Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/Prefazione
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PREFAZIONE
Da queste lettere in gran parte io tolsi argomento alle mie Note Leopardiane, accolte da autorevoli periodici letterari e da eminenti cultori degli studi sul Recanatese, con una benevolenza che superò di gran lunga le mie stesse speranze; il favore che onorò il mio modesto libretto m’indusse a pubblicare quasi per intero il carteggio, del quale io m’era valso, e che avrebbe potuto portar luce novella su molti fatti, fino ad ora o del tutto ignoti, o mal noti.2.
Ho pensato che sarebber validissimo aiuto per conoscere intimamente la famiglia del sommo poeta delle Ricordanze queste lettere, in cui Paolina Leopardi confida ogni suo segreto più intimo a colei, che fu certamente la prediletta fra le sue amiche, e che da lei fu tenuta in conto di sorella. Da queste lettere inoltre veramente emerge il carattere della buona Contessa, e in queste lettere troviam minutamente descritta la sua mesta istoria: le disillusioni continue che le amareggiarono la vita, e le poche dolcezze che di quando in quando gliela consolarono. L’amicizia della Leopardi con Marianna Brighenti, e la sorella di questa, Annetta, durò inalterata per quarant’anni, dal 1829 al 1869: le lettere delle Brighenti erano a Paolina uno dei pochi conforti nell’abborrito soggiorno di Recanati3. Versava nel cuore delle amiche le amarezze che le rendean così tristi i suoi giorni: faceva ad esse il racconto dei suoi amori.
Tutta la sua esistenza fu un continuo. desiderio d’amore. E, svanito ogni sogno, diceva vana la vita, salutava sola speranza la tomba, così come il sommo fratello, il quale, poichè aveva conosciute a sè interdette per sempre le gioie dell’amore, invocava, supremo bene, la morte.
«Ho bisogno d’amore, amore, amore!» scriveva Giacomo nel 1822 al fratello Carlo, e così Paolina alle Brighenti : «Io voglio ridere e piangere insieme, amare e disperarmi, ma amare sempre ed essere amata egualmente, salire al terzo cielo, poi precipitare». Esclamava la vita esserle morte continua ed atroce, poichè l’amore era fuggito per sempre da lei. Così Giacomo cantava dolorosamente nella Vita Solitaria:
Amore, amore, assai lungi volasti |
L’ideale dell’uomo che Paolina avrebbe voluto possedere, era infinitamente lontano dalla realtà, sicchè, a quella creazione vaga della sua fantasia innamorata, ella avrebbe potuto dire quello che Giacomo alla sua Donna:
Viva mirarti omai |
E, pur sprezzando la vita, infinitamente ella stimò la bellezza, così come Giacomo che diceva la bellezza onnipossente4.
Nessuno della famiglia Leopardi somigliò tanto a Giacomo, quanto Paolina; per questo principalmente il sommo poeta predilesse a tutti la sorella. Raramente due fratelli si somigliarono tanto, come quei due, così valorosi entrambi ed entrambi così infelici.
Paolina adorò le arti belle: sopra tutte la musica: la sua gran passione erano le opere del Bellini. Anche Giacomo, se non fu per la musica addirittura entusiasta in tutto il senso della parola, amò sinceramente quest’arte, come la grande sorella della poesia: nuova e solenne smentita all’asserto del Gauthier che raramente si trovi nei poeti l’amore per le musicali bellezze.
Paolina amava singolarmente lo strano e l’ignoto e uno de’ suoi desideri più fervidi era di viaggiare e vedere tutte le meraviglie della natura: le giacciaie della Svizzera, il cielo di Napoli, un’aurora boreale. Sconsolata di tutto, desiderava quello come il solo conforto alla sua mesta esistenza. Com’è bella la natura, ella diceva, ma com’è brutta la vita».
E Giacomo:
Alcuna |
Coltissima in tre letterature, nell’Italiana, nella Latina e nella Francese, era pur versata mediocremente nella filosofia. Era pessimista, come il fratello, specialmente in fatto d’amore. Aveva preso ad odiare acerbamente tutti gli uomini e compiangeva le amiche quando le dicevano d’essersi innamorate, come se le annunciassero allora la più terribile e la suprema delle sventure. Diceva essere il meglio vivere, liberi da ogni affetto, giorni squallidi, ma tranquilli, così come Giacomo diceva di sè nell’Aspasia:
..... sebben pieni |
In una cosa Paolina non somigliò a Giacomo: in certi pregiudizi di casta, i quali facevano strano contrasto con molte idee filosofiche e sociali ch’ebbe comuni col sommo fratello. Alle Brighenti, che le chiedevano conto d’un certo suonatore, Monaldo Fidanza, dubitando ch’ella lo avesse amato un tempo, Paolina rispondeva secco secco: «Sappi che da suo padre noi compriamo panno bleu le livree!6».
