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Meditazioni di un brontolone/Degli imitatori del Metastasio nel settecento

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Degli imitatori del Metastasio nel settecento

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Il Metastasio e il Metastasismo Indice

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DEGLI IMITATORI DEL METASTASIO

NEL SETTECENTO


Il precedente mio scritterello sul Metastasio e sul Metastasismo, gettato giù in fretta negli ufficii del Capitan Fracassa fu pubblicato, diviso in due articoli, nella parte letteraria che quel giornale, nei primi suoi mesi di vita, offriva, come meglio poteva, ogni domenica, ai suoi lettori.

Durante l’autunno scorso io attendeva, fra le balsamiche frescure dei colli di Monterotondo, a porre insieme questo volume di scritti editi ed inediti, quando appunto l’egregio dott. cav. Luigi Silvestri trovava si colà in villeggiatura, con la sua famiglia. Il dott. Silvestri, amico carissimo e, da quindici anni, medico di casa mia, oltre ad essere valentissimo nella professione sua, è anche amoroso cultore degli stridii letterarii, onde legge, assiduamente, tutti i giornali di letteratura che la domenica si pubblicano in Roma. In una di quelle sere estive, adunque, mentre passeggiavo, con l’amico, su per le alture eretine, egli mi disse: [p. 442 modifica]— Ho rilevato, dal sommario del volume Meditazioni di un brontolone, che ripubblichi anche lo scritto, che inseristi, qualche anno fa, sul Capitan Fracassa, intorno al Metasiasio.

— Sicuro che lo ripubblico - risposi io.

— Ebbene - soggiunse il dott. Silvestri - ricordati, di rispondere alla critica che, sopra tale scritto, ti mosse, allora, il signor Luigi Lodi sul Fanfulla della Domenica.

— Quale critica? - domandai io, meravigliato - Io non la conosco.... non l’ho veduta.... ti sbaglierai.

— Non mi sbaglio niente affatto - disse l’amico. Ricordo benissimo che il sig. Lodi, in un articolo, inserito nel Fanfulla della Domenica, poco dopo la pubblicazione del tuo intorno al Metastasio e al Metastasismo, ti dava incidentalmente, senza nominarti, una frustata, accusandoti di inesattezza, di insipienza e meravigliandosi che tu fossi professore di letteratura. Anzi ricordo che, lì per lì, te ne volevo parlare, ma tu, in quel momento, eri in viaggio su pei monti del tuo collegio elettorale e quando, dopo due mesi, tornasti, quell’idea mi era uscita di mente e non te ne parlai più. D’altronde credevo che tu avessi veduto l’articolo del Lodi e....

— È la prima volta che ne sento parlare... ad ogni modo ti ringrazio e il primo giorno che vado a Roma, correrò alla Direzione del Fanfulla della Domenica, mi farò dare la raccolta dell’anno 1880 e farò ricerca deli’ articolo cui accenni e che odo, oggi, rammentare per la prima volta.

E, difatti, due giorni dopo io era nell’Ufficio del [p. 443 modifica]Fanfulla della Domenica, e presto ebbi alle mani il n.° 36 dell’anno II, 5 settembre 1880 di quel periodico e vi trovai un articolo del signor Luigi Lodi intitolato: L’esame di una signora nel secolo scorso: e, fra i periodi onde si componeva quello scritto, vi lessi il seguente:

«Ci furono pranzi, visite e ricevimenti, ci fu.... scommetto che i lettori a cui il settecento è un poco soltanto più noto che a certi scrittori, professori per giunta, di letteratura, pei quali il Cassiani e l’Algarotti sono due sciocchi metastasiani... - scommetto che i lettori sanno il resto: ci fu la Raccolta

E rimasi stupefatto per quell’attacco che mi pareva quasi insidioso e fondato soltanto sopra un erroneo apprezzamento del signor Lodi, e che era posto lì, incidentalmente, in un articolo il quale non trattava nè del Metastasio, nè del Mctastasismo, quasi col proposito che esso avesse a sfuggire alla vista dell’uomo contro cui quell’attacco era rivolto. Mi ricordai benissimo, rivedendo quel numero del Fanfulla della Domenica, di averlo avuto fra mani, allorché fu pubblicato, perchè rammentai subito il bellissimo articolo del Nencioni su Gustavo Flaubert, che io avevo letto e ricordai che all’articolo del signor Lodi - ed avevo avuto torto e gliene chiedo scusa - proprio non ci avevo badato.

Ringraziai, in cuor mio, il carissimo dott. Silvestri, come ora pubblicamente lo ringrazio, perchè, dopo avermi salvato la vita, nel novembre del 1879, liberandomi da una violentissima difterite che m’aveva assalito, mi ha salvato ora dal pericolo di rimanere, senza protesta e senza difesa, sotto la taccia di [p. 444 modifica]ignorante, così liberalmente, e, a parer mio, un po’ avventatamente largitami dall’egregio signor Lodi.

Al quale, oggi soltanto, per conseguenza dei fatti narrati, rispondo.

E, siccome gli rispondo con argomenti di fatto, tratti dalle opere dell’Algarotti e del Cassiani - che il sig. Lodi, a quanto sembra, nel momento in cui scriveva quelle affrettate righe, non aveva presenti - così è facile comprendere come il rispondergli oggi, dopo cinque anni dall’accusa da lui lanciatami addosso, non migliori menomamente la mia condizione, nè peggiori la sua in questo singolare certame; perchè le opere dell Algarotti e del Cassiani, le prime stampate a Cremona, per Lorenzo Manini nel 1788, le seconde a Carpi per Carlo Ferandi e C., nel 1794, restano, oggi, precisamente quelle stesse che erano cinque anni fa.

Il delitto mio, secondo il signor Lodi è, dunque, di aver noverato fra gli imitatori del Metastasio l’Algarotti ed il Cassiani, - che, del resto, io non chiamai sciocchi - e il delitto al mio critico sembra tanto grave da meritarmi la immediata radiazione dall’elenco dei professori di letteratura italiana.

Di fatti se io avessi studiato la letteratura nazionale nelle Antologie e sulle Storie letterarie - come oggi sogliono far molti - sarei un vero asino ponendo fra gli imitatori del Metastasio quell’Algarotti che le Antologie e le Storie suddette citano quale autore di versi sciolti robusti nelle Epistole e quale non infelice imitatore, nei Sonetti, del meraviglioso e gentile cantore di Madonna Laura.

E chi giudichi dell’Algarotti - lasciando da un canto [p. 445 modifica]le numerose - troppo numerose - sue prose, saggi critici, scritti scientifici, architettonici, guerreschi, ecc., onde son pieni otto dei nove volumi della collezione delle opere di lui di sopra citata - chi giudichi del valore poetico del pomposo e agghindato Contino veneziano da quei brani di epistole e da quei quattro o cinque sonetti che vediamo notati nelle raccolte, non potrà certamente noverarlo fra i seguaci del Metastasio. Si potrà dire che lo sforzo della imitazione oraziana, quasi sempre poco fortunato, è evidente nelle epistole, e che non meno chiaro e ugualmente stentato appare lo studio che l’amico di Federico II e del signor Voltaire mette nel seguire le orme del Petrarca in alcuni dei suoi sonetti.

Ma io - che, secondo il signor Lodi, sarei così ignorante - agitato fin dalla età più giovanile, da una febbre ardente e irresistibile di lettura, approffittando della biblioteca paterna, abbastanza copiosa di opere storiche e letterarie, impresi a leggere, e anche con un certo ordine cronologico, poeti e prosatori italiani, da Ricordano Malaspini, dal Novellino, da Dino Compagni e dai primi poeti toscani e siciliani, venendo giù giù, fino al Monti, al Pindemonte, al Cesari, al Perticari, al Colombo, al Giordani. E, così, leggendo gli autori, non già nei frammenti delle Antologie, ma nelle opere loro e giudicandoli, non sugli apprezzamenti degli scrittori di storie letterarie, si bene sulle deboli e fallaci - se si vuole - ma, almeno, sincere e legittime impressioni che produceva nella mia mente la lettura di quelle opere, fin dalla prima giovinezza mi formai un concetto, che potrà essere stato, e potrà essere [p. 446 modifica]anche oggi inesatto, se si vuole, ma che era tutto mio, intorno alle vicende, alle evoluzioni, alle trasformazioni della nostra letteratura e alle differenti caratteristiche delle varie sue epoche.

Il sig. Lodi mi scuserà se il metodo da me seguito a lui sembra cattivo, ma esso è quello che è, ed io non posso fare che quel metodo sia stato differente da quel che è stato.

Risultato di questo metodo si fu che, avendo io letto tutte le poesie dell’Algarotti, ne trovai parecchie le quali hanno forma arcadica, linguaggio arcadico, ed anche di cattivo genere, onde l’enciclopedico scrittore veneziano rivela come tutti i suoi sforzi per poetare diversamente dagli altri verseggiatori e poeti dell’età sua, non valessero punto a sottrarlo all’ascendente che il Metastasio, gran pontefice dell’Arcadia, esercitava su tutti, indistintamente, i cultori delle muse del tempo suo.

E perchè le mie non paian parole, verrò alle citazioni.

Che l’Algarotti, non ostante la brama sua di mostrarsi singolare e diverso dagli altri nei giudizii sui letterati contemporanei, ci tenesse a parere ammiratore del Metastasio si rileva, oltre che dall’epistolario di lui e dalle molte lettere indirizzate al poeta cesareo, anche dalla sua epistola VI, appunto al poeta romano dedicata, nella quale egli parla dei plausi che all’autore della Didone tributa

. . . . . . la leggiadra gente
Lieta che ormai, per te, l’itale scene
Grave passeggi il sofocleo coturno (!!!)

[p. 447 modifica]e, unendosi a quei plausi, dopo molte lodi largite al Metastasio, finisce:

Di Flacco in sulla lira Apollo il canta
E adombra Metastasio ai dì venturi
Verace Nume. A piena man spargete
Sovra lui fiori e, del vivace alloro
Onorate l’altissimo poeta.

E vero che queste lodi, a lui invidioso ipocrituzzo, mon impedirono di tirare una stoccata alle terga dell’autore del Catone in Utica nella VII epistola, indirizzata a Fillide, lamentando che debba

. . . . . . . in su bemolle, or ora,
Con lunghi trilli e florida cadenza,
Sua morte gorgheggiar Porzio Catone.

Ma non soltanto ammiratore si mostrò e si disse del Metastasio l’Algarotti, ma si professò imitatore di alcune espressioni, da lui usate, in quella sua pappolata intitolata Il Congresso di Citera, pappolata contro la quale infuriava il Baretti, appaiandola coi Bertoldi in rima, con le poesie degli arcadi con le cicalate dei cruscanti e con tante altre insulse filastrocche, dalle quali non v’è nulla da imparare, se non talora un qualche mal vezzo.[1] E che fosse imitatore di tali espressioni risulta dalla lettera che il Metastasio, ringraziandolo dell’invio di quel libretto, scriveva al Contino da Vienna, in data 15 gennaio 1746, ripetendo ciò che egli aveva scritto in una sua precedente lettera, parimente diretta al Conte e, a quanto pare, andata smarrita.

[p. 448 modifica]«Mi professava - scrive il poeta romano - sensibile all’onore che ridondava ad alcune mie espressioni, delle quali vi era piaciuto valervi, confessando che quelle di rozzi sassi, mercè l’amico artificio del maestro architetto, eran divenute parti di così eccellente edificio: tantum series juncturaque pollet[2]

Ma, prescindendo da tutto ciò, non è arcadicamente colorito il sonetto dell’Algarotti:

O di selve e di Ninfe e d’odorate
Erbe, e di fonti baldo padre, o monte
Cassio, che sotto a to miri le pronte
Barchette errar di remo e velo armate?

E all’altro, al Zanotti, che principia:

Spirto gentil, onde si chiaro fonte


e il quale si chiude con quei versi:

 E nuovo spiegherei leggiadro canto.
Con cui forse piegare anco potrei
 Te, dura Fille, ahi, più che sasso dura
 Cui non muovon sospir lunghi, né pianto.

che cosa manca, se non forse la serena spontaneità e la musicale melodia metastasiana, per poter essere riconosciuto, nelle immagini e nei concettuzzi, quale prodotto genuino d’Arcadia?

Al tutto arcadici e, se mi fosse lecito, direi anche sguaiatamente arcadici, sono i sonetti:

Ecco il bosco, u’ la mia dolce angioletta.

[p. 449 modifica]e l’altro:

O cagnolina, che chiamando vai
Con quel sì spesso tuo gridar pietoso, ecc.

e l’altro, allo Scimiottino di Fillide, che comincia

Le mani, come a noi, dietti natura

e che si chiude con quei versi:

T’incresce sol, poiché hai vista la bella
Candida Filli, non poter qual noi
Rigar due note per mandar novella
Che gli angeli son bianchi, ai negri tuoi.

Metastasiani - meno forse la grazia - sono i versi Per bravissima ballerina italiana, in cui riscontransi strofe, le quali, non ostante il contorto atteggiamento pseudo-oraziano, han locuzioni e immagini svenevolmente arcadiche come queste: Ma più bello è il vederla Leggiadra pastorella Gli occhi in giro vibrar fiamma d’amor; E bello ò udir frattanto Dir ciascun sospirando Che non mi feste, o Dei, nascer pastor?..

non che il sonetto Per Monaca:

«Gentil donzella che il nemico nostro, ecc.


