Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXVII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXVII.

Mio viaggio da Padova a Milano. — Fermata in Vicenza e Verona Corsa per il lago di Carda a Salò. — Conforto inaspettato in questa città. — Fermata a Brescia. — Incontro piacevole in Bergamo.

Viaggiando da Padova a Milano, giunsi a Vicenza, ove mi fermai per quattro giorni. Conoscevo in questa città il conte Parmenione Trissino della famiglia del celebre autore della Sofonisba, tragedia composta alla maniera dei Greci, ed una delle migliori produzioni del buon secolo della letteratura italiana. Il signor Trissino era stato da me conosciuto a Venezia fino dalla prima mia gioventù. Avevamo ambidue molto gusto per l’arte drammatica; gli feci vedere la mia Amalasunta che egli applaudì molto freddamente, e mi consigliò ad attendere daddovero all’arte comica, ravvisando in me disposizioni per la medesima. Fui dolente, che non avesse trovato bella la mia Opera, e attribuii la sua freddezza alla preferenza che dava alla Commedia. Vidi con piacere in Vicenza il famoso teatro Olimpico del Palladio, celeberrimo architetto del secolo decimosesto, nativo di questa città, ed ammirai il suo arco trionfale, che senza altri ornamenti che quello della regolarità delle proporzioni, passa per il capo d’opera dell’architettura moderna. Esistono i bei modelli, ma son rari gl’imitatori.

Da Vicenza passai a Verona, ove desideravo conoscere il marchese Maffei, autore della Merope, opera felicissima, imitata con non minor felicità. Quest’uomo versato in ogni genere di letteratura, vedeva meglio di chiunque altro che il teatro italiano aveva bisogno di riforma. Tentò d’intraprenderla, e pubblicò un volume col titolo di Riforma del Teatro Italiano, contenente la sua Merope, e due commedie, le Ceremonie e il Raguetto. La tragedia fu applaudita generalmente, ma le due commedie non ebbero il medesimo successo. Non essendo il signor Maffei in Verona, presi la volta di Brescia, e mi fermai ad alloggio a Desenzano sopra il lago [p. 76 modifica] di Garda, in quel medesimo albergo appunto, ove pochi anni avanti avevo corso il rischio di essere assassinato: domandai alla gente dell’osteria, se si ricordavano di questo fatto; mi dissero di sì, e che lo scellerato, dopo aver commessi altri delitti, era stato condannato alla forca. Essendo a cena alla tavola comune, e malgrado il mio dispiacere e l’amorosa mia passione mangiando col miglior appetito del mondo, mi trovai accanto un abate della città di Salò. La conversazione piacevole di quest’abate mi porse occasione di andare a vedere questo grazioso paese, ove si cammina fra verdi piante d’arancio all’aria aperta, costeggiando sempre un lago delizioso. Un’altra ragione però mi determinò a deviare dalla strada, che mi ero prefissa. Mi trovavo molto corto a danari. Avendo per buona sorte mia madre un’abitazione di sua proprietà in Salò, ed essendo io conosciuto dal fittuario, potevo sperare di trarne profitto.

Da Desenzano a Salò non vi erano che quattro leghe, che dall’abate e da me si fecero a cavallo per goder meglio questa piacevole passeggiata, e me ne venni il terzo giorno solo solo, essendomi molto divertito, e con qualche zecchino anticipatomi dal fittuario di mia madre. Pagai al vetturino, che mi aveva aspettato, i suoi tre giorni di fermata, e ripresi la strada di Brescia.

Da Vicenza avevo scritto al signor Novello da me conosciuto a Feltre in qualità di vicario del governo, e che era in quel tempo assessore del governatore di Brescia. Andai pertanto a smontare al palazzo del governo, ove il signor Novello mi fece un’accoglienza graziosissima, e siccome si ricordava di alcune bagattelle comiche da me composte a Feltre, mi domandò la sera, in tempo di cena, se avevo altro dell’istesso genere da fargli sentire. Gli parlai della mia opera: era curiosissimo di sentirla; concertammo adunque per il giorno seguente. Invitò a pranzo varie persone di lettere, che sono in grandissimo numero e degne di somma stima in questo paese, e il giorno appresso, dopo il caffè, lessi il mio dramma, che fu ascoltato con attenzione, ed unanimemente applaudito. I soggetti, che mi avevano giudicato, erano intendenti, dovevo dunque esser contento; fecero inclusive l’analisi della mia composizione. Il carattere di Amalasunta era bene immaginato e ben sostenuto, e poteva passare per una lezione di morale per le regine madri, incaricate della tutela e dell’educazione dei loro augusti figli. I buoni e cattivi cortigiani posti a contrasto formavano un quadro piacevole, e la disgraziata catastrofe di Atalarico, ed il trionfo di Amalasunta, presentavano uno scioglimento, che comprendeva in un tempo istesso la severità che esige la tragedia, e le grazie proprie del melodramma. Il mio stile parve a quest’assemblea giudiziosa più tragico che musicale, ed avrebbero desiderato che io avessi soppresse l’arie e la rima per farne, secondo loro, una buona tragedia. Li ringraziai della loro indulgenza, ma non ero punto inclinato a profittare dei loro consigli. Una tragedia, fosse anche stata eccellente quanto una di quelle di Cornelio e di Racine, mi avrebbe procacciato in Italia molto onore e pochissimo lucro, ed io avevo bisogno dell’uno e dell’altro. Lasciai adunque Brescia, fermamente deciso di non fare la minima variazione sul mio dramma, e di proporlo all’Opera di Milano.

