Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XXVII

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Capitolo XXVII

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CAPITOLO XXVII

Assedio del Sacchi al mio dramma dimenticato: Le droghe d’amore. Dono

il dramma per liberarmi dalle insistenti circuizioni seccagginose.

Eravamo giunti a’ primi di novembre di quell’anno 1776. Le ricolte del Sacchi andavano con sterilitá. Gli altri molti teatri di Venezia gl’incalzavano la mèsse con delle novitá le quali sogliono attraere la popolazione.

Quel capocomico viziato ad essere soccorso ogn’anno da due o tre de’ miei fortunati capricci teatrali gratis, non s’era curato di rintracciare alcuna opera nuova da esporre. La mia poca salute di quell’anno e molti affari miei, spezialmente nel diffinire con degli accordi de’ litigi, m’avevano distratto dal pensare alle sceniche fantasie, le quali benché ad alcuni sembrassero abbozzi, mi costavano del riflesso e le quali servivano a me d’un semplice passatempo.

Non aveva potuto dar mano alle due opere poste da me in ossatura: Il metafisico e Bianca contessa di Melfi; e aveva solo condotto a fine il mio dramma: Le droghe d’amore, opera da me sotterrata e scordata per le ragioni che ho dette.

Il Sacchi non s’era però scordato quel dramma; e perché la sua pescagione andava sempre piú scarseggiando, e perché veniva rimproverato dal cavaliere padrone del teatro e da altri ragragguardevoli personaggi della sua infingardaggine e noncuranza del pubblico, incominciò a sciogliere le sue preghiere e ad auzzare tutte quelle de’ suoi compagni perch’io gli concedessi Le droghe d’amore in dono, da rappresentare.

Le mie renitenze ragionevoli e ragionate sulla enorme lunghezza e snervatezza di quel dramma e sulla naturale caduta di quell’opera erano combattute furiosamente con una insistenza instancabile. [p. 25 modifica]

Mi si diceva ch’io era troppo austero nel criticare e disprezzare le mie composizioni; mi si intuonava ch’io ne aveva sprezzate delle altre ch’erano poi riuscite mirabilmente contro la mia opinione; mi si adducevano le testimonianze di buon augurio fatte a quell’opera, e spezialmente quelle della Ricci; si protestava che quel dramma non poteva avere che un incontro felice; non si mancava di spargere che avendo io troncata la predilezione e l’assistenza della Ricci, guardava con occhio di freddezza e di perduta parzialitá il resto della compagnia. Quai tasti non sa toccare la maliziosa comica astuzia?

Nessun vigore avevano sull’animo mio le ciarle artifiziose. Un caritatevole rimorso di sentimento cortese di non aver fatto nulla in quell’anno in soccorso de’ miei protetti da tanti anni, il tedio che mi davano le interminabili preghiere, e piú la naturale mia condiscendenza, m’indussero a levarmi d’intorno le seccature ed a superare il ribrezzo di vedere fischiata un’opera mia nel teatro; il che doveva succedere per tutte le cause che ho narrate.

Trassi con qualche atto d’impazienza dal suo sepolcro quel manoscritto, e gettandolo al Sacchi come per sollevarmi da un fastidio, aggiunsi al mio dono le seguenti parole precise: — Dono il dramma perché non s’abbia a dire ch’io sono ostinato e scompiacente e per troncare le insidie seccagginose. V’ho detto dal canto mio che non sono persuaso dell’opera. Spero che bilancierete l’arrischiarla sulle scene. Vi ricordo che s’ella è fischiata, abbrucio per sempre la mia penna comica e tragica. Donando un dramma, anche non persuaso della sua riuscita, non merito d’esser posto al cimento di ricevere de’ sgarbi da un pubblico che sin ora mi fu indulgente.