è più ancora i versi acchiusi dal poeta a S. M. il Re Federico di Prussia nella lettera adulatoria in data di Postdam del 28 aprile 1751 e che cominciano:

Or che il Ciel si rasserena
E che zeffiro rimena
La stagion dolce novella
Ch’ogni dì si fa-più bella, ecc.

[p. 450 modifica]vera cacofonia da meritare di essser cantata con accompagnamento non di zampogna, ma di colascione.

Ugualmente arcadiche sono le strofette, con le quali l’autore dei Dialoghi sopra l'ottica Neutoniana, scrivendo a S. E. il Marchese Grimaldi, da Berlino il 5 marzo 1750, nell’inviargli due esemplari di una delle sue molteplici operette, uno ne dedicava ad una autorevole Principessa; strofette che principiano coi versi:

La più amabil Principessa,
Che ai mortali abbia concessa
Il favor dei sommi Dei,
Libro mio veder tu dei, ecc.

L’Algarotti, adunque, che ebbe l’avvedutezza di scriver molto in prosa e poco in poesia, non ostante gli sforzi visibilmente fatti per sottrarsi all’ascendente, che su tutti esercitavano al tempo suo l’Arcadia e il Metastasio, fu sovente, e nel pensiero e nel linguaggio e negli atteggiamenti metrici, arcade egli pure, o metastasiano che si voglia dire.

Del resto questo mio giudizio è sostenuto, perchè basato sui fatti, perchè basato sul vero, da siffatte autorità, cui il sig. Lodi vorrà pur far di cappello. Udiamo il Foscolo: «Dopo di che l’autore (cioè il Pindemonte) prova evidentemente che il Brazzolo, quantunque lodato dal fino e limato ingegno dell’Algarotti, tradusse a sproposito l’idillio di Mosco. Ma se, conchiude il signor Pindemonte, l’Algarotti loda a cielo il Brazzolo, ciascuno sa quanto il Conte largheggiasse con tutti di incenso, e non gli bastava di far del cortigiano solamente in Postammo. Or noi chiediamo licenza di ridire che i fasti della nostra [p. 451 modifica]letteratura sono spesso affumicati di questo incenso. Nè l’Algarotti a’ suoi giorni godeva di quella fama che, derivando dalla stima e dalla riconoscenza della nazione, promette di stabilirsi nelle seguenti generazioni e di crescere. Era letterato di partito ed aveva per lodatori dalle cattedre, i gesuiti che egli lodava in istampa, i giornalisti che ei temeva moltisaimo e regalava, i cortigiani che ei corteggiava, i nostri letterati più addomesticati co’ loro studii che con le cose del mondo, e che, stando romiti nelle loro cellette, ammiravano le imprese di Federico di Prussia, reputavano beatissimi ed illustrissimi i suoi favoriti, e mostravano come e vangelo di novelle straniere e politiche una letterina del favorito italiano; finalmente i nostri oziosi che, volendo non apparire ignoranti, leggevano le operette del Conte, le quali non hanno bisogno di studio nè di dottrina e che, trattando di un po’ di tutto, insegnavano ai nobili il modo di addottorarsi in un po’ di tutto... Autori nostri concittadini (che non siamo tanto arroganti da chiamare col nome di confratelli) non siate ne’ vostri libri nè gesuiti, nè accademici, nè cortigiani, nè nobili, nè plebei, nè pastori, nè bifolchi arcadi, nè caprari, ma cittadini. Tutte le nazioni, e più di tutte la nostra, hanno bisogno di. nobili e grandi passioni, e di opinioni utili e giuste; ma i partiti a cui molti si legano si nutrono tutti di passioncelle, di pregiudizi.»[3] E, ad avvalorare il proprio giudizio, il Foscolo, nella pagina susseguente, riferisce la [p. 452 modifica]sentenza del Baretti, il quale, nel 1777 «in un suo Discorso scritto in francese e indirizzato a Voltaire ove gli ricambia il sale con l’aceto e lo convince di aver tradotte e vituperate le tragedie di Shakspeare e proverbiato Dante senza intendersi nè d’inglese nè d’italiano» così scrive: «Qui vous a dit cela, monsieur Voltaire? Je parie que ce fui cet Algarotti de fade mémoire, da qui vous apprîtes a mépriser Dante. Apprenez de moi qu Algarotti faisait des vers blancs comme une fileuse fait du fi sans s’arrêter. Il en faisait cent ou deux cents dans le temps, que vous en feriez dix ou douze. Mais dix ou douze de vos vers, n’en déplaise à votre modestie, valent dix mille fois plus che dix mille vers d’Algarotti, que n’entendait rien ni à la poésie, ni à la prose. Il fit jadis imprimer à Venise un certain nombre de ses Epitres avec d’autres Epitres de l’abbé Frugoni et du jésuite Bettinelli. Tout cela fut intitulé Vers blancs de trois illustres Poètes. Ces maudits vers blancs étaient escortés d’une sotte preface barbouillés par une sotte Excellence vénétienne, qu1 on appelle Andrea Cornaro... Jamais la poësie e le bon sens ne furent si màtines que par ces quatre illustres. La prose d’Algarotti, de même que sa poesie, est un baragouin, pètri a la diable, de venitien mal Toscanisé et de François mal entendu, avec par-ci par-là quelques mots e quelques phrases d’invention. Il meprisait Dante, qu’ il n’entendait guère plus que vous n’entendez Confucius, dont vous avez fait tant de fois l’éloge. Les beaux chef-d’oeuvre que son Newtonianisme pour les Dames, tiré avec les dents de vos Lettres sur [p. 453 modifica]Newton, et son très-maudits Congrès de Cythère! Il écrivit aussi je ne sais combien de petits volumes sur la Peinture, aidé par un Peintre-Architecte de ses amia, que entendait fort bien la théorie de ces deux métiers. J’ai oublié son nom. La matière des petits volumes, à ce que des peintres m’ont dit, passablement bonne, mais la langue et le style en sont exécrables, du dernier exécrable. A l’égard de son caractèr personel, jamais le mond n’a vu de plus suffisant freluquet, d’Adonis plus doucereux. Son style sentait le freluquet et l’Adonis manquè, de mème che sa personne. Vous qui l’avez connu fort intimement. vous dovez savoir qu’on aurait pu dire de lui ce qui un vieux major savoyard dit jadis d’un certain monsieur de son pays lorsqu’on lui manda de Rome la nouvelle qu’il avait été canonisé: Il étoit un peu fripon au piquet, du reste c’etoit un fort bon ìiomme!»[4] Ed Ennio Quirino Visconti, parlando della letteratura arcadica, mette l’Algarotti a fascio con tutti gli altri, proprio come feci io. «Alcuni letterati non si contentano di abbandonare i greci autori ed i latini; ma sì trascurano pure gli italiani del trecento e del cinquento, solo beandosi della lettura dei Frugoni, Lorenzini, Zappi, Petrosellini, Bettinelli e Algarotti.»[5] Nè miglior stima ne fa il Tommaseo il quale afferma che il Contino Algarotti tra un ingegnino di quelli che, ripetendo, non condensano le idee altrui, ma coagulano; un di quei troppi che nel secol passato e nel nostro fecero l’Italia [p. 454 modifica]pedantesca, serva de1!e esotiche leggerezze.[6] E l’Algarotti, a fascio con tutti gli altri arcadi, novera il Desanctis. «... A Roma dominava l’Arcadia, a Firenze la Crusca. Viveva ancora celebratissimo Innocenzo Frugoni, tenuto primo de’ lirici italiani e il miglior fabro di versi sciolti, quando Mascheroni non aveva scritto ancora il suo Invito a Lesbia. Spiccatissimo era in lui il carattere della vecchia letteratura, solennità e pompa di forme nella perfetta vacuità e indifferenza del contenuto. Intorno a lui era una schiera di prosatori e poeti, d’improvvisatori e improvvisatrici, tutti sullo stesso stampo, Roberti e Tornielli, Algarotti e Bettinelli, Pompei e Paradisi, Bondi e Bertola, e Savioli, e Rezzonico e Rolli e il Perfetti e la Corilla, il nuovo Pindaro e la nuova Saffo, a cui si coniavano medaglie, si decretavano corone in Campidoglio. La poesia divenne un facile meccanismo, una merce volgare, l’accompagnamento monotono de’ più ordinari fatti della vita, nascite, morti, nozze, monacazioni, un gergo di convenzione a portata de’ più mediocri. Il contrasto era grottesco fra tanta servilità e insipidezza di contenuto e tanta pompa di frasi. Non mancavano astrazioni e generalità morali e scientifiche, come nel Cotta, nel Manfredi, in Francesco Maria Zanotti, e non manvcava la tradizionale oscenità come in Aurelio Bertola e nell’Abate Casti. Alla cima di questo Parnaso stava Metastasio nella sua divinità incontrastata, e [p. 455 modifica]divenuto un appellativo in bocca al pubblico, sì che Bondi era detto un secondo Metastasio e il Tornielli iì Metastasio dei predicatori.» [7]

E a rincarare la dose viene il Settembrini il quale osserva, dopo avere favellato del Frugoni.... «ma per la critica il Frugoni ha una certa importanza, perchè segna la seconda maniera degli Arcadi, un mutamento che a tutti sembrava necessario, essendo venute a noia le nullaggini pastorali. A questa testa vuota che chiacchiera in versi d’ogni cosa a dilungo, vanno uniti Francesco Algarotti, zerbino in parrucca e spada e manichini, tutto riverenze e minuetti o Francesco Saverio Bettinelli, satrapone gesuita. L’Algarotti, figliuolo d’un ricco mercatante veneziano. ebbe fosforescenza d’ingegno, conobbe le scienze, le lingue antiche e le moderne, fece versi, scrisse prose, disegnava correttamente ed incideva in rame, raccoglieva quadri, parlava bene, piacque alle donne, a Papa Benedetto XIV, al Voltaire, al Se di Sassonia, al Be di Prussia, che lo fece Conte e ciambellano e gli fece innalzare nel camposanto di Pisa un monumento con questa iscrizione: Algaroto, Ovidii aemulo, Newtoni discipulo, Fèdericus Rex. Scrisse il Il Newtonianismo per le dame, libro tradotto in varie lingue, ed oggi fa pietà ai dotti ed è inutile agli ignoranti: scrisse discorsi militari, saggi, viaggi: e di che non scrisse nei molti volumi delle sue opere, che oramai sono dimenticate come quelle mode? Leggiero, ma accorto, seppe acquistar fama ed onori [p. 456 modifica]in vita: che gli importava il giudizio dei posteri dopo la morte?»[8]

Nè diversamente dai precedenti pensò il Guerzoni, il quale scrisse: le Accademie sovraneggiavano in tutta la loro potenza e Algarotti, Frugoni e Bettinelli, Bertela, Savioli, Metastasio stesso, /’arcade sommo, ne sono ancora i principi.[9] E ugualmente il professore Zanella, che dell’Algarotti si spiccia in poche parole: «Parimente neglette sono le opere del Conte Francesco Algarotti che, ricco, studioso, festeggiato nelle Corti d’Europa, amico di Voltaire e di Federico II, poteva lasciare una viva pittura del suo secolo. Di tutti i suoi scritti il solo che ancora si legga sono le Lettere sulla pittura di cui era conoscentissimo.»[10]

E acerbo all’Algarotti si palesa anche il Cantù. «L’Algarotti, conte veneziano, Algarotulus comptulus, menò vita di trionfi in Italia e fuori, e scrisse di tutto, e di tutto incompiutamente e leggermente azzimato sempre e in fiocchi, col belletto e co’ nei, anziché coi puri e vivi colori della realtà, incastrando neologismi e improprietà accanto a frasi pretensive e arcaiche, con diligenziuccia stitica affettando trasposizioni, parole tronche, cadenze sonore mediante encistichi poetici, lambiccata simmetria.»

E, dopo aver favellato dei Versi sciolti dei tre eccellenti autori e degli intendimenti cui essi miravano [p. 457 modifica]con quella loro pubblicazione, così giudica i tre poeti e, perciò, anche l’Algarotti: «Ma in effetto che cosa hanno? prosa numerata;, inevitabile ritorno di fantasie facili e smorfiose, come le immagini di un caleidoscopio; coniano vocaboli inutili, o degli antichi alterano la forma e il senso; dilettansi delle perifrasi; scambiano le ampolle per fuoco, il gonfio per nobile; il manierato per adorno; all’affetto surrogano circostanze puerili sì da immiserire anche i soggetti grandi.»[11]

E l’Ambrosoli, brevemente favellando dell’Algarotti, giustamente osserva che «se egli ebbe poi anche riputazione di buon poeta, questo può provare soltanto che godette il privilegio rarissimo di trovare i contemporanei molto inclinati ad esaltarlo.»[12]

E per non prolungare le citazioni, chiuderemo appellandocene all’illustre Carducci il quale, in più luoghi dei suoi scritti critici, afferma che tutti i poeti del secolo decimottavo furono, dal più o meno, un po’ arcadi, ma più nettamente nella Pariniana ove dice: Anche il Parini, come tutti, salvo l’Alfieri, i nostri poeti del secolo decimottavo, muove dall’Arcadia anzi si potrebbe fin dire, senza fargliene colpa, che in Arcadia almeno il tacco del piè sinistro ce l’ebbe sempre.[13]

[p. 458 modifica]Figurarsi dunque un po’!... Se il grande maestro, che ha dettato le Fonti del Clitunmo, pensa - e giustamente - che anche il Parini zoppicasse un tantino dal lato dell’arcadismo, è evidente che a maggior ragione consentirà con me e con i valentuomini, citati, nel ritenere che più assai arcade del Parini sia stato l’Algarotti, da noi sorpreso in fragrante e sfacciata imitazione metastasiana.

