Meditazioni di un brontolone/Il Metastasio e il Metastasismo
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IL METASTASIO E IL METASTASISMO
Uno degli scorsi giorni, io era tutto intento ad ascoltare Giovanni Prati, il quale, con una certa sua grazia semplice e disadorna, con la buonomia propria dell’uomo che chiacchiera all’amichevole e, nel tempo stesso, con profonda sottigliezza di acume critico, aveva impreso a parlare di letteratura e di estetica, con tutta quella competenza, quella autorità e quella eloquente fluidità che danno a lui, vero e grande artista, vero e grande poeta, non soltanto l’altissimo ingegno, ma gli amorosi e diuturni studii altresì.
In quella sua corsa per gli sconfinati campi dell’arte, l’illustre autore di Emenegarda e di Psiche si doleva amaramente che, oggi, sia divenuto di moda dare addosso al Metastasio, facendolo responsabile non soltanto dello svenevole arcadismo che imperava, nella repubblica delle lettere in Italia, ai tempi suoi, ma di quello eziandio che imperversò nelle età posteriori e di cui uno strascico giunse quasi fino a noi.
Testo in corsivo E, di fatto, avviene ai nostri giorni, che una miriade di poetucoli, di criticuzzi, di scrittorelli, che, parlando in generale, furono ignominiosamente bocciati all’esame di licenza liceale e ai quali apre spesso pietosamente le grandi ali delle sue edizioni Elzeviriane, il provvido Zanichelli di Bologna, si permettano di atteggiare il labbro adolescente e sgrammaticato ad un misericordioso sorriso, sotto cui inutilmente si sforza di celarsi lo sprezzo che in essi desta il solo nome di Pietro Metastasio.
E questa osservazione, prima ancora di avere udito le calde e sagaci parole del senatore Prati, io l’aveva fatta tante volte. Metastasio non vuol dir altro, pei più - e i più sono coloro che udirono ripetere dai nonni e forse dai babbi, alcune strofe del melodioso poeta romano, ma non lessero mai neppure tutti i titoli dei ventisette Melodrammi da lui scritti, non dico poi delle azioni teatrali, delle cantate, degli oratorii; - ebbene, per costoro, Metastasio non vuol dire altro che cascaggine, languore, svenevolezza. arcadismo, insomma, ed è detto tutto.
E ciò avviene principalmente perchè l’età moderna, nervosa ed anemica, progressista e positiva, telegrafica e trascendentale, ha, non dirò inventato, ma messo’ di moda la critica e con essa i saggi critici sui quali soltanto la maggior parte di codeste pallide e capellute parodie di Amleto, di Faust, di Leopardi e di Heine, studiano gii autori e formano i propri giudizii intorno alle opere di essi.
E se avviene che e’ si abbattano in un critico tedesco, dotto per quaranta, ma il quale si sia creato, prima di scrivere, puta caso, sulla letteratura drammatica, un sistema tutto suo proprio, delle teorie tutte a sè, non fondate sulla verità storica, non scaturite da un esame imparziale e, in special modo, sapiente dei vari autori di cui si tratta, e delle epoche in cui essi scrissero, subito ti afferrano le parole del dotto tedesco, te le spacciano per oro da ventiquattro carati, e trinciano maestosamente sopra autori che non hanno letto, gabellando per proprie le più o meno esatte osservazioni, i più o meno ragionevoli giudizi del critico tedesco.
Che se poi, per disgrazia di questi cotali giovinastri, e’ si scontrano in un professore d’Università, il quale con leggerezza, per non dir peggio, al tutto degna del secolo, in cui con tanta facilità si riesce a spacciare per oro l’orpello, rincarando la dose delle minchionerie dette dal critico oltramontano, ribadisca, con tutto il peso della sua cattedratica autorità, quelli che non possiamo ormai chiamar più giudizi, ma pregiudizi divulgatisi intorno a quelle date opere e a quei dati autori, allora poi eccoti i poetucoli, criticuzzi e scrittorelli, dar fiato alle trombe del giudizio universale e ripetere, su pei tripodi dei caffè, gii oracoli del critico tedesco e del professore nostrano... spacciando per elucubrazioni proprie e come frutto di profondi studi.... - che non furono mai fatti - gli altrui scerpelloni.
