Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo IV

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Capitolo quarto - La grassazione della Principessa

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La seconda giustizia che mi fu commessa in quel mese di gennaio 1801, seguì il giorno 27, a Camerino, sopra quattro persone, come avvertii, cioè Luigi Puerio, Ermenegildo Scani, Gaetano Lideri e Leonardo Ferranti. Trattavasi d’un’altra grassazione.

Avevano costoro formata una banda e scorazzavano nei dintorni di Camerino, aggredendo vetture pubbliche e private, poveri viandanti e perfino le corriere postali. La notte della befana, dopo aver già compiute due grassazioncelle di poco conto, togliendo pochi scudi ad alcuni carrettieri e un piccolo carico di cibarie ad un mulattiere, si ritiravano nella macchia, col proposito di far perdere le loro traccie, se per avventura i derubati, infischiandosi delle loro intimazioni e minaccie di morte, li denunziassero; quando udirono sulla strada maestra i campanelli tintinnanti dei cavalli di una sedia di posta. Tornarono subito sul ciglio della macchia, e videro venire di gran trotto una elegante carrozza da viaggio, tirata da quattro cavalli, montati da due postiglioni in uniforme di gala e due domestici dietro in alta livrea gallonata d’oro. Si consultarono sul da farsi e in due minuti furono d’accordo. La partita era forte e pericolosa, ma prometteva di riuscire molto proficua e decisero di giocarla. S’appostarono sulla strada e non appena la vettura giunse le scaricarono contro i pistoni, dei quali erano armati. Il legno si fermò di botto, perché i due cavalli di volata erano stati feriti e caddero, tirandosi sotto il primo postiglione ferito pur esso. L’altro balzò tosto a terra e tentò di tagliare i finimenti della prima pariglia, per liberare la seconda, nella lusinga di poter con essa fuggire. Ma i banditi gli furono sopra di balzo lo legarono saldamente e lo buttarono da un lato della strada. Dall’interno della carrozza uscivano intanto strazianti grida femminili. I due domestici paralizzati erano rimasti immobili.

- Fateli scendere e legateli - disse il capo, Luigi Puerio, a Leonardo Ferranti e Gaetano Lideri - e tu, Scani, assicurati dell’altro postiglione.

Questi, per far presto, gli spaccò il cranio, con una pistola d’arcione, che portava alla cintola.

- Imbecille! - gli gridò il Puerio volgendosi alla detonazione, mentre s’avvicinava allo sportello.

Ermenegildo Scani alzò con noncuranza le spalle e si fece a frugare il postiglione morto, mentre Lideri e Ferranti facevano altrettanto con quello legato e coi due domestici che avevano addossati ad una grossa pianta e avvinti al tronco della medesima.

- Sciocchi! Non vi perdete in bazzecole - tonò di nuovo il capo banda. - Staccate le valigie dietro la carrozza e perquisitele.

Dal legno non s’udiva più nulla. Puerio s’accostò allo sportello, l’aperse e vi scorse una bella ed elegante signora svenuta. Questo gli permise di lavorare a suo bell’agio, togliendole gli orecchini di brillanti, e i ricchi monili che portava. Poi la levò di peso sulle proprie braccia e la portò sul limitare della macchia, adagiandola colla maggior delicatezza possibile sopra un morbido tappeto di vellutello, che pareva fatto apposta per attenuare l’asprezza del suolo. La bella signora portava al collo una sottile catena d’oro di Venezia i cui capi andavano a celarsi nel busto, sorreggendo forse qualche medaglione.

Puerio, che era giovane e di civile condizione, volle mostrarsi garbato e piegato un ginocchio a terra si accinse a slacciarle la veste. Ma, man mano che l’operazione procedeva egli sentiva accendersi i sensi, e ben altre idee che quelle del furto gli frullavano per il capo. Gl’inebbrianti profumi che si sprigionavano dal busto della dama gli davano le vertigini, e quando il candido seno, sciolto da suoi involucri, proruppe torreggiante ed aulente, fra la spuma dei merletti che le adornavano la camicia, si chinò sopra di lei e vi depose un bacio, ebbro di passione e di desiderio. Al contatto di quelle labbra ardenti come braci, la signora rinvenne e guardandosi attorno, come si svegliasse da un sogno, s’accorse della terribile posizione in cui si trovava.

- Che volete da me? - chiese con marcato accento forestiero al brigante.

- Nulla - rispose a fior di labbro il Puerio, cogli occhi fiammeggianti.

- Mi avete dunque già preso tutto?

- Nulla - ripetè il brigante, con voce resa tremula dal delirio sensuale onde era in preda.

- Lasciatemi dunque! - ripigliò la signora, la quale avendo ricuperato il pieno esercizio delle sue facoltà, intravedeva le intenzioni del bandito.