E veniamo al Cassiani di cui le Antologie e le Storie letterarie suddette recano quattro o cinque sonetti, ammirati per la vivezza, talvolta fin troppo ricercata, delle immagini, per la gagliarda e sostenuta armonia dei versi, i quali appaio a quasi l’antitesi di quelli molli e voluttuosi del Metastasio.

E chi non ricorda, invero, di aver letto nelle Antologie, che vanno per mano dei giovani, allorché studiano retorica, i1 sonetto del Cassiani sul Ratto di Proserpina:

Die’ un altro strido, gittò i fiori e vòlta
All’improvvisa mano che la cinse, ecc.?

E quello intitolato Icaro:

Poiché del genitor la via non tenne
Il fuggitivo volator di Creta, ecc.?

E l’altro, La moglie di Putifarre:

Vien qui, siedi: a l’ebreo garzon diletto
L’egiziana- adultera dicea, ecc.?

E chi giudichi il Cassiani alla stregua di sette od otto di questi sonetti, evidentemente, non potrà chiamarlo, senza errore, imitator del Metastasio.

[p. 459 modifica]E quindi l’accusa rivoltami sarebbe giustissima se il Cassiani non avesse scritto altro che quei sette od otto sonetti, intorno a quattro dei quali recava giudizio piuttosto laudativo, quantunque non scevro di osservazioni critiche, il Parini.[14]

Ma il fitto non sta così.

La prolifica musa del buon Cassiani fece a questo pisciare tante e tante altre poesie, per la più parte canzonette, odi, anacreontiche, eoe., delle quali il Parini (nel luogo citato) scrisse: «Tutti gli altri componimenti del Cassiani sono mediocri o peggio; di modo che se egli non si facesse conoscere a qualche maniera di stile sparse qua e là, si crederebbe che fossero opera di tutt’altra mano.»

E perchè non si abbia a credere che io cianci a vanvera citerò al mio critico parecchie, le più metastasiane, di quelle poesie. Stia ad udire il signor Lodi, cosi sollecito, anzi così precipitoso nel dare altrui dell’ignorante, stia ad udire questa anacreontica e mi dica se non gli pare di stile arcadico e di atteggiamenti metastasiani:

Erari un orto ameno
Cui l’aura e il sol ridea,
Ed ogni altro vincea
In pregio ed in beltà.

In lui fean dolce gara
D’odori e di colori
Mille ridenti fiori
Cui pari aprii non ha.

[p. 460 modifica]

Ma rei pastori alpestri
Un sozzo gregge entr’esso
Da lunga fame oppresso
A forza un di cacciar;
Cosi che in un momento
Dal piè, dal dente infesto
E pascolato e pesto
Deserto, aimè, il lasciar.

Lungo un bel rio diletta
Al ciel pianta felice
Mettea gentil radice
De l’altre piante onor:
Ritta il bel tronco e i rami
Di se Lamica sponda
Innamorava e l’onda
Con l’alme fronde e fior;

Ma sovra lei passando
Un rumoroso nembo,
Tale dal fosco grembo
Grandin su lei versò;
Che i fior sparsi e Te fronde,
Scorzata i rami e T tronco
Nuda qual secco bronco
Sul margine restò.

Un agnellie delizia
E cura unica e bella
Di vergin pastorella
Al pasco un giorno uscì:
Bianco era sì, che meno
Bianca è la neve al monte
E men sull’orizzonte
L’alba che annunzia il dì.

Ma d’affamati lupi
Ingorda torma infesta
Sbucò da la foresta
E il venne ad assalir:
Tal ch’ei squarciato, e fatte
Le ree zanne satolle,
Fe di sua strage il colle
E il bosco inorridir.

[p. 461 modifica]

Così di pastorelli
A un coro in due diviso
Vecchio pastore affiso
D’alto cipresso al piè.
Su la dolente avena
Pinger tentò l’atroce
Strazio che Sion feroce
Del Nazzaren già fe.

Ma da le immagin scelte
Visto i sì lunghi stenti
E i vari aspri tormenti
Non colorirsi appien,
Tacque, e pensò l’acerba
Storia funesta intanto
Meglio esprimer col pianto
Che gl’inondava il sen.

      Come vede il signor Lodi la fraseologia di questo componimento è tutta arcadica e della più bell’acqua; le immagini sono arcadiche, arcadico è l’epitetare usato in questa Canzonetta, la quale potrebbe dirsi metastasiana... se del Metastasio avesse la spontaneità fluida e serena, l’epiteto proprio ed efficace, la molle e disinvolta semplicità.

E perchè il signor Lodi non mi opponga che un fiore non fa primavera, gli dico che di fiori siffatti, artificiosi ed avvizziti, il giardino del Cassiani è tutto pieno, come egli stesso potrà verificare se si vorrà dare il fastidio di leggere tutto il volume che gii ho indicato. Là troverà, per esempio, l’anacreontica che comincia:

Là di Cipro infra due colli
Siede fresca amena valle,
Dove fan fioretti molli
Odoroso e pinto il calle,
Che conduce, ove la reggia
Del possente Amor torreggia.

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la quale è tutto un tessuto di sguaiate pastorellerie,

le più oonvenzionali, le più sciupate che si usassero giammai fra le ombre delle arcadiche selve. E troverà la Canzonetta intitolata La Beltà di Gesù Bambino che principia:

O vezzoso Bambino
Il cui Natal divino
Fa gir l'umil Betlemme,
Sovra Gerusalemme
Io ricercai fra gigli
Candor, che il tuo somigli, ecc.

e l’altra dal titolo I Fiori, la quale si apre con queste strofette, che possono dare la misura di quelle che susseguono:

Onor di prati e colli
Delizie de i colori
Delizie degli odori
De’ fior popol gentil,
 Onde l’ambrosia chioma
Fan per bei serti altera
La rosea primavera
E il giovanetto april;

Non voi, cura ed amore
Di verginelle caste,
Giù d’onorar lasciaste
Il celestial Bambin:
 E a voi con nevie gelo
Tentò d’opporsi invano
Il crudo Borea insano
Da scitico confin, ecc.

e l’altra che si inizia con la strofetta:

O voi fanciulli candidi
O pure verginelle,
Che ancor di latte pingono
Le rosee guancie e belle, ecc.

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e l’altra, per la passione, intitolata I Fiori e l’Erbe

Te pure, o amabile
     Uom de i dolori
     Te morto piansero
     L’erbette e i fiori, ecc.

e la susseguente dal titolo l’Aria

Belle, soavi e care
     Di gioia e dì salute
     Fonti dal ciel venute,
     Luci del mio Signor
     Quando, ecc., ecc.

e quella che trae nome dall’Anima dolente:

Or che, o mio ben sei morto
     Nella mia pena acerba
     Chi mi darà conforto,
     Chi mi consolerà? ecc.

e la Canzone Cristo nell’Orto:

Ti sveglia, e scorgimi,
     O mio pensiero,
     Dove al Getsemani
     Mette il sentiero, ecc.

e l’altra Maddalena ai piedi della Croce:

Cori gentili e teneri
     Al dolce stral d’amore
     Che ad esca del suo ardore
     Ei di sua man formò, ecc.

e la canzonetta Per nozze:

La cetra amabile
     Solo d’amore
     Sonante, o candido
     Tejo cantore, ecc.

[p. 464 modifica]Legga, legga il signor Lodi, e si persuaderà che il Cassiani subì, come tutti gli altri poeti del suo tempo,

e più di molti altri poeti del suo tempo, l’ascendente della imperante Arcadia e il fascino che inspirava in tutti la melodiosa e ammaliatrice musa del Metastasio.

E non parlo — e non accennai nel povero e aggredito mio articolo perchè, accennato al Rolli, suo capo, non stimai necessario ricordar tutta la minore schiera — e non parlo del Bondi, del Vittorelli, del Cerretti, del Bertola De Giorgi, del Roberti, del Pompei, del Rezzonico, e di tanti altri, i quali tutti come minori satelliti, specialmente i primi, traggon dietro al Rolli e son tutti, dal più al meno, imitatori — e non sempre felici — del Metastasio.

Ma che dirà il signor Lodi allorché io gli rammenterò che al fascino e all’ascendente del Metastasio e del Metastasismo non seppero e non poterono sottrarsi neppure il Bettinelli e il Frugoni, il durace ed aspro gesuita, l’abate epicureo, garrulo e fragoroso, i quali, insieme coll’azzimato e profumato Contino Algarotti, formavano il formidabile triumvirato di cui, con tanto garbo d’ironia e con tanto sapore critico, ragiona l’abate Michele Colombo nella sua Storia compendiosa della introduzione del Tamburo e delle Campane in Parnaso, dimostrando i tre sotto i nomi ridevoli di Fatherbellio (Bettinelli), Goodfellovio (Frugoni), e Courtiermano (Algarotti), diffusori, sulle orme di Belldrumio (Cesarotti), della poesia tonante e clamorosa in Italia?[15]

[p. 465 modifica]

Non ostante 83 sonetti, i qnali sono o

Rabidi di tonante ibrido stile


o miseramente amorosi e piagnucolosi, fra i quali noto come arcadico quello che comincia:

Quando al bel cocchio le colombe imbriglia, ecc.


il migliore, per avventura, che dettasse il Bettinelli, scempiatamente arcadiche, quantunque il tronfio messere si sforzi di non voler parere metastasiano, sono le canzoni L’Uomo Dio, che comincia:

Dove, celesti nunzii,
Fra immensa luce a volo
Al suon di lieti cantici
Volgete all’umil suolo?...

e finisce:

Gran Dio qui fatto uom misero!
Oh mani! Oh voci! Oh guardi!
Oh Dio chi non ti venera?
Oh Uom qual cor non ardì?,..

e quella Per Monaca:

Dame ornate e cavalieri,
Fior di grazia e cortesia, ecc.

e l’altra, pure Per Monaca, in Venezia, che principia:

Amor t’ascondi ormai
Entro fldalie selve
Ad infierir, se sai,
Ne le feroci belve
Che de’ tuoi strali ardenti
Si ridono le genti, ecc.

[p. 466 modifica]Nè meno flaccidamente arcadica, non ostante l’orpello

studiato della metrica pseudo-oraziana, è l’altra canzone del Bettinelli intitolata: La processione delle Casazze, e che comincia:

Pur ti riveggio, o bella
Genova, e in te conforto,
In te ritrovo un porto
Dopo i miei lunghi errori in terra e in mar.

E l’altra, spasmodicamente elettrica, Per nozze illustri in Bologna:

Possente Diva elettrica,
Che, a tutti ignota, attrai
In terra tutto e ne l’inferno e in ciel, ecc.

è tutta riboccante di immagini e di locuzioni metastasiane, come quella Per nozze in Genova:

Pur ci giungesti infido
Tra quelle belle mani
Tormentator Cupido
Di tutti i cori umani, ecc.

E piene di svenevolezze e eli languori arcadici sono le canzoni Per nascita del Principe Reale di Parma nel 1751, Alla Signora Marchesa Eleonora Albergati nata Bentivoglio, Per le nozze reali del Duca di Savoja, e, più specialmente, le quattro a queste successive — nel tomo XVIII delle Opere complete del Bettinelli[16] — le quali poi sono, alla fin fine, metastasiane anche nel metro. E non parlo dei madrigali, fra cui ve ne ha di quelli così sciempiatamente arcadici da muovere proprio a nausea.

E dire che il Bettinelli è l’autore delle famose [p. 467 modifica]Lettere di Virgilio agli Arcadi, cioè del nuovo codice della poesia nazionale, un innovatore, un riformatore, un rivoluzionario addirittura. da disgradarne Martino Lutero!... Verso il quale Bettinelli non si mostra gran fatto tenero neppure il Tommaseo, in genere non molto ostile ai Gesuiti, che nota[17] come il Bettinelli con quello stile fiacco, con quella testa, vuota, con quelli anima tiepida, mal motteggiando al modo francese.... assalì la Divina Commedia. E altrove aggiunge che egli era uomo la cui luce pareva di stella, ora pare di sego.[18]

E non meno del Tommaseo procede l’Emiliani-Giudici, avverso al Bettinelli che egli ragionevolmente giudica «d’ingegno svegliato ed accensibile, ma poco profondo; mezzo arcade frugoniauo e mezzo francese, scriveva con una facilità, con un profluvio tale, che dagli inesperti veniva facilmente stimato eloquentissimo. Era lo scrittore opportuno per la età sciagurata che sentiva la brama di muoversi, ma non sapeva a che norme attenersi, nè dove dirigersi.»[19]

Ma vediamo se fosse o non fosse arcade e metastasiano anch’egli quel Carlo Innocenzo Frugoni il quale, col rimbombo dei suoi versi scroscianti, spauracchio di bimbi e di partorienti, ottenne fama di robustissimo poeta, sia che dettasse sonetti, come il notissimo:

Foco eran l’ali folgoranti, ed era
Fulminea fiamma il ferro che stringea
L’Angel che in notte orribilmente nera,
Rotta da rosse folgori, scendea, ecc.

