Lettere (Sarpi)/Vol. I/Fra Paolo Sarpi/IV

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IV.

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Fra Paolo Sarpi - III Fra Paolo Sarpi - V
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IV.


L’ironia del Sarpi è piena di bonarietà e di naturalezza. Il frate veneziano, tremendo quanto il Wittimberghese, vela, al contrario modo di lui, sotto alla semplicità delle parole il suo odio profondo contro ai commettitori del male; non è punto agitato; per niente non si cura a far penetrare più addentro l’aculeo del suo sarcasmo; è sicuro di avere ottenuto l’intento, e dalla serenità della sua mente misura l’ironia che, come un giudice, infligge. Le ironie del Sarpi sono come una fedele testimonianza del vero, come l’ingenua impressione che i fatti han prodotto su la sua intelligenza; sono la spiegazione di una gran parte dei casi dell’umana [p. xiv modifica]commedia senza cui non si possono intendere, e provengono dall’avversione che egli ha di pigliar le metafore per cose reali e ingannar sè e altrui; ondechè intrecciano e fan corpo con la minuta narrazione dei fatti, e ne’ racconti. Fra Paolo non le mette del suo che assai di rado, e quando la verità n’è garantita dall’altre prove: ad esempio, quando parla nella Storia del Concilio del vescovo Arcimboldo, il quale, nell’assunzione della dignità e carico episcopale, non si era dimenticato di alcuna delle qualità di perfetto mercatante genovese. Le più volte riferisce le voci che corrono, e gli basta; come il pasquillo dello Spirito Santo mandato di Roma al Concilio in valigia. Trovo nella Lettera 54 riportato un bellissimo pasquillo per la morte di Bartolommeo Borghese, che si spacciava figliuolo del papa, e l’ebbe nelle mani la giustizia francese. Cur sacrilegorum pœnis iste periit? Quia filium Dei se fecit. Così poi nella Lettera 55 al signor De l’Isle Groslot, Fra Paolo s’indegna dell’iniqua giustizia eseguita in Parigi: «Credevano con la morte di un misero fermar un romore che con tutta la sua forza sarebbe però passato in poche persone, e l’hanno con quel mezzo fatto correr per tutto il mondo;» e beffa non so qual discorso stampato in quell’occasione per affermare la virginità del papa. L’amore alla verità e l’esattezza del giudicio fanno il Sarpi diligentissimo ricercatore di ogni minuta particolarità, e puoi veder nelle Lettere com’e’ non ristava finchè di ogni cosa non era informato a [p. xv modifica]puntino, massime in fatto di costumanze e di leggi; ed è del Sarpi questa profonda sentenza che la scuola storica de’ giurisperiti alza per insegna: «Niente è più autorevole della consuetudine; essa sola è legge. Il giure scritto è una larva, se a quella non si appoggi.1»

