. Di queste [p. 62 modifica]cose ella era restata alquanto sospesa, parendole che fosse troppo. Rispose il buon padre, benedicendo Dio che l’avesse fatta riscontrar in confessor così pio; che tutto quello che le aveva detto era verissimo, e che stesse riposata nell’animo, e gli credesse, ch’egli la assicurava. Le lettere passarono tante, che ultimamente scrisse la donna che desiderava consiglio da lui nel testamento, quale disegnava fare: esponendogli che aveva duecentomila scudi di dote, ed alcuni nepoti con molti figli: che desiderava bene lasciar loro qualche parte; però, che voleva ancora aver riguardo all’anima sua, e lasciare a qualche luoghi pii: che avrebbe lasciato volentieri a loro; ma perchè, per essere banditi, non si poteva fare, voleva proseguire il suo consiglio nella elezione de’ luoghi a’ quali lascerà. Il buon padre ha risposto e mandato una formola di testamento, nella quale si distende la sua volontà; e quanto ai legati pii, la formola dice: «Lascio a madonna N. scudi quattromila, ch’ella ne faccia quello che le ho detto essere la mia volontà,» nominando nella lettera il nome della persona, e dicendo quella intendersi con esso loro di quello che dovrà fare.

Ora mo, che vogliam dire da questo successo? Non dobbiamo cavare certa conclusione, che tuttavia, sebbene esuli, pescano nelle nostre acque, e seminano ne’ nostri campi quella dottrina che per noi non può essere più perniziosa? Credo che cotesti signori rideranno intendendo questa istoria, ed io, che ho attediato V. E. pur troppo con tante dicerie, faccio fine.

Di Venezia, il 27 maggio 1608.




Note

  1. Edita tra le Lettere scelte ec., citate a pag. 48. (Capolago, 1847.)