[p. 468 modifica]sia che, inspirandosi alla canonizzazione di san Francesco Regis, scrivesse un periodo di sciolti, che a leggerlo

fa venir l’asma, come il seguente:

Oh se ad occhio mortai, cui grave ingombra
Per queste vie del periglioso esiglio
Notte d’umano error, di là dal sole,
Di là dai cerchi eterni, entro l’immenso
Giorno di vita, che le menti elette
Sollieva ed empie di beato lume,
Oggi levarsi, oggi veder concesso
Forse lassù quell’adorabil alma,
Che dell’invitta Francia inclito pregio
D’evangelica luce, infin che visse,
Infaticabilmente ampio tesoro
Per gl’inaccessi andò diserti gioghi
Del Vivarese e del Velay spargendo,
Certo vedrebbe quello spirto ardente,
Che dal supremo onor de’ sacri incensi
Su Fare sante il Vaticano illustra,
Dai gloriosi scanni, ove contento
Dell’Indiche conquiste alto rifulge
Saverio, grande infra i guerrier del cielo,
Volger quaggiù vèr l’onorata Parma
Sguardi di gioia e di pietate accesi.

(N. B. Qui, chi non è morto asfissiato durante la lettura, può riprender fiato, perchè c’è punto fermo.... finalmente! )

A giudicare il Frugoni da questi e da altrettali saggi, onde fan tesoro le Antologie e a cui accennano la maggior parte delle Storie letterarie, nasce spontaneo e profondo nell’animo un convincimento: questo poeta, che deve, a buon diritto, esser chiamato il poetacannone, non può esser mai caduto in peccato di arcadismo. Errore grandissimo! Non vi fu poeta settecentista che più di lui, per smania morbosa di parere [p. 469 modifica]eclettico, s’imbrodasse nelle leziosaggini e nelle melensaggini di Arcadia.

«Questo egregio poeta — scrive il Colombo nell’operetta satirica di sopra citata — sonava campane d’ogni fatta, picciole, grosse, mezzane, e tutte valorosamente, e certo nessuno in quella maniera nobilissima di poetare lo superò.»[20]

E il Gozzi, col suo gusto squisito e veramente oraziano, così fustigava il vuoto fragore e le vuote leziosaggini di ambedue le maniere arcadiche, in tutte due le quali troneggiava il Frugoni:

. . . . . . . . . .la poesia novella,
È una canna di bronzo alta e gagliarda
Confitta in un polmon pieno di vento,
Che, mantacando articoli, parole,
Erutti versi. Se aver don potesse
Di favella un mulino, una gualchiera,
Chi vincerebbe in poesia le ruote
Vòlte dall’acqua che per doccia corre?
Tanto solo il romor s’ama e il rimbombo!
Sulla chiavica dunque: un lago sgorghi
Rimbalzando, spumando, rintuonando
Di poesia. Del Venosin si rida,
Di palizzate e di ritegni artista,
Che a sì ricco diluvio un dì s’oppose.
Ogn’uom sia tutto. Il sofocleo coturno
Calzi c il socco di Plauto: or la sampogna
Di Teocrito suoni, or alla tromba
Gonfi le guancie, o dalle mura spicchi
Di Pindaro la cetra, o il molle suono
D’Anacreonte fra le tazze imiti.[21]

Ma di lui diversamente pensava il Bettinelli. «E quanto al Frugoni — scrive il dispregiatore del [p. 470 modifica]divino Danteper cui può farsi un’epoca nuova alla nostra poesia, chi non ammira la più fervida e più nobil vena poetica, e sempre varia e sempre operante insino all’età ottuagenaria o poco meno, onde ben nove tomi di buona mole di mille diversi componimenti, oltre gl’inediti, abbiamo senza che mai vi incontriam pur un verso stentato o ignobile, una rima non ispontanea, o di rimario, una frase triviale, infin sempre trovando una poesia armonica, franca, splendidissima ancor quando egli è negletto, scherzevole e subitaneo poeta.»[22] Dove è da notare come pel Bettinelli il valore di un poeta si misuri dalla quantità non dalla qualità della sua produzione, onde, giudicando Orazio con questo criterio, egli che ha un solo tomo di poesie, resulterebbe otto volte inferiore al Frugoni.

E il Monti[23], che nella sua prima età poetica era stato preso al rimbombo dei versi del Frugoni, scriveva, nella dedicatoria a Ennio Quirino Visconti: «Chi trovar vuole i difetti di un poeta, deve cercarli nell’eccesso delle qualità che ne costituiscono il carattere. Ogni poeta pone sempre nei suoi versi molte di quelle cose che poco gli costano. Chiabrera, Guidi, Frugoni peccano di soverchio entusiasmo: sono caricati qualche volta e giganteschi. Segno che la lor fantasia era grande e robusta: i loro difetti stessi ne formano l’elogio»; onde, nella stessa dedicatoria, una pagina dopo, esclama: «Petrarca mi tocca l’anima, [p. 471 modifica]Frugoni mi sorprende.» adoperando un verbo che lo rende reo di gallicismo agli occhi del Fanfani, il quale del resto ai gallicismi del Monti, che, nelle prose specialmente, ne è prodigo, ci si doveva essere avvezzato.

Nè meno clamorosamente ed enfaticamente ne ragionava il Cesarotti, che scriveva: «L’uno è l’eccelso Cornante, grand’artefice dell’armonia libera e maestro di quella splendida e immaginosa grandiloquenza che avvera l’antico detto, esser la poesia piuttosto la favella degli Dei che degli uomini.»[24]

Ben diversamente ne giudicava il Baretti, il quale in moltissimi luoghi della sua Frusta tira a palle infuocate sul rimbombante versiscioltaio e ora grida che «con queste frugonerie de’ plettri, delle lire e delle auree cetre si fa perdere il tempo e il cervello a innumerabili giovani in questa nostra Italia,»[25] ora si ride del «Frugoni, che vuole fulminarlo con insulsi poemetti in versi sciolti e con tisiche canzonette parte in versi tronchi e parte in versi sdruccioli, tutte cantate sotto un arbore frondoso, con una soave cetra al collo, in lode di certi uomini cari ai Numi, e di certe donne che il Reno inchina e Trebbia e Taro adora, assicurando gli scrittori della sua numerosa falange che quando Euterpe e Clio e Melpomene si accozzano con la volubil Dea, si sente proprio l’aurea favella che parlan gli Dei.[26]» [p. 472 modifica]Più severamente, ma più rettamente, ne favella il Carducci, il quale scrive: «Non che manchi al Frugoni pur nelle canzonette quel po’ di fantasia coloritrice, per la quale apparve a’ settecentisti come il novatore della tradizione arcadica; ma in fondo, ove meglio riesce, altro non è se non un continuatore del Metastasio e del Polli che fa una svoltata.»[27]

E nello stesso modo aveva pensato l’elegante Vannetti, il quale tuttochè caldo ammiratore dell’Algarotti, e quantunque fra le poesie frugoniane si occupi soltanto dei sermoni, pure li trova intemperanti ed effeminati,[28] e così pensò l’illustre De Sanctis, che nel luogo da me citato, afferma: «spiccatissimo era nel Frugoni il carattere della vecchia letteratura, solennità e pompa di forme nella perfetta vacuità e indifferenza del contenuto,»[29] e altrove aggiunge: «I nostri poeti arcadi esprimevano la loro povertà poveramente; ed erano detti aridi. E forse il Frugoni è meno arido, perchè vi ruba la vista dei suoi cenci, stordendoti col fragore della voce? È una povertà dissimulata sotto il rumore delle parole,»[30] e Giacomo Zanella, pel quale il Frugoni è «buon coloritore, ma vuoto di pensiero e di affetto»[31], e il Guerzoni che, dopo avere osservato come, a suo avviso, [p. 473 modifica]il Frugoni fosse forse dotato «più di memoria che d’ingegno e di quella fluidità acquosa che quelli che s’accontentano delle parole, senza la densità delle idee, chiamano eloquenza,» si domanda perchè di questo «grand’uomo, colmo d’onori principeschi in vita, sepolto come un genio dopo morto, nessuno più legge le opere e perchè cento anni dopo morto sia quasi dimenticato;» al che egli stesso risponde: «per la stessa ragione per cui è dimenticata l’Arcadia, perchè mancava di quella cosa, che sola sopravvive, non solo come sostanza, ma come custode incorruttibile della forma, il pensiero.» [32] E con tutti i precedenti si accompagnano e il Cantù che stima il Frugoni «pronto ingegno, facile estro, buon coloritore ma senza disegno, abborrente dalla lima» e riconosce che «poveri concetti rinvolse in forma meschina» che «scrive talor con enfasi, mai con delicatezza e che di zeppe e di luoghi comuni e fantasie mitologiche fornisse ogni maniera di carmi, onde egli fu considerato come capo di una scuola di acciabattatori di sonetti e poemetti, ove l’ambizione s’associa con una prolissità negletta e una fatiscente sonorità, simili ai fantocci delle vetrine rivestiti di panni sfarzosi, ma dentro sono stoppa;» [33] e il Maffei il quale crede che «nessuno potrà negare che la natura aveva dotato il Frugoni di pronta e fervida immaginazione» e lo riconosce fornito «di tutte le qualità per diventare un grande poeta» ma poi afferma che egli «poco badando ai pensieri, si formò [p. 474 modifica]un frasario poetico pieno di ciancie canore e vuotissimo di cose» e trattò «come tutti gli altri poeti arcadi del tempo suo argomenti pressoché tutti futili, o tristi, o volgari, o sciocchi, o adulatori!, o bugiardi;»[34] e il Tommaseo il quale all’infuori «di pochi saggi fuggevoli di buona poesia» trova poi che nel Frugoni «la nullità dell’affetto ti si fa quasi sentire più forte in mezzo alla vivace armonia e nei luccicanti fantasmi della poesia degli infiniti versi frugoniani nei quali l’improprietà della frase, un profluvio inutile di parole, la gonfiezza del numero, l’avventataggine del tono, dovevano accompagnare una melodia senza scopo;»[35] e il Giusti che scrisse:

«Ma la stella polare alla quale mirava il branco innumerabile

«Del servo pecorame imitatore


«era Innocenzo Frugoni. Con molta vena, con un ingegno facile e pieghevole, ma portato alla vita di poeta da villeggiatura, il Frugoni scrisse, scrisse e riscrisse di tutto ciò che gli capitò sotto; dalla calata di Annibaie, fino a uno speziale che l’assordiva pestando le droghe. Il Monti lo chiamò:

«Padre incorrotto di corrotti figli


«Io avrei le mie difficoltà su questo padre incorretto [p. 475 modifica]e lo chiamerei piuttosto il Lucilio degli Anacreontici e dei facitori di versi sciolti.

«Quum flueret lutulentus, erat quod tollero velles[36]

Opinione che è pienamente partecipata dal Morandi il quale, nello scolpare il Baretti della foga quasi morbosa con cui esso aveva nella Frusta Letteraria perseguitato il verso sciolto, pensa che si debba avvertire che quando il Baretti lo condannava non erano ancora stati scritti i Sepolcri, ed era in voga il Frugoni, padre tutti altro che incorrotto di corrotti figli.[37]

Difatti, fra i 548 sonetti scaturiti dalla vena così facile e abbondevole della fantasia del Frugoni, e che egli distingue in lirici, e son 374, e in religiosi, e son 174 — per lui la religione non era elemento di poesia lirica! — ve ne ha molti siffattamente manierati di arcadici atteggiamenti, da rammentarci come bene a ragione l’abate cortigiano fosse onorato ed acclamato in Arcadia, pastorello epicureo, col nome laudatissimo di Cornante Eginetico.

Basterà leggere quello:

Oh graziosa cagnoletta Ibera, ecc.

e l’altro:

Vezzosetta Cherie, di regia mano, ecc.

e quello che comincia:

D'onde il color, di che sì adorna vai,
Cagnoletta gentil, ecc.

[p. 476 modifica]

e l’altro:

O cagnoletta che a colei piacesti, ecc.

e l’altro ancora:

Vago Sinèn, come il destin tuo volle

e quello:

Caro, leggiadro e vago cagnoletto

e, infine, i sedici sonetti, che il poeta appella anacreontici, fra cui ve ne ha uno in lode di un canarino!

Ma il metastasismo frugoniano nei sonetti è nulla in confronto di quello onde son tutte piene settanta o ottanta delle canzonette, delle anacreontiche e delle liriche d ogni maniera di cui son ricchi i due volumi pubblicati in Venezia, appresso Simone Occhi nel 1779, per cura di Giuseppe Marotti, professore di eloquenza e di lingua greca nell’Università del Collegio Romano, sotto il titolo: Le canzoni ed altre poesie di Carlo Innocenzo Frugoni. E cito da questa scelta, per non affogarmi nel mare magno dei nove volumi onde componesi tutta la brodaglia versaiuola del genovese, e che furono pubblicati in Parma, dalla Stamperia Reale, 1879.