E così ormai si giudica da un pezzo di tutti e su tutti i più grandi nostri scrittori e
. . . Pur che ben si rida
Gonfia il cappuccio e più non si richiede.
Quanti fra coloro che citano, per esempio, a proposito ed a sproposito - e più spesso a sproposito - i versi del divino poeta, hanno letto tutta intera la Commedia?... sarei contento di aver mezzo marengo per ognuno di coloro che non l’han mai letta, e meno ancora per ognuno di coloro che non hanno mai visto neppure la Vita nuova, il Convito, e i trattati De Monarchia, De vulgari eloquio... Eppure qual’è quello sventurato italianuccio che non ti sappia sciorinare una filastrocca critica su Dante Alighieri?...
E a questa stessa stregua e in questo stesso modo si trincia pomposamente sul Petrarca, sul Tasso, sul Metastasio, e magari sul Manzoni, dei quali si parla a casaccio, giurando in verba magistri.
Orbene, il critico tedesco, che ne spacciò di cosi marchiane sul Metastasio, e il professore italiano, che gli tenne bordone, e dietro loro tutta la infinita tratta di gente la quale, così olimpicamente, deride questo poeta, che Ippolito Pindemonte e Giuseppe Baretti e cento altri dotti di quel tempo, lui vivo, appellarono immortale e divino, han voluto sentenziare subiettivamente intorno ad un autore che obiettivamente, secondo la sua indole, nel suo tempo, in mezzo ai sentimenti, e ai gusti dei suoi contemporanei, e di fronte alle difficoltà che gli si paravano per la via, doveva essere giudicato.
Il venire a dirci, ora che una completa rivoluzione e avvenuta nell’arte drammatica, ora che il pubblico si è assuefatto a gustare Schiller e Shakspeare, che i melodrammi del Metastasio sono freddi, falsi, compassati, fatti tutti sopra una stessa falsariga, gli è lo stesso che andare a vendere pomi a Campo de’ Fiori. Sapevamcelo, diran quei di Capraia. Ma bisognava andare a strepitare a quella guisa, contro Metastasio, centocinquanta anni fa, quando il melodramma era appena, appena, mercè le cure di Apostolo Zeno, uscito dal servilismo più completo della musica, dal barocco sviluppo di vicende, d’intrecci, di episodi, o ridicoli, o sconci, o inverosimili, dal goffo corteggio di personaggi atellanici e impossibili: allorquando egli, completando ed illeggiadrendo l’opera dello Zeno, faceva la poesia sorella della musica e svolgeva sul palcoscenico un’azione connessa, logica, sensata, e nella quale i più santi pensieri e le più nobili passioni venivano ad attrarre tutta l’attenzione e tutto l’affetto del pubblico.
E quando si è strepitato contro il poeta cesareo perchè gl’intrecci dei suoi drammi si rassomigliavano perfettamente fra di loro, si è dimenticato per certo che questo sventurato poeta era costretto a scrivere per un teatro di Corte, costretto a rispettare tutte l’esigenze e gli scrupoli dell’imperatrice e delle arciduchesse, costretto a fondar sempre quasi tutta l’azione del suo dramma sopra due amori, costretto a lasciare tante ariette al primo soprano, e tante e non più al contralto, tante al tenore, e tante e non più al basso, e costretto infine a sottomettersi a tutte le così dette convenienze di quegli egregi virtuosi; e chi vuole avere un’idea esatta di tali convenienze, legga le memorie del sommo Goldoni.