- Nulla... fuorché amore! - le sibilò all’orecchio il Puerio, bruciandolo quasi coll’alito ardente.

- Amore! - esclamò la donna con sarcasmo così profondo che il masnadiero si sentì rimescolare il sangue -. Sanno dunque i pari vostri che sia?

Le ultime vestigia del carattere cavalleresco d’un tempo scomparvero a quel sinistro accento dal Puerio, e tornò ad un tempo brigante e belva, irritata da una irrefrenabile voglia di godimento.

- Se lo sappiamo vedrai - mormorò con voce rauca, cingendole la vita, rovesciandola sul muschio, dal quale s’era rialzata a mezza vita, cercando di insinuarle un ginocchio fra le gambe e di baciarla sulla bocca.

A tale oltraggio brutale, la signora che aveva forse per un istante subito il fascino di quella passione frenetica, e l’influenza dell’ora, del luogo, della situazione, ricuperò di un tratto tutta la sua freddezza, la sua energia, la sua alterigia sdegnosa e mentre il masnadiero tentava di appoggiare le proprie labbra alle sue gli lanciò uno sputo, che colpì Luigi Puerio in pieno viso. Il bandito si rizzò di scatto, brandì un pugnaletto che portava al fianco e lo immerse nella gola della disgraziata signora, la quale ricadde sul suolo immersa nel sangue che le sgorgava a fiotti dalla ferita. La lama dello stile le aveva reciso di netto la carotide. Luigi Puerio, tirò un sospiro di soddisfazione dall’imo del petto. La sua vendetta dell’atroce offesa era stata così rapida, così fulminea, che ne provava una gioia ineffabile. Se avesse conseguito, ciò che pochi istanti prima anelava più d’ogni altra cosa al mondo, l’amplesso di quella donna, non avrebbe potuto essere più felice. Subitamente si immobilizzò e parve tendere l’orecchio ad un rumore lontano: non potendo spiegarselo si buttò a terra sulla strada e poggiò l’orecchio stesso al suolo e dopo pochi secondi si rialzò e chiamando i compagni, gridò loro:

- Presto, presto! S’ode uno scalpitio di cavalli, cinque almeno: è una pattuglia che non tarderà dieci minuti ad esser qui.

I briganti si affrettarono a cacciare entro larghe bisaccie onde erano muniti, la roba involata dalla carrozza e si gettarono col loro capo nel folto della selva. Disgraziatamente per loro la donna assassinata era una principessa spagnuola, sposa di un addetto all’ambasciata di Sua Maestà Cattolica presso la Santa Sede. Il governo avvisato sguinzagliò per le macchie di tutti i dintorni un nugolo di birri e di agenti, i quali stringendo man mano il cerchio in cui erano stati disposti, finirono coll’impossessarsi dei quattro grassatori, poco lontano dal teatro delle loro ultime gesta. Il processo si svolse a Camerino. Le deposizioni dei due domestici e del postiglione ricostruirono il fatto nelle sue entità e nei suoi minuti particolari, talché i complici finirono per rendersi tutti confessi. Il solo Puerio persistette nelle negative. Ma alla perfine dovette arrendersi dinanzi alle prove schiaccianti e fu come i compagni suoi condannato alla forca ed allo squartamento.

Chiamato all’esecuzione, potei compierla non senza difficoltà, perché, come sempre avviene in provincia non mi si voleva dare il materiale per rizzare il palco e le quattro forche occorrenti. Dovetti andarlo a prendere di viva forza, scortato dai birri, di notte in un magazzino di legname. Sull’albeggiare del 27 gennaio però tutto era pronto. Mi recai alle carceri ove mi vennero consegnati i condannati, che feci salire nella carretta, ben ammanettati e legati due per due. Luigi Puerio respinse i confortatori e salì sul palco con passo intrepido e morì bene, senza codardia e senza smancerie. I suoi complici invece erano addirittura disfatti. Più della corda li spense lo spavento del patibolo. Però mi condussi in modo che il pubblico non si avvedesse, perciocché per antichissima tradizione è convenuto che non si debbano giustiziare né morti, né moribondi, né infermi di qualsiasi maniera.

Assistettero a questa mia giustizia l’ambasciatore di Spagna e una quantità di diplomatici d’altre nazioni, perché la principessa era assai conosciuta e benevisa, e le circostanze in cui era seguito il suo assassinio, avevano dato corso ad una infinità di commenti. Insieme ai diplomatici ed all’ambasciatore di Spagna erano pur giunti a Camerino una quantità di signori e grandi personaggi romani, fra i quali Sua Eminenza il Cardinale, Segretario di Stato. Fu questa una delle più solenni mie esecuzioni.