Leggendo il secondo di quei due tomi il signor Lodi troverà una canzonetta del Frugoni dedicata Al signor Abate Pietro Metastasio, atteso dall’autore, la quale comincia così:

Oh! perchè van men rapide
Del caldo mio desire
L’ore, ed ancor mi tolgono
Te sulla Parma udire,
Sul cui labbro son use
Mèle versar le Muse?

[p. 477 modifica]

e che finisce:

Dalla tua bocca pendere
Me vedrai, come suole
Chi ascolta e meraviglia:
E le dotte parole
Raccogliendo, di loro
Nel cor farò tesoro.

E io posso accertare il signor Lodi che il poeta genovese mantenne la sua parola, perchè fece in seguito grande tesoro della maniera metastasiana, della quale, anzi, aveva già fatto grandissimo tesoro, anche prima di quella promessa, sia quando dettava la canzonetta Al Conte Rossi:

Rossi, te desiosa
Nobile donzellerà
Fra lieto coro aspetta
In gonna aurea, pomposa,
Qual rosetta anco ascosa,
Starsi aspettando suole
Pura, argentea rugiada,
Che in sen le piova e cada
Pria che la tocchi il sole, ecc.

sia quando Per Monaca scriveva:

Tu d’anni tenera
Che fior somigli
Che or or spuntò,
Tu schiva e rigida
Gir ti consigli
D’onde ritorno a noi far non si può?...

sia allorché alla celebre poetessa Faustina Maratti Zappi, fra gli arcadi Aglauco Cidonia, scriveva:

Che non vieni, Aglauco bella,
Valorosa pastorella,
All’adriaca città,
Che del mare nata in seno
Di se posto ha l’aureo freno
Nelle man di libertà? ecc.

[p. 478 modifica]

sia che, vestendo in Parma l’abito religioso la signora Teresa Borghi, egli canti:

Dove, o mio fervido
Genio, mi chiami?
Tu che sol ami
Il vago stil:
Lo stil che tenero
D’amor seguace
A lieto piace
Canto gentil? ecc.

sia che, In lode di bella dama di Casa Scotti, susurri:

Per l’ombre tacite
Or segna Cintia
L’azzurre e liquide
Strade del ciel;

Le stelle seguonla
Lucenti e tremole
Ed ella ammantasi
D’argenteo vel: ecc.

sia che descriva A Dori, Amor mendico, belando:

Amor mutò mestiero
Non è più qual si crede,
Quel faretrato arderò
Che saettando va.
Sotto mentito aspetto
Fa da mendico in terra,
E chiede il poveretto
Per via la carità!

sia che alla Nobil Donna, la signora Contessa Rossi, narri:

Qual se mentre un usignuolo
Va sfogando in suo linguaggio,
Il suo dolce antico duolo,
Lusinghier cantor selvaggio,
Tace, e ferma suo bel canto,
Se altro ascolta amabil canto, ecc.

[p. 479 modifica]

sia che plori, In morte del signor avvocato Zappi:

O Pastor misero,
Che si repente
Lasci il tuo candido
Gregge innocente;
Quel che si florido
Le valli empiea,
E timo e citiso
Lieto pascea, ecc.

sia che, indirizzandosi Ad Atelmo, descriva:

Arbor felice e giovane,
Che crebbe sotto ai tiepidi
Soli al favor di zefiro
In umido terren,
Finché il bel raggio nudrela,
Finché l’aure la pascono,
Finché Fonde ravvivano,
Quanto bella divien!
Tutta appar verde e vivida,
Ed al suo rezzo godono
Venir silvani e driadi,
Venir greggi e pastor:
E fra i suoi rami s’odono
Cantare augei dolcissimi
Che nascosi deludono
L’avaro cacciator, ecc.

sia che, favellando sulla Infelicità degli Innamorati, gorgheggi:

Chi rimira un bel sembiante
So che presto l’amerà:
La conquista d’un amante
Costa poco alla beltà, ecc.

sia, infine, che, per La Pacificazione di Bazzicotto, incominci:

Bazzicottin, tu vuoi
Vedere ai piedi tuoi
Scese dall’alto al basso
Le dame del Parnasso? ecc.

[p. 480 modifica]e ripeto che, fin qui, io non ho fatto altro che spigolare a caso, qua e là, nei campi abbondevoli e fecondi del paffuto, rubicondo e ghiotto amico di Bazzicotto, il caffettiere e cuoco, famoso per la cucina dei succulenti arrostini.

Ma non basta: è tanto vero che all’influenza arcadica e metastasiana a nessuno dei poeti, che fiorirono nel secolo decimottavo, fu dato sottrarsi, che anche il Minzoni e il Fantoni ebbero a subire essi pure, forse inconsapevolmente, i fluidi magnetici, dirò così, che si sprigionavano dalla musa del poeta cesareo, dalla cui aureola di gloria si diffondeva una luce che radiava su tutta la penisola.

Onofrio Minzoni, canonico penitenziere della metropolitana di Ferrara, è quel tal poeta robusto, immaginoso, vigoroso (fin troppo!), che tutti conoscono, al quale il Monti, sempre intemperante, esagerato, enfatico nelle lodi come nei biasimi, nella dedicatoria con cui gli inviava il suo capitolo Ad un amico che prendeva moglie, nel 1799, a similitudine di uno del Minzoni stesso, che principia:

Che diavolo fu quel che enti-omini in petto, ecc.


così scriveva: «Tutti quelli che leggono i vostri versi, e atti sono a distinguere il bello della poesia italiana, convengono, egregio signor abate, che voi siete un gran poeta. Novità di pensieri, evidenza di immagini congiunta con una mirabile economia delle medesime, franchezza e felicità d’entusiasmo, maestà di verso e robustezza di colorire, formano il vostro carattere. Se io dovessi paragonarvi ad un pittore, [p. 481 modifica]non sceglierei altro che Michelangiolo (!!!); e se non fosse una favola il sistema di Pitagora, si potrebbe dire che voi siete stato al mondo da circa tre cent’anni fa, e che avete scritto l’Orlando Furioso (!!!)»[38] E scusate se è poco! Delle quali ridicole esagerazioni fa giustizia terribile il Foscolo nel suo articolo critico Intorno ad un sonetto del Minzoni. il sonetto è il famoso

Quando Gesù con l’ultimo lamento, ecc.


e il Foscolo, analizzandolo con sottile acutezza di critico, ne palesa i gravi difetti. E a proposito della frase Con la pentita man l’autore dei Sepolcri osserva: «Ad ogni modo noi saremmo anche indotti a perdonare a siffatta mano pentita, ove non si fosse levata a far danni ed onte; danni ed onte vergognosissimi (per le ragioni già di sopra da lui enunciate e per gli esempli addotti) in un sonetto, de’ quali si avranno esempii nell’Ariosto e nei poemi lunghi, ove non istaranno male; ma che in un sonetto fanno sentire il bisogno che aveva il poeta della rima, e la trivialità di una frase ereditata in comune con tutti i pastori e con tutte le pecore d’Arcadia[39]

Con molta maggiore avvedutezza di critica ne ragiona il Cardella, che ammira, nelle rime e nei sonetti del Minzoni «un carattere di originalità, di nobiltà, di forza, «che forma il lor pregio. Non dee peraltro negarsi - egli soggiunge - che non vi si scorga talvolta un [p. 482 modifica]certo colorito forzato che ne diminuisce la naturalezza, ed una certa maniera enfatica, che il fa incimare alquanto al turgido e all’ampolloso.»[40] Opinione alla quale, quasi con identiche frasi, partecipa il continuatore del Corniani.[41]


Checchè ne sia, questo gagliardo j)oeta, questo severo’ prete, il quale fu tanto parco e sobrio nel verseggiare quanto prodigo e sciupone era stato l’inesauribile Frugoni e ci lasciò solo un volumetto di versi[42], andò, a quei tempi, assai famoso per sonetti sostenuti, vigorósi, altisonanti come il già citato e al quale si riferisce la critica del Foscolo:

Quando Gesù, con l’ultimo lamento
Schiuse la tomba e la montagna scosse, ecc.

o come l’altro, pur da tutti risaputo:

Sfavasi con le man sotto le ascelle
Mandricardo alla riva d’Acheronte, ecc.

E, pur tuttavia, a chi cerchi bene entro quel volumetto non sarà difficile lo scorgere come, sotto l’austerità biblica e la vigoria fatidica, si faccia udire, di quando in quando, il suono flebile della zampogna e la molle cantilena del pastore.

Si legga, ad esempio, il sonetto Andando a villeggiare con grande strepito una sposa novella, il quale comincia:

Ogni Ninfa balzò fuori dall’ondc:

[p. 483 modifica]

oppure la canzone:

Mansueta verginella
Più leggiadra dell’aurora
Che di rose e gigli infiora
Il dorato e crespo crin, ecc.

e anche il sonetto, Per nozze, che comincia:

Candido ricciutello cagnoletto, ecc.


e l’altro, Per una dama eccellente cantatrice:

Frenar la melodia seppe i torrenti, ecc.


e quello anacreontico:

Cagnolina, assai mi piaci, ecc.


e, in tutte queste poesie, si troverà correttezza, limpidezza e gentilezza di forma. ma impronta, immagini e locuzioni prettamente arcadiche.

Anzi, il Minzoni ha saputo far di più: poiché è riuscito a dare frase, colore e sentimento metastasiano agli sciolti, del rimanente assai belli nella loro leggiadra mollezza, dedicati A San Luigi Gonzaga e che cominciano:

Oh fanciulletto, che d’un colle all’ombre
Tra fresche brezze e gorgheggianti augelli
In bel giardino sollazzando vai,
Ed or persegui i timidi conigli,
Or la pace di limpida peschiera
Con pietruzzole turbi, or ti raggiri
Per le fallaci vie di un labirinto-,
Or d’aiuola in aiuola trasvolando
Fiori spicchi, erbe cogli e poi ten fregi
Il molle seno o il ricciutello crine,
Deh! se teneri baci io mai t’impressi
Su le bianchette vermigliuzze guancie, ecc.

[p. 484 modifica]alla stessa guisa proseguendo usque ad finem, fra concettini gentiletti ed elegantuzzi, abilmente intarsiati in

quoll’arcadico e convenzionale mosaico.

E veniamo al Fantoni, in Arcadia Labindo, del quale David Bertolotti — che pubblicò, più tardi, un non spregevole poema, intitolato Il Salvatore — ammira «i felici tentativi, i metri ingegnosamente trovasi, l’arditezza dei lirici voli, l’eleganza dei modi, l’aggiustatezza dogli epiteti, la nobiltà dei sensi, la facilità degli sdruccioli da lui sì maestrevolments adoperati,» onde esso entra nella persuasione che le odi di Labindo «saranno lette e gustate da quanti avranno sortito tempro delicate e gentili, finchè suonerà per le bocche degli uomini la bella lingua d’Italia,»[43] e del quale il sommo Alfieri, in un momento di irriflessione e di oblio aveva detto, nell’ode intitolata La Licenza in risposta a quella di Labindo, intitolata Il Fanatismo:

Ricca vena instancabile
Pari alla tua, Fantoni, ah deh mi avessi
Per ei ta etrusco Orazio
Al venosin emuli carmi intessi;

cosa che sarebbe stato un gran guaio per la italiana letteratura, perché avrebbe fatto perdere al grande Astigiano la sua impronta di originalità.[44] E l’entusiamo momentaneo dell’autore del Saul trova il suo correttivo nella critica severa che sulle poesie del Fantoni e sulla loro metrica oraziana, di rado felice, spesso [p. 485 modifica]infelicissima, dettò il cantor delle Grazie nel suo articolo bibliografico intitolato appunto Poesie di Giovanni Fantoni cognominato Labindo.

Fra le altre cose il Foscolo, dopo aver rimproverato


colpa, sebbene gravissima, noi incontriamo nella poesia di Labindo un merito più che arcadico. Molta passione, molto estro, molta vivezza d’immagini, quantunque poca o nessuna originalità: cognizione di lingua, sebbene di non finissimo tatto e non di quel difficile contentamento che in punto di espressione fa distinguere cotanto il nostro aureo cantore del Giorno, formano i principali caratteri delle sue produzioni. Osservando peraltro che i suoi sciolti sono costantemente le sue migliori cose, ci cade il dubbio che la mediocrità del resto sarebbesi forse potuta trascendere da lui, ove non avesse incontrato il vincolo della rima, o la difficoltà de’ metri stessi de’ quali si volle capricciosamente incaricare. La maggior parte delle sue rime viene di fatti quasi sempre ritrosa, ed ha poi il difetto notabile di farle. troppo spesso cadere in tali epiteti, che nulla aggiungono a’ sustantivi e servono anzi a stemperare piuttosto il pensiero ed a caricare le idee di inutile volume[45]

[p. 486 modifica]E giudiziosamente, sebbene assai favorevolmente, scrive delle poesie fantoniane il citato Cardella. «In molte di esse trasferì all’italiana lira i metri del Lazio, come l’asclepiadeo, il saffico, l’alcaico, per cui tacciato venne da alcuni di essersi arrogata una soverchia licenza, e di aver ciò operato contro l’indole della nostra poesia, la quale non riconosce il suo numero e concento dalla quantità delle sillabe, ma bensì dalla diversa collocazione degli accenti e della rima. Ma, oltreché un tal tentativo non era nuovo fra noi, avendone in altri tempi dato l’esempio il Di Costanzo, il Tolomei, il Chiabrera ed il Rolli, forse i di lui censori non osservarono che i metri usati dal Fantoni erano latini di puro nome, non essendo in sostanza altro che meri versi italiani endecasillabi, settenari, quinari, eco., piani e sdruccioli, soltanto accozzati fra loro in istrofe alla foggia dei greci e dei latini, ed ornati inoltre della vaghezza e sonorità della rima. Ed invero, eccettuati quattro o cinque componimenti di metro capriccioso ed insoave, gli altri hanno suono ed armonia, e di più il pregio notabile dello sdrucciolo rimato. Ma dalla materiale struttura dei versi, passando a considerarne le intrinseche qualità, troveremo contenersi generalmente nelle odi di Labindo vivacità di pensieri, energia di espressioni, aggiustatezza di epiteti, purità di lingua, cultura di frase ed eleganza di stile. Più stimabili per altro sarebbero, se possedessero l’originalità dell’invenzione che quasi sempre in loro si desidera, non essendo la maggior parte di esse che squarci di odi oraziane nobilmente parafrasate.»