Assai diverse da quelle del poeta della canzone all’Italia furono pure le sue idee politiche. Aveva preso ad odiare i liberali, fino a dirli talvolta indegni dello stesso nome di uomini, e nei moti sfortunati, ma fecondi del 1848 ella non vedeva nulla più che un novello castigo divino.
Nè somigliò al fratello nella fede, fervidissima principalmente ne’suoi ultimi anni. Verità o errore, certo quella fede fu sola a consolarle i giorni amareggiati da tanti e così gravi dolori.
Gli ultimi dolori, e forse i più grandi della sua vita, glieli cagionarono gli scritti del suo Giacomo, in cui egli mostrava teorie religiose, tutte opposte alle sue; quegli scritti le strappavano dolorosamente le mistiche speranze di rivedere in un’altra vita il fratello, e le davano invece la certezza straziante di non aversi a ricongiunger mai più con quell’anima adorata.
Il fervore della sua fede religiosa giungeva a tale, da farle benedire alla impudente menzogna divulgata dal Padre Curci ed imprecare al Giordani, immemore del reverente affetto ch’ella gli aveva un tempo portato. Non pare più la stessa Paolina che un giorno pendeva dal labbro del sommo improvvisatore in prosa, e che non si stancava di ammirare e di amare quell’uomo, al quale doveva pur tanto il suo diletto fratello.
Grandi dolori le arrecavano ancora le accuse scagliate contro i genitori, proclamati colpevoli dell’infelicità del fratello. Ella pure aveva un giorno levato voci di protesta contro il governo domestico, che la costringeva ad una vita priva di ogni gioia, che le rendeva vani i suoi desideri più cari e più ardenti: e amare querele contro quel governo, contro la rigida severità materna e la debolezza del padre udremo nelle lettere ch’ella scrisse alle amiche. Più tardi, affranta dai dolori, spenta la primiera vivacità del carattere, tutta assorta in altre speranze più tranquille e non terrene, parve dimentica di tutto, e si levò a difendere quelli stessi che prima aveva accusati. Però negli anni giovanili vivamente e pur giustamente ella aveva protestato contro l’aspra schiavitù in cui era tenuta. Non le si permetteva di uscir mai di Recanati, tranne le poche volte in cui portavasi coi genitori a visitare la santa casa di Loreto. Le era interdetta ogni corrispondenza, anche con donne, e per iscrivere alle Brighenti doveva ricorrere all’inganno, facendosi complice il buon Sebastiano Sanchini, il quale riceveva le lettere dirette a lei e gliele consegnava poi di notte tempo nella biblioteca, quando tutti dormivano, con gran mistero, quasi si trattasse d’una congiura. Le Brighenti eran venute nel 1831 a Fermo, a poche miglia da Recanati, e Paolina, che pure avrebbe desiderato ardentemente di vedere una volta almeno le amiche, è costretta a scriver loro che, se anche fosser venute nel suo paese, nè alla chiesa, nè dalla finestra avrebbe potuto scambiare un solo sguardo con esse.
«Con una menomissima parte di quella libertà che godono tutti quelli che vivono, scriveva, io godrei almeno un momento dell’ineffabile giora che voi, o care, mi fareste provare; ma io non mi azzardo a dire il rigidissimo sistema d’osservazione in cui io sono tenuta, e che mi fa sicura di non dover trovare pace fuor che..... già comprendi dove». ùIl governo domestico ella non lo chiamava altrimenti, che schiavitù, catena orribile, che la costringeva a vivere senz’anima, senza pensiero. . I matrimoni offerti all’infelice fanciulla, erano mandati a monte l’un dopo l’altro, quasi sempre per questione di dote. E la rigidezza usata in questo con lei, non era diversa da quella che i vecchi Leopardi aveano usato con Carlo, quando sposò, contro l’avviso loro, quell’angiolo vero di bellezza e di bontà, che fu Paolina Mazzagalli. Ma la Mazzagalli, per quanto nobile, non era abbastanza ricca, e per sette anni, dal 1829 al 1836, le fu interdetto di por piede nella casa dei Leopardi. Ma per la povera Paolina tutto fu vano: il suo sogno di avere un giorno una casa propria, di sentirsi riamata da un uomo, a cui avrebbe voluto dare tutti i suoi pensieri e tutto il suo affetto, svanì, e ai genitori principalmente ella dovette l’infelicità della sua vita.