Da Brescia a Milano si poteva andare per una strada più corta, ma io aveva voglia di veder Bergamo; e perciò presi la volta di questa città. Traversando il paese degli arlecchini, guardavo per ogni dove se ravvisavo qualche idea di quel personaggio comico, [p. 77 modifica] che forma la delizia del teatro italiano; non incontrai però mai nè quei visi neri, nè quegli occhi piccoli, nè quei vestiti di quattro colori, che fanno ridere; vidi bensì delle code di lepre sopra i cappelli, ornamento anche al giorno d’oggi dei contadini di questa regione. Parlerò della maschera, del carattere, e dell’origine degli arlecchini in un capitolo, che deve essere destinato all’istoria delle quattro maschere della commedia italiana.

Giunto a Bergamo, smontai a un’osteria dei sobborghi, non salendo le vetture alla città, che resta altissima, e sommamente scoscesa, e andai a piedi fino al quartiere del governo, che occupa appunto la sommità di quell’alpestre montagna. Stanco all’estremo, e maledicendo la curiosità che mi aveva trascinato in questo luogo senza conoscere alcuno, e nel bisogno di prender riposo, mi ricordai che il signor Porta, mio antico compagno nella cancelleria criminale di Chiozza, era stato nominato cancellier civile di Bergamo. Cercai la sua abitazione, e la trovai; ma il mio amico non vi era, essendo sei leghe lontano per una commissione relativa alla sua carica. Pregai il suo cameriere a volermi permettere di riposar un momento, e parlando con lui, domandai chi fosse il governatore della città. Qual buona nuova! qual cosa inaspettata e piacevole per me! Era sua eccellenza Bonfaldini, quell’istesso che fu a Chiozza, dal quale avevo servito in qualità di vice-cancelliere: mi trovai dunque tutto in un tratto in un paese di conoscenza; andai al palazzo e mi feci annunziare. Stavo aspettando in anticamera che mi facesse entrare, allorchè sento il governatore stesso, che ride dicendo ad alta voce: — Ah! ah! l’astrologo! Ecco l’astrologo. Fatelo passare. Signore, voi vedrete adesso l’astrologo. — Non sapevo che cosa volesse dire, ed ero in timore che mi si volesse mettere in ridicolo: entrai, ma molto sconcertato. Mi rianima il governatore, e mi pone subito in calma; viene al mio incontro, e presentandomi alla signora governatrice ed alla conversazione, disse: ecco qui il signor Goldoni; vi ricordate, o signore, della contessa C***, sulla quale abbiamo tanto scherzato, riguardo all’eterna sua toeletta, alle messe perdute, ed al prognostico dell’anonimo? Ebbene l’autore di questo almanacco critico, che voi avete letto, è il signor Goldoni. Ciascuno allora mi usa gentilezze: il governatore mi esibisce quartiere e tavola; io accetto, e ne profitto per quindici giorni, conducendo la vita più piacevole del mondo. Bisognava per altro far conversazione alle dame, ed io non era nè fortunato, nè ricco. Il governatore, garbatissimo e sommamente prudente, non mi chiese il motivo di tal viaggio; dopo pochi giorni però credei bene di doverlo mettere al fatto delle mie avventure e del mio stato. Ne parve commosso, e mi offrì di tenermi in sua casa per tutto il tempo dei dieci mesi che ancora gli restavano per compiere il periodo del suo governo. Non dovevo accettare, e per questa ragione lo ringraziai, pregandolo di favorirmi piuttosto lettere di raccomandazione per Milano. Me ne diede parecchie; ed una, fra le altre, della signora governatrice per il residente di Venezia, mi fu utilissima.

Spirati i quindici giorni, presi congedo da sua eccellenza. Io non era di buon umore; ed egli mi fece molte domande, ma non osai mai dir nulla; ben si accorse però che il mio impiccio procedeva da mancanza di danaro. Mi offre adunque la borsa; ricuso. Egli insiste; prendo allora con la maggior modestia dieci zecchini di cui volevo fargli l’obbligazione, ma egli non volle. Che bontà! che grazia! Bisognava partire; e il giorno dopo mi misi in viaggio.