Nessuno negherà che la maggior parte dei personaggi nei melodrammi del Metastasio abbia una certa tinta convenzionale, una certa impronta di famiglia da far riconoscere alla bella prima, dalla sua maniera, l’artista; nè si negherà pure che il linguaggio di quei personaggi sembri, su per giù, sempre il medesimo, tanto nel Temistocle quanto nell’eroe Cinese, così nell’Ipermestra come nel Catone in Utica. Ma non bisognerebbe dimenticare cbe tale somiglianza di linguaggio è in gran parte imputabile alla somiglianza della situazione, giacché non era in facoltà del povero Metastasio d’impedire che la prima donna soprano e la prima donna contralto fossero in ogni nuovo dramma, non soltanto in diritto, ma in dovere di fare tutte due all’amore, la prima donna soprano più caldamente e con più sfoggio di ariette e di gorgheggi, e la prima donna contralto meno ardentemente e con minore effusione di rondò e di duetti.
Del resto se il linguaggio dei personaggi del Metastasio è quasi eguale in tutti i suoi drammi, non si potrà negare che quel linguaggio è sempre nobile, elevato, inspirato ad alti sensi e dolce, melodioso, voluttuoso; il più acconcio forse, fra quelli di quanti lirici vantino le antiche e le moderne letterature, ad essere sposato alla musica.
E ciò ho detto per difendere l’autore della Didone in tesi generale, ed ammettendo come provato ciò che il critico tedesco e il professore italiano affermano solennemente; che io potrei, se volessi, se ne mettesse il conto, riferire giudizi d’illustri letterati italiani e francesi, e, fra questi ultimi, quelli del Voltaire e del Rosseau, che pur d’arte se ne intendevano qualche cosa, i quali giudizii, con corredo di sodi ragionamenti, scagionano in buona parte il poeta romano anche da codeste accuse.
Quanto alla mancanza di gagliardìa e di vigore nei sentimenti degli eroi metastasiani, quanto all’assenza assoluta di vero patriottismo e di vero liberalismo, nei personaggi e nella poesia del Trapassi, biasimi che anche oggi si lanciano addosso al poeta cesareo da certi critici dinamitardici, giunti a sbraitare di patria e di libertà, dopo cinque secoli di lotta, a cose acconciate e, nome suol dirsi, a pappa fatta, dico la verità, mi ha sempre mosso al riso la insensata pretesa di coloro che, dal dolce, mansueto, affettuoso e tranquillo Manzoni - il quale, alla fin fine, oltre essere il più grande artista dell’età nostra, fu anche un grande patriotta esigevano il fuoco, gli impeti, le bestemmie e l’imprecazioni che sgorgavano spontanee dall’anima fremente d’ira e di procelle del Guerrazzi, cui, indarno, si sarebbero domandate le tinte dolci e gli orizzonti azzurri dell’autore dei Promessi Sposi.
Il patriottismo del Metastasio era classico, freddo, convenzionale: era il patriottismo riflesso dalle pagine di Tito Livio, che si studiavano nelle scuole dei gesuiti, in una età tutta mollezza e frivolezza, nell’età dei nei e della cipria, degli arcadi e dei cicisbei, per abbattere la corruttela e la eviratezza della quale occorse la satira formidabile di un grande come il Parini, e l’ira ghibellina di un altro grande come l’Alfieri, e la scuola napoletana coi Vico, coi Filangeri e coi Genovesi, e la scuola lombarda coi Verri e coi Beccaria, e il torrente delle idee degli enciclopedisti e l’urto irresistibile della rivoluzione francese.
E, in mezzo a quella generazione di eunuchi smemorati e sonnolenti, si sarebbe preteso che il Metastasio buono, pacioso, amoroso, desideroso della quiete e dei propri agi, avesse gridato come un ossesso per le vie poesie frementi amor di libertà e odio contro la tirannide... precisamente come se il poeta cesareo avesse avuto in petto un’anima uguale a quella del focoso astigiano.
Proprio come un professore che conosco io, il quale, in una sua breve storia letteraria d’Italia, se la piglia tremendamente col Redi, perchè, invece di sprecare il suo ingegno a scrivere il Bacco in Toscana, non aveva fatto le barricate, sollevando il popolo fiorentino contro la tirannide dei Medici!