Però, anche quando ella levava quelle amare, ma giustissime proteste contro chi la rendeva infelice, non sospettò giammai, come talvolta aveva sospettato il fratello, del cuore paterno. Paolina amò il padre ardentemente in vita, e lo pianse, morto, con lagrime di dolor vero. E veramente Monaldo era in fondo d’animo buono, amò i suoi figli d’un affetto profondo; il suo peccato furono i molti pregiudizi strani, ai quali, con una cocciutagine piuttosto unica che rara, volle conformare ogni sua azione. Ebbe una fiducia eccessiva nella sicurezza el suo pensare: confessava, senza reticenze, egli stesso che gli pareva sragionasse chiunque non la pensava come lui. Con tutto ciò fu debolissimo verso la moglie, donna più di testa che di cuore e ossequente a massime stranamente rigorose di perfezione cristiana. I rapporti di lui coll’Antici sono mirabilmente descritti dalle parole di Paolina: « Si dette il caso, quand’io era piccina, piccina, anche forse quando non ero nemmeno nata, che la gonna di mia madre, s’intrecciò fra le gambe di mio padre, non so come. Ebbene, non è stato più possibile ch’egli abbia potuto distrigarsene. Se non era questo fatto, noi ་ ottenevamo tutto da Papà ch’è proprio buonissimo, di ottimo cuore, e ci vuole molto bene; ma gli manca il coraggio di affrontare il muso di mamà anche per una cosa lievissima, mentre ha quello di affrontare il nostro assai spesso, poichè, Marianna mia, non se ne può più affatto affatto.
Io vorrei che tu potessi stare un giorno solo in casa mia, per prendere un’idea del come si possa vivere senza vita, senz’anima senza corpo. Io conto di esser morta da lungo tempo, quando perdei ogni speranza, dopo aver sperato tanto tempo inutilmente, allora morii; ora mi pare di esser divenuta cadavere, e che mi rimanga solo l’anima, anch’essa mezzo morta, poichè priva di sensazioni di qualunque sorta».
Dei bisogni dell’età giovanile, e dei caratteri ardenti dei figli, Adelaide non riuscì mai a farsi un giusto concetto, e le parevano ingiuste le pretese de’ suoi figli, di togliersi qualche volta dalla monotonia della casa paterna e del borgo natale, di cercare anche fuori delle mura domestiche e l’affetto e l’amicizia, e di pascere le loro anime d’altre speranze e d’altre dolcezze che non fossero quelle della famiglia e della religione. Poi la famiglia ella non si curò di renderla cara ai suoi figli coll’amorevolezza, colla confidenza vicendevole; voleva comandare a bacchetta, e in casa sua richiedeva la regola d’un convento.
- «E pure, io non sono intesa, diceva dolorosamente Paolina, no non lo sono - ah si, hanno ragione, è vero! Io ho da mangiare quanto voglio, da dormire quanto voglio; posso lavorare e non lavorare, se mi piace: non sono innumerabili quelli che si chiamerebbero felicissimi se potessero fare questa mia vita? Dunque sono io che non mi contento mai, che ho dei desideri insaziabili (poichè il mangiare e il dormire non mi contenta), che formo l’infelicità mia, e l’altrui. È vero, io non me ne ero accorta! Se io potessi cambiare questa mia testa e questo mio cuore, con la più sciocca testa e il più freddo cuore che fosse al mondo, lo farei volentieri, e certo sarei allora più felice e più lieta».
Quello di Adelaide fu forse errore, più che di cuore, di principi, ma errore che la storia non può perdonarle, come non può perdonare a Monaldo la debolezza eccessiva con cui cedette sempre ai voleri di lei. Fu soverchia la severità con cui giudicarono. alcuni i genitori di Giacomo Leopardi: s’arrivò a far credere Monaldo una mente volgare, e Adelaide una madre priva affatto di cuore. Da questo però al dirli genitori in tutto meritevoli dell’affetto dei figli, ci corre, e, spassionatamente studiando i documenti che li riguardano, mi pare che non si possa formare di essi un così indulgente giudizio.