Nessuno poteva prevedere che delle bugiarde, imprudenti e vendicative riferte d’una comica, de’ falsi passi e delle mosse di mal consiglio del credulo signor Pietro Antonio Gratarol, de’ puntigli de’ Grandi e della istrionica venale malizia facessero divenire quel dramma una inonesta satira particolare, senza il menomo intrinseco proposito, sulle spalle di quel signore. Le circostanze, de’ pessimi uffizi d’una attrice con me crucciosa per [p. 26 modifica]i soli di lei torti possono aver acceso il cervello del signor Gratarol inducendolo a odiarmi, a credermi capace d’un’azione inurbana e d’una puerile debolezza, senza cercare la veritá ad una fonte legittima e pura e senza riflettere al mio carattere. Se avessi potuto indovinare ciò che non era indovinabile, protesto a Dio che quell’opera sarebbe entrata nelle fiamme piuttosto che in potere d’un capocomico. Non serve a nulla la mia protesta: nel progresso delle mie inopponibili narrazioni si vedrá che non ho bisogno di farla.

Pochi giorni dopo il dono della mia condiscendenza il Sacchi giulivo mi riferí d’aver presentato il mio manoscritto alla grave magistratura di revisione e ch’era stata liberamente licenziata per il teatro.

Non poteva aver avuto alcun dubbio che nascesse una riprovazione o una negativa di licenza a quell’opera di pura critica morale scherzevole universale e innocente. Tuttavia chiesi se i prudenti revisori avessero cancellata qualche espressione o proposizione, sapendo che ciò avviene quasi ad ogni composizione teatrale presentata a quella matura revisione.

Il Sacchi mi rispose ch’erano stati cancellati otto o dieci versi soltanto. — Ebbene — diss’io, — vorrei che fosse stata cancellata intera. Avete veramente risoluto di dare al pubblico quel lunghissimo, seccantissimo e snervatissimo dramma? — Certo — rispos’egli, — e con sicurezza d’una fortuna grande. — Sopra a cosa donata — diss’io — so di non aver piú alcun arbitrio, tuttavia vi prego a concedermi per pochi giorni il libro: voglio vedere se mio fratello Gasparo, leggendolo a mente riposata di nuovo, potesse troncare qua e lá de’ pezzi, scemando almeno d’un terzo la estrema lunghezza di quella noiosa favata senza spezzare il filo di quella non so quanta ragione che guida tanta stravaganza.

Il Sacchi mi diè il manoscritto licenziato. Lo consegnai a mio fratello pregandolo d’una mutilazione da coraggioso chirurgo. Dopo averlo egli tenuto parecchie settimane lo rispedí addirittura al Sacchi, assicurando me per la seconda volta ch’egli non aveva saputo vedere di poter mozzare nulla senza pregiudicare le avvertenze e il filo della condotta, e che non poteva [p. 27 modifica]però tacermi che non era possibile il trattenere ascoltatori ad una cosí enorme lunghezza.

Rinnovellai le mie difficoltá, le mie preghiere e le mie minacce a quel capocomico perché non esponesse quell’opera; ma quello, animato dal suo bisogno e dalle comiche lusinghe, non fece altro che deridere le mie parole ch’egli chiamava modestie fuor di proposito.

Nella lunga serie di letture passate per il corso d’un anno sotto le orecchie e sotto agli occhi di tanti ascoltatori, della Ricci medesima, di tanti lettori, de’ saggi revisori, giammai passò per la mente a nessuno che nel mio dramma, composto di otto caratteri universalissimi, io abbia avuta quella maligna intenzione, che certamente non ebbi, di porre in iscena il signor Gratarol in uno di que’ caratteri ch’è un semplice episodio d’un carattere piú universale di tutti gli altri, spezialmente nella leggerezza de’ costumi dell’etá nostra in cui troviamo ad ogni passo degli originali di quella specie.

Giammai si trattò di esporre o di non esporre in un pubblico teatro quel dramma riguardo a una inonesta insidia verso quel signore ch’io conosceva appena di veduta, ma soltanto riguardo alle fischiate che potevano essere a me dirette per la infelicitá dell’opera mia e per la lunghezza senza esempio di quella.

Se però da tanti lettori, ascoltatori e revisori di quel tempo non fosse stato rilevato per cecitá un spregevole mio tentativo, credo un dovere il pubblicare colle stampe unito a queste Memorie il mio dramma: Le droghe d’amore, perché il mondo intero, anche prevenuto ora, possa giudicare se i miei lettori, ascoltatori e revisori sieno stati ciechi a considerare il carattere in contesa universalissimo e a non entrare per lo meno in sospetto d’una mia intenzione maligna, di che fui, sono e sarò sempre incapace.