A sì fatti giudizii si potrebbe rispondere col divino:
Ma voi torcete alla religione
Tal che fu nato a cingersi la spada,
E fate re di tal che è da sermone.
Per cui passandomi del Metastasio drammaturgo, a difesa del quale si potrebbero addurre molte e molte altre ottime ragioni, dirò del poeta, contro cui più specialmente si scagliano, coi loro sprezzanti sorrisi, i poetucoli nuovi - stavo per dire novissimi!
Io certamente non proporrei mai, nè propongo ai giovani, che oggi studiano le belle lettere, come modello di stile e di forma il Metastasio, nè direi loro «figliuoli, empitemi i vostri componimenti di crudi fatti, di barbare stelle, di rii destini, di dolci pene, di vaghi vai, di caldi sospiri, eco.» ma direi, come dico, loro: «figliuoli, venite qui, parliamo un poco di questo illustre poeta, leggiamone le opere, studiamone l’indole, le vicende, la vita e, sopra ogni altra cosa, esaminiamo l’epoca nella quale visse, e persuadiamoci che esso è uno dei più grandi poeti dell’italiana letteratura, ammiriamolo quindi e leviamoci il cappello.»
Se prima di sputare oracoli, con tanta prosopopea, certi criticuzzi annacquati pensassero che il Metastasio nacque e crebbe in piena Arcadia, oh quanto diversamente sentenzierebbero!...
Che cosa fu l’Arcadia? Per gli arcadi l’Italia era stata convertita in un bel praticello, al solito, erboso e fiorito, carico delle solite gemme delle consuete rugiade, adombrato dai soliti lauri e dai soliti olivi, in mezzo al quale, con l’usato lieve murmure, scorreva il consueto placido fiumicello, le cui rive erano allietate dai soliti gorgheggi dei soliti augelletti e dei soliti usignuoli.
Eccovi l’Italia!... Oh aurea semplicità!... Oh ineffabile dolcezza!... e, per sciupare due splendidi versi del divino poeta,
O vita intera d’amore e di pace
O senza brama sicura ricchezza!
Che cosa mancava in quel paradiso terrestre ’? I pastori che, col suono mellifluo delle loro zampogne, cullassero quel bamboccione rimminchionito del popolo italiano, il quale, sardanapalescamente avvolto nelle fascie e nei fronzoli, sdraiato in una navicella tutta coperta di fiori e di festoni, scorrente placidamente sovra l’onda del fiume dell’oblio, si avviava, lemme lemme, all’eviramento più completo, al più ignobile eunuchismo, in mezzo alle nenie della ninna nanna che gli andavan canticchiando i RR. PP. della compagnia di Gesù in veste di pastori arcadi.
Ed è in quest’epoca nefasta e di vergognosa memoria per l’arte e pel pensiero italiano, è nel momento in cui gli studi e la poesia avevan preso questo dirizzone, e proprio fra la brutta baggianata del Jesus Puer del R. P. Ceva e i leziosi sonettini dell’avvocato Zappi, che il Baretti, ferocemente ma stupendamente e di santa ragione, qualifica di smascolinati pargoletti, piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini, è proprio in tale momento e in tali condizioni delle lettere fra noi, che Pietro Metastasio appare sulla scena.
D’indole che, a bene studiarla nelle sue poesie, appare fatta apposta per sovraneggiare in un’epoca di farneticamenti teneri e svenevoli come era quello; educato dal Gravina, che era uno dei fondatori della Arcadia e dei più fanatici favoreggiatori della nuova maniera di poetare, tratto nelle vie voluttuose del melodramma, Pietro Metastasio doveva essere, come fu, poeta dolce, carezzevole, tenero ed arcadico per eccellenza e doveva divenire, come divenne, l’idolo del suo secolo.
Ma quale poeta però, e quale arcade!