Non furono tiranni; ma non bastano a scusarli gli errori della loro casta e quelli del loro tempo. Genitori tali nessuno augurerebbe a chi ama, a chi vorrebbe che nella famiglia trovasse quelle dolcezze, che sono le più soavi e le più necessarie.
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Ed ora due parole intorno ai criteri seguiti nella scelta e nella stampa di queste lettere.
Le lettere della Leopardi alle Brighenti sono 164; ma io pubblicai soltanto quelle che avevano una vera importanza, o per la storia della sua famiglia o per l’intima conoscenza del carattere di lei. Per questo riguardo le lettere scritte negli ultimi anni sono di assai poco conto, essendo generalmente brevi biglietti in cui la buona Contessa non fa che dare in succinto alle amiche notizie della sua salute, e chiedere della loro. Talvolta le conforta nei dolori molti e gravi che le affliggono, e al conforto la buona Signora unisce di quando in quando un soccorso, fedele all’amicizia antica e affettuosissima che la legava ad esse. Ben poche di quelle ultime lettere io diedi alla luce, per non aumentare la copia delle pubblicazioni inutili; pubblicai invece quasi tutte quelle scritte dal 1830 al 1840, perchè quasi tutte, storicamente, importantissime.
Nella stampa m’attenni scrupolosamente agli autografi. Le date, quando non apparivano nelle lettere, le dedussi da ragionevoli congetture.
Io non so quale accoglienza avrà dal pubblico questo libro; mi riempirono il cuore di speranza le autorevoli parole che ne salutarono l’annuncio. A me basta, pubblicando questi nuovi documenti, la coscienza d’aver fatto opera modesta, ma utile agli studi leopardiani. Coll’odierna tendenza della storia letteraria, i documenti non sono mai troppi, per salvarci da errori o da giudizi troppo avventati.
Parma, nel Marzo del 1887.
Emilio Costa.
- ↑ Il carteggio di Paolina fu conservato dal Signor Canonico Mantovani di Gualtieri, a lui affidato da una lontana parente di Marianna Brighenti, certa Luisa Montavoce, alla quale eran toccate in eredità, insieme con poche masserizie, buona parte delle carte Brighentiane. Eccetto gli autografi di Paolina, che la povera donna ebbe la buona ispirazione d’affidare alle cure intelligenti del Mantovani, vendette le altre carte ad un tabaccaio, certo Pecorini, il quale le distrusse quasi tutte. - Fra quelle erano molti autografi del Giordani, del Leopardi, del Pepoli, del Rosini, del Cagnoli. Andaron sottratte alla strage, diciasette lettere del Giordani, ch’io pubblicai nello scorso anno in un volume, edito dal Battei, di lettere scelte del grande Piacentino, due di Monaldo Leopardi che pubblicai nelle mie Note Leopardiane, e la copia di mano dell’Avv. Brighenti di quasi tutte le lettere a lui dirette da Giacomo Leopardi: di queste, venti sono inedite e vedran la luce fra pochi giorni coi tipi del Lapi insieme con altre, pure inedite del Recanatese, illustrate dal mio egregio e caris- simo amico Prof. Camillo Antona-Traversi.
- ↑ Vedi anche il mio scritto: Paolina Leopardi e le figlie di Pietro Brighenti, nel Giornale Storico della Letteratura Italiana (Vol. VIII fascicolo 3.)
- ↑ Paolina non odiava certo Recanati meno di quello che l’odiasse il fratello. Udremo in queste lettere parole amarissime, che potrebbero essere bella illustrazione ai fieri versi delle Ricordanze
- ↑ Canzone per le Nozze della sorella Paolina.
- ↑ Vita Solitaria.
- ↑ Lettera XXX VI.
- Testi in cui è citato Paolina Leopardi
- Testi in cui è citato Pietro Brighenti
- Testi in cui è citato Angelo Arboit
- Testi in cui è citato il testo Canti (1835)/Le ricordanze
- Testi in cui è citato Giacomo Leopardi
- Testi in cui è citato il testo Canti (1835)/La vita solitaria
- Testi in cui è citato Vincenzo Bellini
- Testi in cui è citato Carlo Maria Curci
- Testi in cui è citato Pietro Giordani
- Testi in cui è citato Monaldo Leopardi
- Testi SAL 75%
- Testi in cui è citato Carlo Pepoli
- Testi in cui è citato Giovanni Rosini
- Testi in cui è citato Agostino Cagnoli
- Testi in cui è citato Camillo Antona Traversi
- Testi in cui è citato il testo Canti (1835)/Nelle nozze della sorella Paolina