[p. 487 modifica]E saviamente osserva che «se il Fantoni si fosse applicato a darci un’intiera versione del lirico venosino, sarebbe riuscito per eccellenza in sì malagevole impresa; ed egli il primo ci avrebbe fatto gustare nel nostro idioma le incantatrici bellezze di quel sommo poeta, cbe finora non ha trovato un induttore degno di lui.»[46]

E più sensatamente, a mio intendimento, ne ragiona il Fornaciari quando scrive del Fantoni che «innamoratosi fino da giovane del maggior lirico latino, lo imitò così largamente e frequentemente, non solo ne’ sentimenti ma pur anche nella struttura de’ metri, che per ciò gli venne dato il nome, non troppo «meritato, di Orazio toscano.»

E poscia nota che «se non gii si può negare facilità e sonorità arcadica, e una certa forza frugoniana che lo fecero a quei tempi leggere e lodar molto, si desidera però in lui quel gagliardo sentire e quella schiettezza e semplicità di espressione che ebbe il Monti: lo stile diviene spesso gonfio e declamatorio, e non lascia impressione durevole. Onde .. non è meraviglia, se quella gran lode che ebbe, è andata a poco a poco scemando, sicché oggi appena si leggono le principali fra le sue Odi.»[47]

Giudizio conforme a quello che ne reca il Tallarigo il quale scrive di lui.... «e Giovanni Fantoni di Fivizzano, conosciuto col nome arcadico di Labindo, che dissero l’Orazio italiano, solo perchè tolse a suo [p. 488 modifica]modello il principe de’ lirici latini, imitandolo fin nella struttura de’ metri; ma se togliete la facilità e sonorità arcadica alle sue odi non resta altro di durevole.»[48] E il nome di Orazio toscano contende a Labindo anche l’arguto critico che, sotto la iniziale M. (forse il Montani) nel fascicolo XXXXIV, agosto 1824, dell’Antologia, esamina le poesie del Fantoni paragonandole a quelle del Venosino, che il Fivizzanese aveva voluto evidentemente imitare e parafrasare. E, in mezzo a molte lodi largite, qua e là, ad alcune strofe fantoniane, ora si nota che il fondo del carattere del Fantoni par che fosse una gran leggerezza, ora la puerile e scolastica imitazione di lui, e quando la mancanza nel toscano dell’ornamento e del giudizio del poeta latino e quando il palese artifizio.

E se il Tommaseo si palesa piuttosto indulgente verso Labindo, il quale le innovazioni dal Chiabrera tentate sulle orme di Pindaro tentò a modo suo dietro a Orazio, rimanendo, a giudizio del critico dalmata, pero inferiore a Chiabrera perchè non profittò della, cresciuta civiltà e non espresse nei suoi versi affetti ed idee che non poteva indovinare il buon genovese[49] lo Zanella non gli è molto favorevole e scrive: «Poco letti parimenti sono i versi di Gio. Fantoni più noto col nome arcadico di Labindo. Fu detto l’Orazio toscano, perchè tolse ad imitare i metri del poeta latino e per certe massime epicuree sparse nelle sue odi. Ma chi voglia conoscere quanto sia [p. 489 modifica]ingiusto quel titolo paragoni il dialogo oraziano far Lidia e il poeta con l’imitazione che ne fece Labindo. [50]

Con serena imparzialità d’animo e con finissima indagine critica tratta del Fantoni diffusamente il Carducci nel bellissimo scritto La Lirica classica nella seconda metà del secolo XVIII,[51] ove discorrendo le vicende della vita del Conte Fivizzanese ne segue lo svolgimento delle attitudini intellettuali, analizzando l’indole del poeta e scrutando le ragioni dei varii e successivi atteggiamenti della lirica di lui. «Il quale, come vedete - scrive il Carducci - era tutt’altro che un classicista: la varietà anzi dei suoi gusti e la grossolanità dei suoi appetiti letterari furono per avventura cagione ch’ei non digerisse mai sanamente il cibo intellettuale e non avesse quindi mai vera nutrizione artistica. Giovane ancora ricordava spesso i poeti tedeschi d’innanzi al 1770; le canzoni, per esempio, del Gestemberg e il tokai versato nei nappi sassoni fra il romore dell armi all’incito lusinghie o della cetra di Gleim. Maturo, nell’ode intitolata a suo padre per l’inondazione del Po e del Mincio, ode che il Costa non sa lodare abbastanza rispetto ai concetti e al modo onde sono ordinati, imitava o piuttosto lucidava una brutta poesia dell’Anna Karschin improvvisatrice sur una bufera che colpì Berlino nel 61. Professore, nel 1801, poneva ai territorii poetici sì fatti termini: da Omero fino a Klopstock [p. 490 modifica]e a Cesarotti, da Esiodo fino a Deharmer, da Teocrito fino a Gessner, da Anacreonte fino a Gleim, da Pindaro fino a Manfredi ecc.»[52]

E, poco più oltre, accennando al disegno dal Fantoni concepito a Roma, nel 1788, di scrivere tante egloghe quante Virgilio e una specie di Georgica a imitazione de! mantovano, soggiunge:

«Il poema didattico, quando non lo faccia Virgilio o il Rucellai, è artisticamente una falsità non resa sopportabile che dallo stile; e quel dello stile non era da vero, per lo meno in opera lunga, il lato forte del nostro poeta. Pure, anche in quel piano, come in tutte le cose di Labindo, si ravvisa qua e là un po’ di sentimento della natura e del vero, galleggiante sur un’alluvione di scorie accademiche; v’è, a canto alle smorfie leziose, qualche vestigio di affetto.[53]»

E queste ed altre osservazioni critiche, sparse nel suo dotto discorso dall’autore delle Odi Barbare intorno al Fantoni e le quali rivelano chiaramente il suo pensiero su questo poeta, che egli ritiene più assai che originale imitatore e accademico, non gli impediscono, come non impediranno a nessuno e nemmeno a me, - il quale ho anzi nutrito sempre viva simpatia pel Fivizzanese - di riconoscere che «il cuore del Fantoni era, come si vede, pronto sempre a rispondere ai sentimenti più nobili e umani, come aperta era la mente di lui alle ispirazioni della filosofia e del«l’avvenire.»[54]

[p. 491 modifica]Ciò che nulla detrae alla verità della mia affermazione - anzi nel complesso la conferma - circa al manierismo arcadico e metastasiano, al quale non potè e non seppe sottrarsi neppure questo poeta, che tanto studio pose a riuscire orazianamente nervoso e robusto.

Di fatti basterà aprire il volume delle poesie di Labindo [55] per trovarvi nell’ode A Venere che comincia:

Diva dal cieco figlio,
Speme c timor di verginelle tenere, ecc.

una strofa - l’ultima - come questa, nella quale Amore gli imponeva di cantare:

Ma un sen di latte tumido,
Su cui fra i fiori azzurro vel s’intreccia,
Due negre ciglia, un umido
Labbro di rose ed una bionda treccia.

E vi si leggerà quella A Carlo Emanuele Malaspina Marciuse di Fordinovo, del tenore seguente:

Carlo germe d’eroi, terror di belve,
Dall’infallibil braccio:
In vano fiuta per l’incerte selve,
Rendi Melampo al laccio.
 Crescono l’ombre, con le fosche piume
L’aura carezza il margine:
Questa è la mia capanna, accanto ho il fiume,
Ma la difende un argine;
 Sacra è agli amici: ti ripesa. Intanto
Mando le reti a tendere.
Fille t’affretta: chiama Elpino. Oh quanto,
Quanto mai tarda a scendere!
Ma giunge! Vanne ove la rupe bruna
L’onde canute insultano:
Le insidie intorno ai cavi sassi aduna:
Le trote ivi si occultano.

[p. 492 modifica]

Tu prepara, idol mio, la mensa: i lini
Disponi: un bacio donami;
Spoglia di mirto i rannodati crini,
Ed il bicchier coronami.
Mentre il Batavo dorme, ecc.

perchè nella seconda parte, dimentico completamente dell’ospite Malaspina, che ha lasciato a sedere, dimentico di Fille, intanto che aspetta Elpino con le trote, con brusco passaggio il poeta entra a spoliticare nella sesta e settima strofa, per filosofare nelle due ultime.

Ma, ora domando io, che cosa manca a queste cinque strofe per potere essere tenute degnissime del Zappi, del Di Lemene, e di qualsiasi più zampognante pastorello d’Arcadia?... All’infuori degli sdruccioli rimati, all’infuori di qualche epiteto disgraziatissimo, come fosche applicato alle piume, bruna alla rupe, e canutenota all’onde, le quali son le sole cose che potrebbero dare un’aria di stravagante originalità alla poesia fantoniana, queste cinque strofe e per le immagini e per la locuzione e per il colorito sono proprio prettamente arcadiche e stanno lungi assai dalla poesia metastasiana per mancanza di spontaneità e di naturalezza e per quel che di contorto e di legato che hanno e che mal nasconde lo stento e lo sforzo.

E lo stesso si dica di quella Ad Apollo:

Lascia di Delfo la vocal cortina
Febo che lavi il biondo crin nel Xanto;
Reca salute alla gentil Nerina
          Padre del canto.
Langue il bel volto fra moleste doglie
Qual bianco giglio che la grandin tocca:
Rosa rassembra d’appassite foglie
          L’arida bocca, ecc.


[56] [p. 493 modifica]

E quella, a mio parere, leziosa e sguaiatissima, Il Giuramento tradito:

Quanto è vitrea la fè di un giuramento.
Yoi che d’amor vivete,
La tenera cagion del mio tormento
Su quel faggio leggete.
 — Quando di Tirsi oblierà le pene
Fatta di un altro ancella,
Quando viver potrà senza il suo bene
Licori pastorella,
Del placid’Arno correranno al monte
I ribellati umori. —
Arno t’affretta a ritornare al fonte;
M’abbandonò Licori.

E l’altra A Fosforo:

Figlia di Giove, reggitrice bionda
Delle grazie e dell’ore,
D’occhi più azzurri della nordic’onda,
Bella madre d’amore; ecc.

E quella A Fille Siciliana:

Sereno riede il pampinoso autunno
Alle donzelle e agli amator gradito;
Erran sui colli del Vesevo ignito
Bacco e Vertunno, ecc.

E l’altra Ad Apollo medico:

Pietà, Febo, pietà del mio periglio!
Deh, reca all’egra mente
Salute, e ai mali miei reca consiglio
Amo impazientemente, ecc.

E la canzonetta A Fille:

Eco, vezzosa vergine
Amava il bel Narciso,
Ma il figlio di Cefiso
Non conosceva amor, ecc.

[p. 494 modifica]

E l’altra Alla Stessa:

Già la febbre pallidetta
Volge altrove il pigro volo
Già dei giuochi il lieto stuolo
Va muovendo l’agil piè, ecc.

E l’altra La liberazione d’Amore:

Sciogliete un cantico,
Ninfe vezzose,
Cinta .la candida
Fronte di rose, ecc.

E quella A Fille, per la morte di Tisbe sua cagnola:

Di Febo il rapido
Carro lucente
Tre volte al pallido
Flavo oriente
Già fe ritorno
Col nuovo giorno, ecc.

E l’altra a Palmiro Cidonio:

Erge la fronte candida
Già l’Appennin di nevi
Spingon ormai più brevi
I freddi giorni il voi! ecc.

E poi le canzonette:

Nunzio ornai di primavera, ecc.

e

Mirto cresciuto al tepido, ecc.

E poi altre venti, altre trenta, piene zeppe di locuzioni e di forme arcadiche. Perchè, in fin fine, tutte le poesie del Fantoni, quale più quale meno, recano l’impronta arcadica, qua e là, in questa o in quella strofa, [p. 495 modifica]e hanno a iosa epiteti, metafore, frasi metastasiane, e mio bene, e idol mio, e me misero e dolci lumi, e cieco ardore e avverse stelle e irati numi e il seno tumido e i languidi rai e libare il calice e il pigro gelo e la gelida mano, il crudo strale e l’infabbil telo e mille altre di queste frasi fatte, formanti il fondo comune delle pastorellerie raccolte e custodite gelosamente negli antri muscosi del Bosco Parrasio.

