Merope (Alfieri, 1946)/Atto quinto

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Atto quinto

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Atto quarto

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ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Polifonte, Soldati.

Polif. Cede Merope al fine. — Adrasto, vanne;

sappia ognun le mie nozze; e or or, per quanto
di questo regio limitar l’ampiezza
il soffre, ingresso libero ai migliori
de’ Messenj concedi. Avviso a un tempo
fa che si rechi a Merope, ch’io, presto
ad eseguire il suo voler, l’attendo.


SCENA SECONDA

Polifonte.

Fortuna a me destra finor, comincia

a mostrarmisi or dunque in torvo aspetto?
E fia ver? quel Cresfonte, a mie sagaci
lunghe ricerche ognor sfuggito, or, quando
io men mi avviso, innanzi a me si para?
E quando a morte giustamente io ’l traggo,
un nodo inestricabile di casi,
pietá mia stessa e malaccorta, e finta,
a un tempo il danna, il manifesta, e il salva? —
Ma, se con arte io cominciai, con arte
proseguirò; fin che di forza il tempo

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torni. Messene mormora: mostrarmi

tanto piú a lei franco e securo io deggio.
Merope viene alle abborrite nozze
sol perch’è madre; e quindi aspetta forse
la mia rovina poi... Ma, preverrolla.
Sgradite a me son quanto a lei tai nozze:
ma piú vantaggio, e pria di lei, trarronne.
Fra securtá di nuzíali letti,
di comun mensa, e di ospitale albergo,
si apprestan mezzi, ad ogni istante mille,
di compier ciò, ch’or trar non posso a fine,
né lasciar poi, senza periglio, a mezzo. —


SCENA TERZA

Merope, Egisto, Polidoro, Polifonte,

Soldati, Popolo, Sacerdoti, Vittima.

Polif. Vieni, o regina; che il tuo prisco nome

ti renda io primo. Al fin tu cedi: oh! lieto
sia il giorno a noi! Da me festosa pompa,
per quanto il soffre brevitá di tempo,
apprestata al solenne atto rimiri.
E grandi, e plebe, e sacerdoti, e Numi,
testimonj vogl’io, ch’ogni rancore
spento è tra noi; restituito a ognuno
suo prisco stato; e che sublime ammenda
io fo in tal guisa d’ogni antico oltraggio.
Mer. — Ma, quei che stanno a noi dintorno, udito
forse han da te, che sono io madre ancora?
E a qual prezzo la vita del mio figlio
mi vendi?...
Polif.   Or dianzi, in nome tuo, costui
altro parlommi. E che? giá ti cangiasti? —
Ma, se pur vuoi de’ tuoi pensieri a parte
questo augusto consesso, io ’l vo’ de’ miei.

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Ragion di me render non temo. Or m’oda

Messene dunque. — Io vincitor quí venni:
io, col mio brando, a questo trono, ov’anco
gli avi miei m’appellavano, mi seppi
la via sgombrare. Al vincitor soggiacque
il vostro re sconfitto. Io, troppo forse
fero in quel punto, la innocente vita
tor lasciava a’ suoi figli: atroce frutto,
ma di vittoria usato frutto. Il regno
presi, ed il tengo: ma, qual fossi io poscia
duce, giudice, re, padre a voi tutti,
voi tutti il dite. Entro mia reggia appieno
stette Merope stessa indi secura;
e (libertá sen tragga) anco vi stette
sempre onorata, qual di re consorte.
Eppur, ben io sapea, ch’ella un figliuolo
in mio danno a vendetta empia serbava.
Ecco or colui, ch’ella suo figlio noma;
eccolo: udite in quale aspetto ei viene.
Mer. Eccolo, sí: questi è d’Alcide il sangue,
a tal ridotto... Ahi traditor! chi il trasse
a cosí infame stato?
Polid.   O figlio, affrena
il tuo furor...
Polif.   Certo, son io che il traggo
quí in sembianza di perfido assassino;
io d’innocente sangue l’empia destra
lordar gli fea. Mirate alto campione,
eroe novello! Egli è d’Alcide, al certo,
degno germe costui, ch’or me venia
a trucidar di furto: e dotta intanto
fea nel ferir la mal sua esperta mano,
con altra infame uccisione: e stava
travestito, in aguato generoso,
l’ora aspettando ove al mio petto strada
far si potesse. Ecco qual venne; e tale

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lo scopre a voi menzogna od arte, o caso.