Non si creda perciò ch’io voglia inferire che il Gratarol non sia stato in iscena nel dramma medesimo. Egli lo fu certamente, ma lo fu per i suoi passi falsi e imprudenti che, imbevuto da una comica vendicativa e crucciosa verso di me, per quanto ho narrato, si mosse egli a fare per impedire l’entrata in teatro di [p. 28 modifica]quel dramma innocente, risvegliando discorsi pubblici e un’illusione universale inestinguibile; lo fu per un suo incauto sparlare de’ Grandi che sostennero impuntigliati la innocenza e la esposizione di quell’opera anche contro le mie preghiere; e lo fu finalmente per una stomachevole venale malizia de’ commedianti, che niente ommette di ciò che può essere vantaggioso alla sua ingordigia, massime quando ella si trova spalleggiata e coperta da una protezione non sempre ben impiegata.

Tralascio per ora le mie riflessive ragioni convincenti in difesa della mia delicatezza. Non ho insogno né di logica né di colori rettoria. Se la sola mia semplice narrazione avvalorata da que’ testimoni onorati che nominerò e la pubblicazione con le stampe del mio dramma non persuadono della insidia arrischiata d’una comica, resa nimica non solo di me ma di tutti i suoi compagni de’ quali era divenuta il bersaglio, e delle false, imprudenti, boriose mosse e sopraffazioni in suo proprio danno usate dal Gratarol, mi do per vinto e m’assoggetto alla sozza pittura che il suo orgoglio, i suoi effemminati puerili sospetti e la sua biliosa scostumata menzognera libellatrice penna lo indussero a ingegnarsi a fare di me in faccia al mondo, e m’assoggetto alla condanna di tutti i viventi.

Benché io fossi disuaso sempre maggiormente nell’animo mio del buon effetto sul pubblico del mio dramma, non poteva però piú impedire l’ingresso di quello in sul teatro, al cimento di ricevere delle urla dal pubblico.

Il Sacchi per tenere in riputazione la sua regnaia aveva sparsa la voce per tutta la cittá d’avere quella mia nuova opera da esporre. Il desiderio di divertimenti e di novitá sempre ardente in Venezia e (devo pur dire per gratitudine) la brama con cui i miei concittadini gentilmente trasportati per le mie inezie teatrali attendevano il mio dramma, massime per il capriccioso titolo delle Droghe d’amore che loro prometteva una saporita critica da spassarsi, e soprattutto l’abborrimento ch’ebbi sempre all’ostinazione e al troppo presumere del mio parere, mi trattenne di porre a campo altre difficoltá, e studiai solo ad apparecchiare l’animo mio alla sofferenza per quelle fischiate [p. 29 modifica]del pubblico meritate dalla languidezza e prolissitá della mia composizione.

Assegnai le parti componenti il mio dramma con quella proporzione che mi parve confacente agli attori e alle attrici della compagnia da me conosciuti, e nessuno averá l’audacia di negare la mia legittima disposizione; la quale fu poi cambiata in parte a seconda dei successi che narrerò, senza il mio consentimento, secretamente, per una turpe insidiosa malizia comica ch’io non poteva mai prevedere.

Fatta ch’ebbi la disposizione delle parti in iscritto sull’opera licenziata, doveva io per una consuetudine necessaria far la lettura agli attori e alle attrici radunati che dovevano rappresentarla. La intenzione de’ sentimenti dello scrittore d’un’opera scenica è soltanto da lui conosciuta. Senza questa lettura preliminare e senza una somma attenzione di chi compose l’opera s’odono ne’ teatri moltissimi controsensi da una gran parte de’ nostri comici, per lo piú macchine ignorantissime.

Siamo al punto in cui il mio dramma di caratteri e d’una critica universalissima sul costume, per una via che nessuno doveva o poteva immaginare assolutamente, cominciò a divenire una satira particolare verso il signor Gratarol.

Se i miei lettori non s’annoieranno, troveranno naturale e niente maraviglioso un tal cambiamento di natura.