Perchè, in fin fine, il diluito parafrasatore d’Orazio ha, come disse egregiamente il Carducci, qua e là un po’ di sentimento della natura e del vero, ma galleggiante sur un’alluvione di scorie accademiche e parmi che possa benissimo dirsi che in lui le due maniere più accentuale dell’Arcadia, la svenevolezza lemeniana e il rimbombo frugoniano si raccolgano e si fondano e formino un fiume di acquerelle dolciastre, intorbidato e fatto turgido dal soffio di ruggenti aquiloni.

Dunque, perchè è tempo di riepilogare, non soltanto l’Algarotti e il Cassiani furono arcadici e metastasiani, ma e il Bettinelli e il Frugoni eziandio e per fino il Minzoni e perfino il Fantoni, e un pochino anche il Parini, del quale il Carducci, esaminando con sottilissima acutezza di critico, La vita rustica, L’impostura, Le nozze, Il brindisi, mette in rilievo e le locuzioni e le immagini e perfino delle intere strofe, che non escon punto dai cerchiolini dell Arcadia.[57]

E, ciò che giustifica anche di più l’esattezza della mia affermazione, furono un pochino arcadici il Foscolo e il Monti, perchè resta sempre vero ciò che [p. 496 modifica]disse il Carducci e che io sopra riferii, anche il Parini, come tutti, salvo l’Alfieri, i nostri poeti del secolo decimottavo, move dall’Arcadia.

E che anche il Foscolo movesse dall’Accademia e dall’Arcadia lo dimostra stupendamente il De Sanctis nel saggio critico che appunto da Ugo Foscolo si intitola.[58] E lo dimostra irrefutabilmente il Carducci nello scritto Adolescenza e Gioventù poetica del Foscolo, là dove dice: «Del proprio il Foscolo giovinetto compose molte anacreontiche su l’innanzi del Vittorelli e del Bertola, tredici odi savioliane - così egli molte odi oraziane, cioè a mo’ di Labindo e idilli gesneriani e strofette fra rolliane e frugoniane a mo’ pur del Bertola; i quali modi tutti erano dell’Arcadia trasmutantesi al filosofismo sentimentale.»

E, proseguendo, più avanti mette in luce tutte le imitazioni accademiche del poeta di Zante, fino a quando nel 1800, gli venne dettata quella mirabile ode alla Pallavicini, con la quale si può dire quasi che si rivelasse un nuovo Foscolo.[59]

E che dall’Arcadia movesse anche il Monti, e che questi, forse più del Foscolo, si ricordasse, di tanto in tanto, in seguito, di esser di là derivato, lo proverebbe - a chi volesse farlo - un attento studio delle numerose poesie dell’illustre fusignanese e lo prova l’opinione di non pochi e dotti critici su tal proposito.

[p. 497 modifica]E primo il Carrer, il quale, in uno dei suoi così sottili e così bene avvisati articoli critici, precisamente dagli Arcadi intitolato, domanda: «Chi saprebbe dire che cosa sarebbe stato della poesia italiana, se dalle mani del Marini fosse passata, senza l’intervallo degli Arcadi, in quelle del Monti? Non a caso citiamo il Monti, poiché la magniloquenza e l’armonia dei suoi versi fanno meglio sentire la forza della nostra domanda. Gran che! scriveva di lui il sommo Parini, questo poeta rade sempre il precipizio e mai non vi cade! Tra gli Arcadi cominciò il Monti le sue poetiche prove, portando però fra loro quella sovrabbondanza di naturali disposizioni, bastante, se male usata, a far traviare tutto un secolo.»[60]

Opinione alla quale fa eco l’Emiliani-Giudici, che scrive, parlando del Monti: «Standomi dunque alla preaccennata divisione dei suoi scritti, ammessa dallo universale consentimento degli Italiani» (quella, cioè, per la quale nella vita del Monti si vogliono considerare tre età: quella dell’abate Monti, quella del cittadino Monti e quella del cavalier Monti) «dirò che quando il Monti giunse in Roma, l’Arcadia era in grandissimo onore. Nondimeno egli aveva sentito il progresso letterario operato dal Parini, dal Cesarotti e dall’Alfieri, e allorché cominciò a poetare si mise nella via di quelli, comechè la voga in Roma lo forzasse a vagare congiunto ai queruli e clamorosi pastori fra le delizie del Bosco Parrasio. Come egli avanzava negli anni, il lungo studio ne’ classici lo [p. 498 modifica]avvertì che le frasche arcadiche erano inutilissime, e ne ebbe disdegno.»[61]

E concorde con questi profondo è il fantastico e pur così profonde De Sanctis, il quale, nel su citato Saggio sopra Ugo Foscolo, parlando dell’apparizione del carme I Sepolcri, dice: «L’Italia non aveva ancor visto niente di simile. La lirica, quale te la dava Monti Cesarotti, era cadenza melodrammatica, un prolungamento di Metastasio. Sotto forme dantesche, il fondo rimaneva sempre arcadico, puramente letterario. La coscienza era estranea a quel lavoro dell’immaginazione: malattia dello spirito italiano da gran tempo.»[62]

E d’accordo coi precedenti è il De Gubernatis, che scrive: «Cresciuto in Arcadia, ma ammiratore di Dante, Vincenzo Monti, il poeta di maggior vena dell’età sua, fu pariniano e pindarico nell’ode a Montgolfier, dantesco nella Basvilliana, nella Mascheroniana, nel carme sulla Bellezza dell’Universo, arcade nelle canzonette, pomposamente drammatico ne’ sonetti, eoc. ecc.»[63]

Nè cito altre autorità perchè il fatto è innegabile e sancito dalle parole sopra riportate del Carducci. «Anche il Parini, come tutti, salvo l’Alfieri, i nostri poeti del secolo decimottavo, move dall’Arcadia....»

Sebbene, volendo, si potrebbe appoggiarsi all’autorità del Carrer e sostenere che anche l’Alfieri derivò, [p. 499 modifica]a sua insaputa e contro sua volontà, qualche cosa dal Metastasio. Il valoroso letterato veneziano, difatti, nello scritto critico dal titolo Le Tragedie di Vittorio Alfieri, dice: «Ma chi si facesse a paragonare lo stile dell’Alfieri e quello del Metastasio, e vi trovasse una grande rassomiglianza,, specialmente nell’espressione dei sentimenti alti e robusti? E non sarebbe da cercarne altrove la cagione che nel poco di poesia che vi ha in ambedue questi stili. Bensì in ambedue somma parsimonia, chiarezza, rilievo. Nel Metastasio poi, passando dallo stile al concetto, più vaghezza che passione, o passione a fior di pelle; quando nell’Alfieri amore e amicizia che scuotono, e direi quasi vibrano, tutta l’anima; lagrime che sgorgano meno pronte e copiose, ma da più riposta sorgente, e bru«ciano là dove passano.»[64]

Ma io non dirò questo; e, per ciò che riguarda il grande Astigiano, potrò trovare, forse, qua e là, anch’io qualche analogia o somiglianza, fra lui e il Metastasio, non certo imitazione.

Ad ogni modo, il fatto indiscutibile di questo ascendente — al quale a nessuno fu dato sottrarsi — esercitato dall’Arcadia e dal Metastasio su tutti gli scrittori del settecento e cui chiaramente accennavo io nel mio povero articolo sul Metastasio e sul Metastasismo, e di dove scaturì la critica del signor Lodi, è un fatto così evidente e irrefutabile nel campo storico e così lucido, razionale e necessario nel campo logico, che non avrebbe avuto bisogno di essere in nessuna guisa dimostrato.

[p. 500 modifica]E la ragione ne sta in ciò che il Foscolo scrive nel suo Saggio sopra la poesia del Petrarca: «Se il Petrarca non avesse abusato senza modo delle antitesi, troppo di frequente ripetute le iperboli, troppo spesso paragonata Laura al sole; i numerosi plagiarii di lui, che però non seppero mai imitarne le bellezze, non sarebbero stati cotanto insigni pei loro vizii: e a Salvator Rosa sarebbe mancata cagione di dolersi nelle Satire che

«Le metafore il sole han consumato

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

«Se non che anche il Petrarca fu tenuto a scontare il misero debito di quasi tutti gli scrittori col piegare il proprio sentire a quello de’ contemporanei.»[65] Il quale concetto è anche più chiaro nelle parole del Carrer «Perchè, diasi pure qualsivoglia singolare attitudine d’intelletto, è forza all’uomo d’imbeversi, così nel bene come nel male, di quegli esempi onde vedesi circondato ad ogni ora: il che se non fosse, falso o fatuo sarebbe l’adagio di quell’antico che chiama l’uomo animale imitativo per eccellenza, adagio che fra i più veri fu sempre tenuto da ogni nazione. Forse non sarebbe malagevole il dimostrare che dal bene si trabocca nel male con maggior celerità che da questo non si faccia ritorno a quello, ecc.»[66]

E siccome il Metastasio era il più alto, nel concetto [p. 501 modifica]del pubblico, fra i poeti e gli arcadi di quell’età, e perchè egli godeva di fama europea, e perchè, effettivamente, era il più leggiadro, il più affettuoso, il più spontaneo — come dicevo appunto io nel mio articolo — così è naturale che tutti, specialmente dal 1750 al 1780, i poeti, i verseggiatori, grandi e piccoli, si volgessero a lui, in lui si appuntassero, come a maestro massimo, come ad esemplare unico di arte insuperabile.

Se il signor Lodi vuole una prova sola di questa irresistibile attrazione esercitata dal Metastasio su tutti, potrà averla ove egli rammenti la dedicatoria con la quale il Monti — aveva allora 25 anni — inviava nel 1779 al Metastasio il volume Saggio di poesie, pubblicato in Livorno, dai torchi dell’Enciclopedia, contenente anche il componimento drammatico Giunone placata.... Rileggendo quella dedicatoria, il signor Lodi vi riscontrerà periodi come i seguenti: «E certamente che le sue opere gittano la disperazione nella fantasia di chiunque ardisce cimentarsi in questo genere di poesia. Orazio, parlando di Pindaro, diceva che era un voler fare il volo di Icaro il tentar d’imitarlo. Altrettanto convien dire di lei, e con più di ragione. Orazio, forse, coll’esempio di se stesso smentì ciò che disse di Pindaro. Ma un’anima così delicata, così limpida, così tenera e trasportata come la sua, non vi è, nè vi sarà mai, perchè la natura ne ha perduto il modello, per quel che penso. Il solo autor della Giulia, se avesse aspirato al vanto di poeta più che a quel di filosofo, forse avria potuto rassomigliarla qualche poco, ma non eguagliarla.

«Infatti e come mai sperare la forza tutta di quel [p. 502 modifica]divino fervore, che sì mirabilmente si fa sentire nel Temistocle, nell’Olimpiade, nel Demetrio? ecc. ecc.

Non parlo degli Oratorj sacri, perchè questi, quando saremo alla fine del mondo, acciocché non vadano perduti, gli angeli gl’impareranno a memoria, se pure non li hanno già imparati a quest’ora. Io ho intenzione di andar un giorno a sentirli, e spero che le voci di quei celesti cantori debbano piacermi assai più di quelle di Pacchiarotti e di Ansani. Ma lasciamo per ora il cielo, e per fare un cattivo passaggio, torniamo alla mia Cantata.»[67]

E, su per giù, sullo stesso tono il poeta della Visione di Ezechiello continua a dimenare il turibolo degli incensi adulatorii, lungo tutta la dedicatoria, sotto il naso dell’autore dell’Attilio Regolo.

E la ragione per cui il Metastasio era considerato tale quale io lo descrissi, come il pontefice sommo della religione d’Apollo, si ha nel fatto che il Baretti, persecutore furibondo degli arcadi e dell’Arcadia, era poi egli pure idolatra del poeta Cesareo.

Del che egli rende ampia ragione.

