Lettere al padre/1629/37

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Lettera 37

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1629 - 36 1629 - 38

A Bellosguardo

San Matteo, 8 luglio 1629.

Amatissimo Signor Padre.

L’incomodità ch’io ho patita dappoi che sono in questa casa, mediante la carestia di cella, so che V. S. in parte lo sa, ed ora io più chiaramente gliel’esplicherò, dicendole che una piccola celletta, la quale pagammo (conforme all’uso che abbiamo noi altre) alla nostra maestra trentasei scudi, sono due o tre anni, mi è convenuto, per necessità, cederla totalmente a Suor Arcangela, acciò (per quanto è possibile) ella stia separata dalla suddetta nostra maestra, che, travagliata fuor di modo dai soliti umori, dubito che con la continua conversazione gl’apporterebbe non poco detrimento; oltre che per essere Suor Arcangela di qualità molto diversa dalla mia e piuttosto stravagante, mi torna meglio il cedergli in molte cose per poter vivere in quella pace e unione che ricerca l’intenso amore che scambievolmente ci portiamo. Onde io mi ritrovo la notte con la travagliosa compagnia della maestra (se bene me la passo assai allegramente coll’aiuto del Signore, dal quale mi sono permessi questi travagli indubitamente per mio bene) e il giorno sono quasi peregrina, non avendo luogo ove ritirarmi un’ora a mia requisizione. Non desidero camera grande o molto bella, ma solo un poca di stanzuola, come appunto adesso me se ne porge l’occasione d’una piccolina, che una monaca vuol vendere per necessità di danari; e, mediante il buon uffizio fatto per me da Suor Luisa, mi preferisce a molte altre che cercano comperarla. Ma perché la valuta è di scudi 35, e io non ne ho altri che dieci, accomandatimi pur da Suor Luisa, e cinque n’aspetto della mia entrata, non posso impossessarmene, anzi dubito di perderla, se V. S. non mi sovviene colla quantità che me ne manca, che sono scudi 20.

Esplico a V. S. il bisogno con sicurtà filiale e senza cerimonie, per non offender quella amorevolezza da me tante volte esperimentata. Solo replicherò che questa è delle maggiori necessità, che mi possono avvenire in questo stato che mi ritrovo, e che, amandomi Ella come so che mi ama, e desiderando il mio contento, supponga che da questo me ne deriverà contento e gusto grandissimo, e pur anco lecito e onesto, non desiderando altro che un poco di quiete e solitudine. Potrebbe dirmi V. S. che per esser assai la somma che domando, io mi accomodi dei 30 scudi che tiene ancora il convento di suo: al che io rispondo (oltre che non è possibile averli in questo estremo, essendo in molta necessità la monaca venditrice) che V. S. promesse alla madre Badessa di non gli domandare se non veniva qualche occasione, mediante la quale il convento fossi sollevato e non astretto a sborsarli contanti; sì che non per questo penso che V. S. lascerà di farmi questa gran carità, la quale gl’adimando per l’amor di Dio, essendo ancor io nel numero dei poveri bisognosi posti in carcere, e non solo dico bisognosi, ma anco vergognosi, poiché alla sua presenza non ardirei di dire così apertamente il mio bisogno: né meno a Vincenzio; ma solo con questa mia a V. S. ricorro con ogni fiducia, sapendo che vorrà e potrà aiutarmi. E qui per fine mi raccomando con tutto l’affetto, sì come anco a Vincenzio e sua sposa. Il Signor Iddio la conservi lungamente felice.

figliuola Affezionatissima

S. M. Celeste.