Fra Paolo ha chiaro intendimento delle leggi generali che governano e fanno prorompere a tempo e a luogo gli umani avvenimenti, perchè formano una catena e si ristringono in un processo dialettico; ma non dimentica per questo il valore degl’individui, come troppo spesso fanno gli storici moderni, dalla cui lezione si trae scarso insegnamento di prudenza civile. Dalla storia si denno ricavare la scienza che guarda il generale e la prudenza che pondera gli accidenti; il perchè l’uomo diventa non pur dotto ma sagace. Non sarà disutile ricavare il canone principale di filosofia storica professato da Fra Paolo: «Molte volte nascono occasioni sufficienti per produrre notabili effetti, e svaniscono per mancamento d’uomini che se ne sappiano valere» (quindi l’importanza degl’individui); «e, quello che più importa, è necessario che per effettuare alcuna cosa venga il tempo nel quale piaccia a Dio di correggere i mancamenti umani» (quindi il processo dialettico e il governo della Provvidenza, onde coincidono la storia e la teodicea). E parlando della morte di Lutero, considera «che le cose succedute [p. xvi modifica]dopo sino all’età nostra, hanno dichiarato che Martino fu uno dei mezzi, e che le cause furono altre più potenti e recondite.2» Per vedere quanta filosofia provi un siffatto pacato giudicio, ricordiamoci chi e qual uomo fosse Lutero, non paragonabile per avventura che con Maometto. Allah e la Grazia sono assai più che una speculazione dell’intelletto. Essi erano penetrati del sentimento d’Iddio onnipotente e dell’azione redentrice d’Iddio sull’uomo. La loro parola era potente come l’entusiasmo dell’animo loro. I seguaci e gli avversari erano addotti a credere che fossero rotte le leggi delle vicissitudini storiche da una volontà personale più forte di quelle, e da cui avesse inizio un fatto essenzialmente nuovo. Per trovare chi ne parlasse come il Sarpi, è d’uopo venire insino ai nostri giorni; e qual canone di prudenza politica e sociale ei ne traesse, vedremo tra poco. Lo studio del Sarpi nel narrare diligentemente i particolari e mettere a nudo le altrui malizie, non dee farlo giudicare maligno a chi ha fior di senno, ma a suo potere veridico ed esatto. Esso candidamente e crede e loda le buone qualità ove gli vien fatto trovarle; quando un altro solennissimo storico e narratore minuto di particolarità, il Guicciardino, non loda mai nessuno de’ principali personaggi dell’epoca per bontà d’animo o per eroica virtù di sacrifizio. La brutta e dolorosa dottrina di Elvezio, dice il [p. xvii modifica]Botta, in Guicciardini trova il suo fondamento.3 Laddove del Sarpi dice il doge Foscarini: Ei pare che la verità medesima parli per la sua bocca.4 Veggasi quel che l’uno e l’altro di codesti storici dicono di papa Leone X. Forse talvolta il Sarpi si è ingannato, e più spesso il Guicciardini; e per avventura si potrebbe sospettar anche di Tacito: ma non è per questo che si abbiano a giudicar per maligni; e chi non vuole la storia degli uomini, anzi il romanzo vuole, sì se l’abbia e tengasene contento, ma non sia poi scioccamente maligno contro a questi grandi che non hanno scritto leggendari per lui. E qui cade in acconcio di fare avvertenza ad un uso della curia romana, ridotto recentemente a principio dai Gesuiti, che non vogliono si dica male di coloro al cui grado si dee reverenza; e perciò la proibizione di leggere quasi tutti i nostri storici principali approvano. Veramente, niun’altra arte potrebbe mutar come questa gli uomini in pecore, se ancor si togliesse l’infamia della storia e il grido della coscienza universale. Di niun altro pregio tanto mi par commendevole Fra Paolo, quanto di non esser segno alcuno di officiale menzogna nei suoi scritti, tanto nelle opere messe a stampa quanto nelle lettere familiari, dove tocca più di una volta gli errori della sua Repubblica, e profferisce una sentenza che niun nimico di Venezia ha osato dir niente di più grave: «Tali sono i costumi del [p. xviii modifica]nostro paese, che coloro che si trovano nel grado dov’io ora mi trovo, non possono perder la grazia di chi governa senza perdere ancora la vita.5» Quindi è che l’uomo cautissimo non poteva per nulla patire la dottrina de’ Gesuiti intorno all’equivoco, ed esce in queste solenni parole: «Quello che i Gesuiti insegnano in proposito del regicidio, è, al mio parere, un perniciosissimo dogma, perchè ne viene il sovvertimento della cosa pubblica: ma l’insegnare ch’essi fanno, come sia lecito usare senza peccato gli equivoci di parole e la restrizione mentale, colla quale dottrina si distrugge ogni umana convivenza, e l’arte d’ingannare, di cui nulla v’ha più dannoso, si pareggia alla virtù; questa dottrina oso dire esser anco più perniciosa dell’altra che insegna ad uccidere i re.6» Fra Paolo professa la sobria e limpida schiettezza cristiana; e nel Trattato delle materie beneficiarie, nota diligentemente l’improprietà di alcuni titoli, come di Beatissimo o di Santo quando si usano non come titoli di bontà quali suonano, ma come titoli di grandezza; e al modo suo di mettere i frizzi a tempo, racconta come Anselmo lucchese, partigiano di Gregorio VII, disse non esser meno improprio ed empio il plurale del nome Deus, che quello del nome Papa. E cotali orgogliose vanità sa bellamente punzecchiare, le quali poi, rispetto al papato, riuscivano in una matta ed empia papolatria. E il nostro buon Frate domandava di un giovine di belle speranze: [p. xix modifica]«Ho molto desiderio di sapere la qualità del soggetto, ed in particolare se gli basta un Dio in cielo, oppure se lo vuole anche in terra.7» Fattostà che gli Italiani per interesse sconfinavano la potenza del papa, e l’interesse riusciva ad ipocrisia; e per l’abusar della religione a guadagno, eravamo puniti rimanendo, come notano Machiavello e Sarpi, senza religione nè con guadagno, sì con vergogna e con servitù.


Note

  1. Lettera CXXXVI.
  2. Storia del Concilio.
  3. Pref. alla Storia d’Italia.
  4. Lettera al Maffei.
  5. Lettera CXCIX.
  6. Lettera CLII.
  7. Lettera LXII.