Lettere (Sarpi)/Vol. I/31

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XXXI. — A Giacomo Leschassier

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XXXI. — A Giacomo Leschassier
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XXXI. — A Giacomo Leschassier.1


Non era per anche a mia notizia, Signor mio eccellentissimo, uno dei principali dritti della libertà del regno e della chiesa gallicana, chiaritomi dalla lettera di V.S. in data del dì 2 d’agosto. Avevo bensì notato che la bolla di Leone X, che ha il titolo di Concordato, è munita di un editto del re Francesco I, ed ero sorpreso perchè le si premettesse un editto regio, mentre tutta quella Costituzione verteva intorno ad una questione beneficiale. Avevo letto nelle Ricerche di Stefano Pasquier, ep. 3, c. 12, aver la curia del Parlamento protestato mediante un decreto, perchè coll’assoluzione gratuita e non cercata, conferita dal papa al re Enrico II nel breve apostolico della erezione della Università Remense, non s’intendesse che il re era soggetto o poteva essere alle censure ecclesiastiche; e non sapevo intendere per qual ragione la curia allora si commosse per una particola che tutto giorno vediamo nelle lettere apostoliche. Nell’istoria del signor Tuano, che ho tutta trascorsa, non ci ho trovato alcun sentore: ond’io non comprendeva la cosa. Così è: nel legger gli autori, prima conviene conoscere a quali avvertenze abbiamo a por mente; diversamente sfuggono dagli occhi. Ora V.S. eccellentissima m’ha tolto ogni dubbio. Il maggior capitolo della libertà di codesto regno si è, che niuna costituzione apostolica vi ottiene vigore se non è convalidata da un regio [p. 106 modifica]editto; ch’è quanto dire, senza ambagi, se non è comandata dallo stesso re.

Un tempo, in Italia era tollerabile la nostra condizione, quando le nuove costituzioni erano portate per tutte le città, ed ivi pubblicate e ricevute dove conveniva. Di qui il trovarsi nei nostri scrittori fatta menzione di Costituzioni accettate in alcuni luoghi e in altri no; e in taluni luoghi vige anc’oggi l’uso di non pubblicarle se non dopo che sono state esaminate. Così nel Regno napoletano tuttora si osserva, che non possa senza il regio permesso pubblicarsi o darsi esecuzione a nessuna bolla o breve od altro mandato. Ora, la curia romana ha dato fuori a’ nostri giorni una Costituzione, per la quale ha decretato che la sola pubblicazione avvenuta in Roma, debba essere sufficiente ad obbligar chicchessia. Laonde siamo oppressati da un ammasso di Costituzioni, nè solo da quelle che si trovano nei Bollar, ma spesso ne scappa fuori alcuna di cui innanzi non avevasi alcuna notizia e siamo costretti ad osservarla. Nè giova opporre l’abrogazione per consuetudine contraria, specialmente quando si tratta di censure: nè vale il dire che non si può andar contro alle leggi e alle antiche usanze delle città; perocchè i confessori negano l’assoluzione a chiunque non ubbidisca alle bolle apostoliche, senza ammettere le scuse colle quali alcuno asseverasse di non esservi tenuto. E questa sentenza, siccome articolo di fede, insegnano e scrupolosamente osservano; e quando si tratta delle Costituzioni antiche, basta loro che le trovino impresse in qualche libro, o che qualche scrittore ne abbia fatto ricordo. Circa alle nuove poi, stimano che sia anche troppo se qua [p. 107 modifica]o là se ne vedano esemplari, o la sola fama vada bisbigliando la emanazione della bolla, o in qualche modo sia a loro cognizione. Per la qual cosa, adesso è sparita affatto la distinzione delle Costituzioni ricevute dall’uso, e delle non ricevute, e delle abrogate dall’uso contrario; nè c’è speranza che a questo male possa applicarsi la medicina.

Quanto alle cause che si discutono fra i privati, se riesca di ottener dal pontefice alcuna disposizione che paia diminuire l’autorità del magistrato secolare, si ordina all’impetrante sotto le pene ec. di rinunciare a ciò che ha impetrato. Il quale uso in questa parte salva abbastanza la potestà secolare, a questo modo: vale a dire, che quando taluno è stato provveduto in materia beneficiale, presenta le sue bolle; vedute le quali, si scrive dal principe al magistrato dalla cui giurisdizione dipende il luogo dov’è posta la chiesa che colui ha ottenuto dal beatissimo padre, domandando la tal chiesa vacante per la morte di un tale. Per la qual cosa viene ordinato allo stesso magistrato di costituirlo in possesso; a condizione però che non espella veruno che in possesso se ne trovasse. Se niuno lo possiede, il provveduto entra in possesso; se alcuno se ne trovi possessore, il magistrato giudica fra quei due: e niun altro genere di cause possessorie è giudicato dai nostri magistrati. Senza dubbio, sì come V.S. ha in altre sue lettere pronunziato, si potrebbero aggiungere delle condizioni a queste patenti colle quali si concede il possesso, per le quali condizioni i beneficiari fossero obbligati a molte cose verso il principe; e così potrebbe restituirsi la disciplina. Ma questo convien farlo adagio adagio, e perchè i Romani sono sempre vigili non solo [p. 108 modifica]a tenerci in freno affinchè non usciamo dai limiti, ma ancora per usurparsi ogni giorno qualche cosa del nostro; e in secondo luogo, perchè è abitudine di questa Repubblica di astenersi dalle novità, comecchè necessarie.

Ho veduto il giuramento prestato al re dall’arcivescovo di Lione, e vi ho avvertito che vi si giura la debita fede in ragione della persona, delle città, de’ castelli, e in fine si aggiunge altri dominii. Io la prego a dirmi nella prima sua lettera, se con quel nome si comprendono anco i possessi ai quali non vada unita alcuna giurisdizione; perciocchè pochi de’ nostri vescovi hanno luoghi con giurisdizione.

Ho veduto tutti i libri che ha recati il signor Biondo, e mi trovo oltre di quelli un libretto stampato a Parigi (senza il nome dell’autore), il quale sommariamente contiene quasi tutti i privilegi della chiesa gallicana. Questo mi ha recato un grandissimo vantaggio. Tutti, però, i libri che trattano di questo argomento, trasandano molte cose che costì sono, come io credo, notissime per essere in uso; ma che a noi sono ignote. Per questo, intorno alle Costituzioni dei pontefici io ho appreso dalle lettere di V.S. più assai che dalla lettura di tutti i libri; e quindi ne so a Lei, eccellentissimo Signore, il maggior grado. Prego Dio che gliene renda, per siffatta premura, una copiosa mercede.

Stia sana.

Venezia, 2 settembre 1608.




Note

  1. Edita in latino, tra le Opere dell’autore, ediz. 1761, tom. VI, pag. 36.