È il solo, in tutto quel gregge infinito che empie dei suoi belati l’Italia; è il solo il quale, guidato dal suo gusto squisito e dall’altissimo ingegno, si mantenga, nel campo del semplice, senza cader quasi mai nel lezioso; è il solo, la cui poesia non sia composta soltanto di vuote e rimanti parole; è l’unico anzi, al quale la rima facile, spontanea, morbida, elegantissima, serva a rivestire idee, massime, pensieri che riescono più chiari, più gradevoli, e più s’imprimono nell’animo, esposti in quella forma semplice e leggiadrissima.
Ah sì!... è vero, il Metastasio era ed è poeta dell’ariette in torototera e in torototà, ma nessuno, nè prima, nè dopo di lui, seppe salire più alto nel dare a quei metri, ora molli, ora saltellanti, quali li richiedeva e li richiede la musica, la grazia quasi lasciva della forma e il vigore del pensiero sempre filosofico e morale, spesso assolutamente profondo, che ne è il contenuto. E vero, è vero, Metastasio è il poeta svenevole dell’amore sentimentale e convenzionale, ma tale amore, che è il riflesso di quello in voga al suo tempo, ha suggerito a quel rimatore le più profonde osservazioni, le riflessioni le più acute intorno a questa eterna passione umana, osservazioni e riflessioni che, raccolte, collegate fra loro ed analizzate, potrebbero porgere oggi materia a un bel volume di fisiologia dell’amore.
E quella stessa musicità, dirò così, della poesia metastasiana, quella stessa spontaneità e fluidità della rima, per la quale al lettore par proprio che quel pensiero non potesse essere espresso altrimenti che così come lo fu, e che quella rima non potesse essere altra o diversa da quella che usò il poeta, queste stesse qualità, dico, non sono soltanto tratte dalla calda immaginazione, dall’altissimo ingegno del poeta cesareo, ma derivano in lui altresì dal gusto finissimo, dallo studio accurato, da un’arte profonda.
Le immagini si succedono sempre, nei suoi versi, chiare, ordinate con una semplicità che par cosa naturale ed è arte squisita; ogni idea ha sempre la sua idea corrispondente e mai trovasi, con arruffamento del periodo e dei verso, fuori del posto dove logicamente deve stare; nelle sue similitudini infinite non c’è mai epiteto o parola che non coincida perfettamente coll’indole e con la natura delle cose o degli oggetti che formano la base del paragone.
Biancheggia in mar lo scoglio,
Par che vacilli, e pare
Che lo sommerga il mare
Fatto maggior di sè;
Ma dura a tanto orgoglio
Quel combattuto sasso;
E ’l mar tranquillo e basso
Poi gli lambisce il piè.
Dove non è chi non veda con quanta esattezza e precisione di termini, logicamente scaturiti dal tema, il poeta abbia tessuta questa descrizione, che, in otto soli versetti settenari, ti pone sotto gli occhi tutta una scena, tolta dal vero, dalla natura, con una esattezza di disegno, con una vivezza di colorito, con una evidenza tale che non credo si possa maggiore nè migliore.
Quando ruina
Colle sue spume
La neve alpina
Disciolta in fiume
Così funesta
Per la foresta
Forse non va:
Qual, se di sdegno
Marte s’accende,
Con chi l’offende
Crudel sarà.
È in questa similitudine, dove quei mirabili quinari scivolano giù leggieri leggieri, proprio come la neve sciolta in un vorticoso torrente, c’è una parola di più, c’è un epiteto ozioso, c’è una rima stentata?... O non è piuttosto evidente che il Metastasio, con mirabile facilità della quale si potrebbe dire, come della propria diceva un altro poeta:
. . . . . . . . . a farlo apposta
Questa facilità quanto mi costa,
ha descritto il torrente fatto impetuoso dalle nevi disciolte ?.... non certo con minor grazia, sebbene con assai minor nerbo dell’oraziano:
Monte decurrem relut amnis imbres
Quem super notas altiere ripas
Fervei, immensusque ruit profundo
Pindarus ore.