Dovuta pena io dar poteagli; e il posso:
ma brama troppo è in me di pace: ha chiesto
Merope a me la vita sua; gliel dono;
sol ch’ella omai la destra a me non nieghi,
e al fin taccian fra noi cosí gli sdegni.
Né basta ciò: s’egli è sua prole, io ’l voglio
far del mio regno erede, poiché figli
altri non ho. — Che far piú deggio? — E tanto
degg’io pur fare? — E voi, Messenj, or dianzi
usi all’impero di guerrier canuto,
signor vorreste un giovinetto imberbe,
cresciuto oscuro, a se medesmo ignoto;
che nullo, o tristo saggio ha di se dato;
che ignaro appieno d’ogni pubblic’arte?...
Egisto Ignaro? io ’l son dell’arti tue; nol sono,
no, dell’arti d’Alcide: e prova farne
saprei...
Polid.   Deh! taci: a che innasprirlo? Il vedi;
i satelliti suoi son troppi: ogni uomo,
vedi, quí muto è dal terrore.
Polif.   — Il vostro
tacer, Messenj, alto stupore acchiude
di mia troppa dolcezza. Appien convinti
havvi il mio dir, ben veggo: anzi, non saggio
parvi il mio oprare, or che a costoro affido
me stesso tutto; e di costoro il core
noto esser demmi. È ver; ma, ad ogni costo
alta far voglio e memoranda ammenda
della vittoria mia. — Merope, omai
da te soltanto io pendo: ebbi il tuo assenso
pur dianzi giá; ritormel forse or vuoi?
Mer. — L’universal silenzio orrendo annunzia
chiaro pur troppo il mio destino. — Il figlio,
col mio morir, dunque or si salvi: io ’l debbo. —
O di Cresfonte inulta ombra dolente,

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perdona, deh! l’involontario oltraggio:

per te fui madre; e pel tuo figlio io vengo
alle nozze di morte. A fero passo
mi traggi, o figlio... Ma, se in vita resti,
assai son paga... E fia pur ver, che a forza?...
O voi, giá un dí, sudditi fidi al padre,
a tal ridotti or ci vedreste?...
Polif.   Or via...
Mer. Deh! non sdegnarti: al mio parlar do fine
in brevi detti. — Odi tu dunque, o figlio,
gli ultimi miei consigli. Al vincitore
piega tu omai la invan superba fronte:
fuor che a servir, nulla insegnarti io posso.
Soltanto omai, col prevenir sue voglie,
coll’eseguirle tacito, col farti
umil quanto piú puoi, né mai del padre
pur rammentando il nome; con quest’arti
forse il suo cor tu svolgerai dal sangue.
Chiusa per sempre la tua madre in tomba
vedrai tra breve: in mente accogli intanto,
duri a serbar, questi suoi detti estremi.
Egisto Misera madre!... Oh rio dolor!... Ma, trarre
vogl’io tal vita, a sí gran costo? Ah! vita
non m’è il servir. Tu vivi, o madre; e lascia
che degno almen dell’alto padre, io pera.
Polif. Merope, omai questo indugiar soverchio
m’irríta. Il regno, e intera pace, e il figlio
ti rendo a un tempo. A che quel pianto? Or, speri
forse i miei ribellarmi? Appieno in loro
securo io vivo: e ognun di lor ben vede,
ch’io far per te, s’anco il volessi, or nulla
di piú potrei. — Su dunque; in alto penda
sul collo al tauro la bipenne sacra.
Ecco la destra mia; Merope, aspetto
la tua, per cenno d’immolare ai Numi
la vittima.

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Mer.   ... Che fo?... Misera!... Oh giorno!...