«Mi si dirà, verbigrazia, per contraddirmi, che il Metastasio, pastor Arcade, è pure un gran poeta anche nell’opinione mia. Verissimo. Ma questo pastor Arcade ha tanto da fare con que’ signori pastori. quanto v’hanno che fare certi milordi e altri signori inglesi miei conoscenti, che sono stati fatti pastori d’Arcadia in un’osteria, da volere a non volere. E vi sarà mai un Arcade così temerario che voglia [p. 503 modifica]osservare, il Metastasio aver imparata la sua eloquente tissima poesia sonetteggiando in mezzo a quella inettissima turba di sonettatori e d’egloghisti? In virtù della istituzione d’Arcadia non s’è fatto altro in Italia che sostituire a innumerabili bisticci e quolibeti secentisti un innumerabil numero di pastorellerie settecentistiche, le quali tanto muovono nausea quanto que’ quolibeti e bisticci muovono riso, ecc.[68]

E, a chiusa di questa mia difesa, resa necessaria dalla non giusta critica del signor Lodi, riferirò ciò che l’illustre Carducci stupendamente dice, parlando del settecento e dell’Arcadia:

«Togli dalle opere di letteratura scritte nella metà prima del settecento un luccicar rado qua e là di trita pulitezza e qualche generosità di spiriti solitaria, tutto è uggia di boschetti parrasii il restante e sente il riscaldato dei serbatoi dell’Arcadia. Nella forma, barbarie; e non baliosa e rilevata come ne’ tempi di mezzo, ma per soverchio di delicatura tisicuzza e calamistrata; nel concetto (se concetto s’ha a dire), vigliacchissima, schifosissima servilità. In prosa, libri critici di gravità pesante e pur vani, trattati di scienza imbellettati e con nèi, dissertazioni di segretari e lezioni d’accademici sopra argomenti di accademie; di quaresimali e di predicatori, Metastasi del pulpito, gran quantità, come d’elogi d’uomini grandi riadattati e scamozzati, e d’uomini celebri di cui niun sa che esistessero, e d’orazioni funebri in morte de’ padroni graziosissimi. In rima, [p. 504 modifica]canzoni e sonetti per un duca che muore o per un infante che arriva; poemetti per i funerali di una duchessa o per un viaggio di arciduchi o per un ereditario pur mo’ nato; complimenti per gli onomastici e gli anniversari d’imperatori e d’imperatrici, dove interloquiscono. l’arciduchessina prima e l’arciduchessina seconda: odi pindariche per principessine che vanno spose o si réndon monache. Tutta cotesta letteratura ti pare uno stupido inno a uno statu quo stupidissimo. Chi bene intenda, sola una voce ne esce: voce di greggi belanti a’ pastori: Battete, tosate, scorticate a baldanza; traete le bestie da vendere e da macellare; ma un po’ di stalla e di mangiatoia sicura alle superstiti.»[69]

E l’Algarotti e il Cassiani cadono sotto la sanzione di questa giusta, severa, inflessibile sentenza, perchè nati ambedue nel 1712 e morti, il primo nel 1764 e il secondo nel 1778, fiorirono, come scrittori, proprio nella metà prima del settecento; e dove, per una ipotesi, qualsiasi, volesse taluno sottrarli a questa condanna, noverandoli fra gli scrittori dell’altra metà del settecento, ambedue andrebbero a cadere sotto l’altra inappellabile sentenza dello stesso severo competentissimo giudice, più volte da me riferita: il Parini, come tutti, salvo l’Alfieri, i nostri poeti del secolo decimottavo, move dall’Arcadia; con questa aggravante che l’Algarotti e il Cassiani, con tutte le loro velleità e i loro sforzi per uscirne, rimasero ambedue in [p. 505 modifica]Arcadia, il secondo più del primo, e vi si aggirarono e non giunsero a spastoiarsene e vi morirono.

Dopo di che confido che il signor Lodi stesso vorrà, nella sua lealtà, convenire di avermi mossa censura non giusta e da me non meritata.





|Arcadia, il secondo più del primo, e vi si aggirarono e non giunsero a spastoiarsene e vi morirono.

Dopo di che confido che il signor Lodi stesso vorrà, nella sua lealtà, convenire di avermi mossa censura non giusta e da me non meritata.





  1. La Frusta Letteraria di Giuseppe Baretti, Milano, Società Tipografica de’ Classici italiani, 1833, vol. I, pag. 29 e 30.
  2. Opere del Conte Francesco Algarotti, Cremona, per Lorenzo Manini, 1873, vol. IX, ove è riportata questa lettera del Metastasi® al Conte
  3. Ugo Foscolo, Opere edite e postume, Firenze, F. Le Monnier, 1850, vol. II Intorno alla tradizione dei due primi canti dell’Odissea, cor. pag. 234 e 35.
  4. Discours sur Shakspeare et sur monsieur De Voltaire par Joseph Baretti A Londres, chez I. Nourse. et a Paris chez Duranti neveu, 1777.
  5. E. Q. Visconti, Due discorsi inediti ecc. Milano, G. Resnati, 1841.
  6. N. Tommaseo, Storia civile nella letteraria, Roma, Torino, Firenze, E. Loescher, 1872, nello scritto G. B. Roberti, le lettere e i Gesuiti del secolo decimottavo. pag 343.
  7. F. De Sanctis, Nuovi saggi critici, Napoli. A. Morano, 1S79 nel Saggio Giuseppe Parini, pag. 171.
  8. L. Settembrini, Lezioni di Letteratura italiana, Napoli, A. Morano, 1876, vol. III, Lez, 84
  9. G. Guerzoni, Il Terzo Rinascimento, Palermo, Luigi Pedone Lauriel, 1874 Lez. V.
  10. Della letteratura italiana nell’ultimo secolo di Giacomo Zanella, Città di Castello, Lapi, pag. 117.
  11. L’Abate Farini e la Lombardia nel secolo passato, studi di Cesare Cantù Milano, presso Giacomo Gnocchi, 1854, pag. 28 e seguenti.
  12. Manuale della letteratura di Francesco Ambrosoli, Firenze, G. Barbera, Editore, 1861, Vol. III, pag. 383.
  13. G. Carducci, Conversazioni critiche, Roma, A. Sommaruga e C.° 1884, nella Pariniana, pag. 158 e 150. E cf: lo scritto dello stesso autore, Adolescenza e gioventù di Ugo Foscolo, nel volume medesimo, pag. 289 e seguenti, e le due stupende prefazioni del Carducci stesso ai due volumi, edizione diamante di E. Barbera, Poeti Erotici del secolo XVIII (Firenze 1868) e Lirici del secolo XVIII (Firenze 1871).
  14. Giuseppe Parini, Opere pubblicate ed illustrate da Francesco Reina, Milano, stamperia e fonderia del Genio tipografico, 1802. Vol. V, Giudizi Letterari, pagina 168
  15. Michele Colombo, Opere, nella Biblioteca scelta del Silvestri, Milano 1842, voi. 145° della Biblioteca, II delle Opere del Colombo.
  16. Opere complete di Saverio Bettinelli, Venezia, presso Adolfo Cesare, 1800.
  17. N. Tommaseo, Storia Civile nella Letteraria, Roma. Ermanno Loescher, 1872, nello scritto: Gaspare Cossi, Venezia e l’Italia dei suoi tempi.
  18. Op. cit., nello scritto: Giambattista Roberti, le Lettere e i Gesuiti nel secolo decimottavo.
  19. P. Emiliani-Giudici, Storia della Lett. it., Firenze, Le Monnier, 1865, vol. II, Lez. 11°.
  20. Michele Colombo, Op. cit., voi. II, pag. 319.
  21. Gasparo Gozzi, Opere scelte, Società tipografica de’ Classici italiani, 1822, vol. V, Serm. XI.
  22. Bettinelli, Opere complete. Venezia, Adolfo Cesare, 1800, vol. XIV, Di scorno sulla poesia italiana.
  23. Opere di Vincenzo Monti, Milano, G. Besnati e G. Bernardoni, 1841, volume VI, pag. 162-63.
  24. Opere di M. Cesarotti, Pisa, tipografia della Società letteraria, 1800, volume I, nel Saggio sulla filosofia del gusto, indirizzato all’Arcadia di Roma.
  25. Baretti, op. cit., vol. I, pag. 207.
  26. Baretti, op. cit., vol. II, pag. 166.
  27. G. Carducci, Della poesia melica italiana e di alcuni poeti erotici del secolo XVIII, Prefazione al volume Poeti Erotici dell’edizione diamante Barbera, Firenze 1868.
  28. Opere italiane e latine del Cav. Clementino Vannetti, Venezia, tipografia Alvisepoli, 1828, vol. V, nelle sue dotte ed argute Osservazioni intorno ad Orazio, pag. 254.
  29. F. De Sanctis, op. cit., pag. 171.
  30. F. De Sanctis, Saggi critici, 4ª edizione, Napoli, Morano Editore, 1881, pag. 98.
  31. Giacomo Zanella, op. cit. capit. VI, pag. 118.
  32. G. Guerzoni, op. cit., Lez. III.
  33. C. Cantù, op cit. pag. 25 e 26.
  34. Storia della Letteratura Italiana del cav. Giuseppe Maffei, Firenze Felice Le Monnier, 1853, Vol. II, Lib. V, Cap. 6°, pag. 168 e Lib. VI, Cap. 2° pag. 241.
  35. N. Tommaseo, Cenni sulla Storia dell’arte nel Vol. Fasti della Letteratura Italiana nel corr. secolo additati alla gioventù studiosa dal prof. Antonio Zoncada, Milano, presso Giacomo Gnocchi, 1853, pag 384.
  36. G. Giusti, Discorso premesso ai versi e alle prose di G. Parisi, 5* edizione, Firenze, F. Ce Monnier, 1860, pag. XII c XIII.
  37. Luigi Morandi, Voltaire contro Shakspeare, Baretti contro Voltaire, ecc. Roma, A. Sommaruga e C.. 1882, pag. 151.
  38. V. Monti, Opere, ediz. cit., vol. VI, pag. 476 e seguenti.
  39. U. Foscolo, Opere edite e postume, edizione citata, vol. X, pag. 361 e seguenti.
  40. G. M. Cardella, Storia della Lett. greca, lat. e it., Napoli, Francesco Rossi-Romano, 1864, pag. 394.
  41. I secoli della Letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Commentario di Giambattista Corniani, continuato fino all’età presenta da Stefano Ticozzi, Milano, coi Tipi di Vincenzo Ferrano, 1883, V. II, Parte IIª, Epoca decima, pagina 623.
  42. Poesie di Onofrio Minzoni, Milano, Gio. Silvestri, 1830
  43. David Bertolotti, Notizie intorno alla vita e alle opere del conte Giovanni Fantoni, premesse alla edizione delle Poesie del conte Giovanni Fantoni, fra gli Arcadi: Labindo, Milano, per Giovanni Bacchi, 1823.
  44. Vita, giornali, lettere di V. Alfieri, per cura di E. Teza, Firenze, Le Monnier, 1861, pag. XVII.
  45. U. Foscolo, Op. cit., Vol. X, pag. 370 e seg.
  46. G. M. Cardella, op. cit., pag. 375.
  47. Raffaello Fornaciari, Disegno storico della Letteratura italiana dalle origini fino a’ nostri tempi, Firenze G. C. Sansoni, 1877, Lez. XVI, pag. 193.
  48. Compendio della Storia dalla Letteratura italianaecc., scritto dal cavaliere C. M. Tallarigo, Napoli. Domenico Morano, 1S79, Parte II, Libro VII, pag. 816.
  49. N. Tommaseo, Cenni sulla storia dell’arte, nel vol. cit. luogo cit.
  50. G. Zanella, op. e luogo cit.
  51. Premesso come prefazione al volume della Biblioteca diamante del Barbera, Firenze 1868, intitolato: Lirici del secolo XVII, a cura di G. Carducci.
  52. Carducci, op. cit., pag. CXXVIII e CXXIX.
  53. Lo stesso, op. cit., pag. CXXXIV.
  54. Lo stesso, op. cit., pag. CXXXVII.
  55. Quello Indicato, Poesie del conte Giovanni Fantoni, Milano, per Gio. Silvestri, 1823.
  56. Quantunque spesso adoperato dal Pindemonte, nella sua lodata traduzione dell’Odissea, l’epiteto di canuto, - applicato al mare e più specialmente alle onde, - a me pare assai poco confacente od aggraziato.
  57. G. Carducci, Conversazioni critiche, Rema, A. Sommaruga e C°, 1884, Pariniana, pag. 166 e seguenti.
  58. Francesco De Sanctis, Nuovi Saggi critici, Napoli, Antonio Morano, 1879. Vedi le splendide pagine dalla 127 alla 138, nelle quali l’acuto critico napoletano ricostruisce meravigliosamente l’ambiente in cui si sviluppò l’ingegno del Foscolo e rivela tutto il manierismo retorico e arcadico delle prime poesie dell’autore dei Sepolcri.
  59. G. Carducci, Conversazioni critiche, Roma, A. Sommaruga e C°, 1884, pagine 293 e seguenti.
  60. Opere scelte di Luigi Carrer, Firenze, Felice Le Monnier, 1855, vol. III della Raccolta, II delle Prose, pag. 511.
  61. Storia della Letteratura italiana di Paolo Emiliani-Giudici, 4ª impressione, Firenze, Feline Le Monnier, 1865, vol. II, Lez. 23ª, pag. 443.
  62. F. De Sanctis, op. cit., pag. 155.
  63. A. De Gubehnatis, Storia della Poesia lirica nella Storia universale della Letteratura, Milano, Ulrico Hoepli, 1883, vol. III, capit. XI.
  64. L. Carrer, Opere scelte, edizione citata, vol. II della Raccolta, I delle Prose, pag. 263 .
  65. U. Foscolo, op. e ediz. cit., Vol. X, pag. 43 e 44.
  66. L. Carrer, op. e ediz. cit., vol. III della Raccolta, II delle Prose, nell’articolo Gli Arcadi, pag. 512.
  67. Opere di Vincenzo Monti, ediz. cit., vol. VI, pag. 488 e seguenti
  68. La Frusta letteraria di Giuseppe Baretti, ediz. cit., vol. II, pag. 386.
  69. Bozzetti critici e Discorsi letterari di Giosuè Carducci, in Livorno, coi tipi di Francesco Vigo editore, 1876, nello scritto: Di alcune delle opere minori di Vittorio Alfieri, pag. 21 e 22.