Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XXXV

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Capitolo trentacinquesimo - Una esecuzione difficile

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Non appena la compagnia di San Giovanni ebbe staccato e trasportato il cadavere del Perelli alla sua chiesa, dovetti recarmi alle carceri di Tordinona per pigliarvi il grassatore Carlo Castri, che era stato condannato - per quel giorno stesso - alla forca ed allo squarto. Ci volle un po’ di tempo, perché il reo aveva opposta la più energica resistenza, ai carcerieri, ai birri ed a me stesso prima di lasciarsi porre sulla carretta. Gridava come un ossesso e non voleva saperne di andare al supplizio. Aveva ammazzato barbaramente tante persone, uomini e donne, vecchi e giovani ed aveva una paura spaventevole della morte. Implorava grazia per tutti i Santi del Cielo, e urlava che il Santo Padre rappresentante di un Dio di bontà e di misericordia doveva perdonargli. Lo mandassero pure in galera, lo chiudessero nel più tetro carcere, ma gli lasciassero la vita.

Si dovette legarlo per forza e imbavagliarlo affinché s’azzittasse. Quando giungemmo sulla piazza del Popolo, ch’era gremita d’una folla impaziente di assistere allo spettacolo di uno squartamento, si sprigionò da tutti i petti un sospiro di soddisfazione.

- Eccolo! Eccolo!

E siccome era già giunta la notizia delle resistenza che aveva fatto si aggiungeva:

- Ora è in mano di Mastro Titta, non c’è più pericolo che scappi: dalle sue mani non si sfugge.

Avvicinandomi al palco udii ancora distintamente parecchie grida di: viva Mastro Titta; e quando l’ebbi lanciato nel vuoto, col capestro ben annodato intorno al collo, scoppiarono anco degli applausi. Sicuro, mi battevano le mani, salvo a mettermi a pezzi, se fossi disgraziatamente caduto in loro potere in un momento buono. Per fortuna conoscevo bene gli umori della folla e non mi sono mai lasciato lusingare dalle cortesie, come non mi sono mai intimorito per le minaccie. Ma non era stata agevole l’impiccagione di quell’indiavolato. Non appena toltogli il bavaglio, ricominciò ad urlare, a chiedere grazia e ad invocare le celesti legioni perché discendessero a liberarlo. Non era svenuto come tanti altri, possedeva ancora tutte le sue forze; ma era mestieri trascinarlo e portarlo su a braccia mentre si dibatteva.

Col laccio al collo gridava ancora, fu proprio la corda che gli strozzò la parola in bocca. Impiccato, diventò paonazzo e quasi nero. Aveva gli occhi fuori dell’orbita, i capelli irti come chiodi, la lingua sporgente dalla bocca dura e irrigidita. Quando incominciai a spaccarlo, mi pareva che le sue fibre avessero ancora dei fremiti di vita. Certo non avevano perduto punto del loro calore naturale. La giornata era rigida; soffiava la tramontana e le sue viscere fumavano, come se fossero state tratte bollenti da una pentola. Al contatto dell’aria algida il fumo si condensava in grasso e deponendosi sulle mie mani, me le rendeva scivolose. Prima di tornare a casa mi ci volle una libbra di sapone per ripulirmele. Questo, commisto al sangue ed al grasso formava una spuma rossastra, che sarebbe bastata per far la barba a un reggimento di soldati.

Anche i quarti attaccati alle braccia del patibolo fumarono per parecchio tempo. Non mi era mai accaduto di vedere un fenomeno simile. Dovetti bruciare le travi della forca, perché non sarebbero state più servibili, e ardendo esalavano un puzzo orribile, che uscendo dalla porta di casa mia si diffuse per borgo Sant’Angelo, con non lieve incomodo per gli inquilini i quali mi domandarono se per avventura avevo fatto cuocere delle salsiccie d’impiccati.