E si sarebbe potuto, o si potrebbe descrivere meglio, con maggior efficacia, con più sobrietà di parole e di immagini, lo stato indefinibile di chi si sveglia e non trova ancora il punto di separazione fra le larve del’ suoi sogni e la realtà della vita
Fra stupido e pensoso
Dubbio così si aggira
Da un torbido riposo
Che si destò talor;
Che des.to ancor delira
Fra le sognate foi’me;
Che non sa ben se dorme
Non sa se veglia ancor.
E potrei moltiplicare gli esempi fino ai duecento, ai trecento, senza trovar mai un pensiero anteposto o posposto, un epiteto messo in fallo, un pleonasmo vizioso, o una rima messa lì per zeppa. Io credo, per esempio, che poche definizioni si abbiano di Dio, secondo il concetto cristiano, più brevi, efficaci e potenti nel pensiero, e più leggiadre nella forma, di quella che ce ne ha lasciato il poeta romano:
Dovunque il guardo io giro
Immenso Iddio ti vedo,
Nell’opre tue t’ammiro
Ti riconosco in me.
La terra, il mar, le sfere
Parlan del tuo potere:
Tu sei per tutto; e noi
Tutti viviamo in te.
Anzi dirò di più; questa definizione è fatta con tanta ampiezza di linee e con tale larghezza di idee, che potrebbe benissimo venire accettata, oggi che c’è tanta gente la quale ci si diverte un buscherio ad affermare che l’uomo discende in linea retta dalla scinda, ed è di moda, per conseguenza, la deificazione della materia, anche dai materialisti, come definizione della forza motrice della natura, fonte della vita. Quest’altra invece, che è propriamente spirituale, non può essere accettata che dagli spiritualisti, ma, dato il concetto da cui è partito l’autore, non può non essere riconosciuta vigorosa e bella da quanti hanno nell’anima sentimento estetico:
Buono il credo
Ma senza qualità. Grande ma senza
Quantità, nè misura. Ognor presente
Senza sito e confine: e se in tal guisa
Qual sia non spiego, almeno di lui non formo
Un’idea che l’oltraggi.
L’esattezza vigorosa dei termini di questa definizione potrebbe essere accettata anche da Tommaso d’Aquino.
E veggasi quanta profondità di pensieri in questi pochi versi sulla morte e sulla gloria:
. . . . . . . . . . . . Alfìn che mai
Esser può questa morte?... Un ben?... S’affretti.
Un mal?... Friggasi presto
Dal timor d’aspettarlo.
Che è mal peggiore. E della vita indegno
Chi a lei pospon la gloria. A ciò che nasce.
Quella è comun: dell’alma grande è questo
Proprio e privato ben. Tema il suo fato
Quel vii che, agli altri oscuro,
Che ignoto a sè, morì nascendo, e porta
Tutto sè nella tomba: ardito spiri
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore.
E più splendidi e profondi ancora mi sembrano, confortato in ciò dall’autorevolissimo parere del comm. Giovanni Prati, questi versi del Metastasio sulla vita:
Perchè bramar la vita?... E quale in lei
Piacer si trova?... Ogni fortuna è pena,
E miseria ogni età. Tremiam fanciulli
D’un guardo al minacciar: siam gioco adulti
Di fortuna e d’amor: gemiam canuti
Sotto il peso degli anni: or ne tormenta
La brama d’ottenere: or ne trafigge
Di perdere il timore. Eterna guerra
Hanno i rei con sè stessi: i giusti l’hanno
Con l’invidia e la frode. Ombre, deliri,
Sogni, follie son nostre cure: e quando
Il vergognoso errore
A scoprir si incomincia, allor si muore.
Qui, con potente sintesi, la vita è considerata nelle varie sue età, ne’ diversi suoi stadi, sotto i molteplici suoi aspetti; le idee si succedono alle idee, e con la massima chiarezza, con la più spiccata evidenza, con più pensieri, quasi che parole, le varie vicende della umana esistenza si svolgono rapidamente sotto gli ocelli del lettore, lasciando nel suo animo una triste e incancellabile impressione.
E ripeto che potrei moltiplicare gli esempi fino alla sazietà... se ne valesse la pena.