Oh terribil momento!... La mia destra
dunque... Ma, oh vista! insanguinato, fero,
minaccioso Cresfonte ecco interporsi!...
Ahi!... dove fuggo?... Ove son io?... Pietade,
Messenj...
Egisto   Oh rabbia! E soffrirò?...
Polid.   Deh! taci
giá giá il tiranno l’efferato sguardo
su te...
Polif.   Non piú. Donna, una volta ancora
te l’offro: ecco mia destra.
Mer.   Oh ciel!... La mia...
Egisto Muori1. La destra a te dovuta, è questa.
Polid. Oh ardir!
Mer.   Che veggio?
Egisto   Muori2.
Polif.   Oh tradimento!
Soldati... Io moro...
Sold.   È un traditor; si uccida.
Popolo Ah! no; si salvi; è il nostro re3.
Mer.   Il mio figlio
egli è, vel giuro; è il vostro re...
Egisto   Ben altra
prova darovvi io stesso: e brandi, ed aste,
sparir fará questa mia sola scure4.
Mer. Messenj, ah! difendetelo...
Polid.   Respiro...
Ecco giá in rotta del fellon gli sgherri...
Mer. Deh! riedi, o figlio... Ahi lassa me!...
Polid.   Fra il sangue

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io il seguo: avessi il giovenil mio braccio!

Ma, per lui pur morrò. — Deh! figlio, m’odi:
riedi: sí addentro or non scagliarti; ah! lascia,
che per te mora io solo...
Egisto   Al fin vincemmo.
Madre, ti allegra; in fuga intera andarne
vedi gli empj soldati: Adrasto giace
da me svenato; i cittadini in folla
crescon vie piú...
Mer.   Messenj; egli è il mio figlio;
Cresfonte egli è: nol ravvisate al volto,
alla voce, agli sguardi, alle inaudite
alte sue prove, ed al mio immenso amore?...
Polid. Ed al mio dir con giuramento? O voi,
deh! vi scongiuro pel mio bianco crine,
per gli a voi noti integri miei costumi,
per la memoria di quel gran Cresfonte,
padre a noi piú che re; prestate intera
fede al mio dire. Io lo sottrassi, io stesso;
io l’educai...
Egisto   Messenj, a terra spento
(vedetel voi?) quí Polifonte giace:
io ’l trucidai; del padre, dei fratelli,
della madre, di me, di voi vendetta
compiuta a un tempo ebbi sol io: se reo
perciò vi sembro, a voi soli mi arrendo. —
Ecco; la scure che bastommi a tanto,
a terra io scaglio: eccomi inerme appieno,
e in man di voi: se ingiustamente il sangue
io versai di costoro, il mio si versi.
Popolo Oh generoso! Oh bello! È in tutto il padre.
Mer. Cresfonte in lui rivive...
Popolo   Oh lieta speme!
Re nostro vero...
Polid.   E degno re. Ch’io primo
prostrato ai piedi, alto a lui renda omaggio!

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E meco tutti or vi atterrate.

Popolo   Eterna
fe ti giuriam noi tutti: al par che prode
giusto sarai: mentir non può il tuo aspetto.
Egisto D’esserlo giuro. Ma, s’io pur nol fossi,
ch’io pur svenato, come costui, cada.
Polid. Deh! che non muojo in questo dí! piú lieto
mai non morrei.
Mer.   Vieni al mio seno, o figlio...
Ma oimè!... mi sento... dalla troppa... gioja...
mancare...
Egisto   Oh madre!... Ella or vien meno quasi,
per gli eccessivi affetti. Andiam; si tragga
a piú tranquílla stanza. — In breve io riedo,
Messenj, a darvi di me conto intero. —
Tu, mio buon padre, sieguimi: deh! m’abbi
per figlio ognor, piú che per re; ten prego.


  1. Strappata di mano al sacerdote la scure, si avventa a Polifonte, e lo atterra d’un colpo.
  2. Raddoppia il colpo.
  3. Il popolo si azzuffa co’ soldati.
  4. Si slancia fra i combattenti.