Ma non ne fa d’uopo; perchè il Metastasio è tale poeta, la cui feconda e semplice spontaneità, la cui immaginazione, la cui eleganza, la cui smagliante venustà non possono essere offuscate dal lieve alito che emana dalle trombette invisibili di quasi impercettibili zanzare, i motteggi e le scede delle quali nulla possono togliere allo splendore dalla sua fama.
Giacche se, da tutte le opere del Metastasio, si tolgano un centinaio forse di frasi arcadiche e convenzionali e in voga e favore nell’età in cui egli visse, e all’influenza della quale, per potente che fosse il suo ingegno, non. era dato sottrarsi totalmente a lui, come non lo fu mai, in consimili condizioni, ad alcun altro; e se non si voglia dargli carico di quella soave mollezza, che forma la principale e più caratteristica sua dote, si dovrà convenire da quanti hanno ancor in pregio il bello ed il buono che egli fu ed è uno dei più grandi poeti, anzi uno dei più felici addirittura di quanti ne avesse, nella rima, l’Italia.
Che se poi una mandria di sfacciati imitatori, figli corrotti di padre incorrotto, come il Rolli, il Cassiani, l’Algarotti e cento altri, senza l’ingegno, senza la spontaneità, senza l’ammirabile grazia del Metastasio, continuarono per oltre un secolo, a belare arcadicamente nenie, strofette ed anacreontiche insulse, sguaiate, nauseanti; se negli stessi valorosi poeti Aleardi e Zanella rifece capolino, ai nostri giorni, alquanto mutato di vesti, il vieto arcadismo, contro il quale, con le critiche e coi precetti il Baretti, e con splendidi esempli di potente e vigorosa poesia, gagliardemente combatterono il Gozzi, il Parini, l’Alfieri, il Foscolo, il Manzoni, il Leopardi ed il Giusti, sarà onesto chiamar responsabile di questo ridicolo Metastasismo il povero Metastasio?... Chi vorrebbe imputare al soave ed elegantissimo cantore della bella Avignonese il quale
Rime d’amore usò dolci e leggiadre.
e che dette all’Italia le più splendide liriche erotiche che vanti qualunque moderna letteratura, lo sciupìo
spaventoso che si fece, per quasi tre secoli, del suo nome
immortale e il noioso e insopportabile Petrarchismo
onde fu ammorbato per tanto tempo, il campo dell’arte? - Chi ascrive a colpa al divino Michelangelo - che
fu pure, senza volerlo e senza saperlo, il progenitore
del barocco - l’architettura del Borromini, la pittura
del Vasari, le sculture di Baccio Bandinelli?... Chi adduce a biasimo del Monti la scuola degli altisonanti
e rimbombanti versificatori semi-latini e semi-classici,
che, imitandolo, cangiarono in oppressivo manierismo
il robusto e, forse, troppo fronzuto e adorno suo stile?..
Si gridi dunque pure, se si vuole, contro il Metastasismo - benché morto da tanto tempo e completamente condannato e da nessuno ormai più adoprato; si combatta pure, con fatua e infantile baldanza, contro questo innocuo molino a vento, si sfondi pure questo uscio spalancato, ma, per onore delle patrie lettere e per amore dell’arte, si smetta una buona volta da professori incompetenti e da ignoranti criticuzzi di motteggiare beffardamente e stoltamente contro uno dei migliori poeti, onde si onori la nostra letteratura.[1]
- ↑ A questo mio articolo, pubblicato nel Capitan Fracassa nel 1880, mosse grave censura il signor Luigi Lodi, in via incidentale, in un suo scritto stampato nel Fanfulla della Domenica. Di questo scritto del Lodi, che non si intitolava dal Metastasìo nè dal Metastasismo, e in cui io non era nominato, ebbi notizia nella scorsa estate soltanto.
Alla censura del signor Lodi oggi soltanto adunque rispondo con lo scritto seguente che si intitola: Degli imitatori del Metastasio nel settecento.
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