Misteri di polizia/XV. Il Duello Pepe-Lamartine

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XV. Il Duello Pepe-Lamartine

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XIV. I Proscritti del 1821 XVI. Cicisbei in ritardo

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CAPITOLO XV.

Il duello Pepe-Lamartine.

Il duello Pepe-Lamartine fu per la Società fiorentina e diremmo quasi per la Società italiana del 1826, qualche cosa di più d’uno dei soliti fatti di cronaca quotidiana. Fu pei nostri nonni, che vivevano sotto il regime così detto paterno dei principi restaurati sui loro troni dalle baionette della Santa Alleanza, un avvenimento metà politico, metà letterario, una vittoria che Gabriele Pepe, il brillante colonnello della Rivoluzione napoletana del 1820, il proscritto del 1821, con un colpo di fioretto, riportava sulla Francia dei Borboni personificata in quella circostanza in Alfonso Lamartine — una specie di lord Byron minuscolo della reazione allora dappertutto vittoriosa — che venuto in Italia a scaldare il proprio genio ai raggi del nostro sole e al calore che emana dai nostri monumenti, aveva creduto che il miglior modo di sdebitarsi dell’ospitalità accordatagli dalla terra, che un altro poeta, ma non di razza gallica, aveva chiamata Magna Parens, fosse quello di schiaffeggiare l’ospite gentile e veneranda a un tempo su tutte e due le gote con un centinaio di versi — in verità, come versi, assai belli — dove il paese che aveva ispirato al Goëthe un inno, ch’è una vera glorificazione, è insultato in una maniera semplicemente brutale.

A Gabriele Pepe che insieme ad altri proscritti napoletani, viveva all’ombra dell’ospitalità Toscana, quegli alessandrini, benchè sonanti come una bella cascata d’acque limpide e cristalline, fecero saltare, com’era naturale, la mosca al naso. Era il Pepe l’Ettore Fieramosca della emigrazione napoletana di quel tempo. Benchè egli sapesse maneggiare piuttosto bene la penna — e a Firenze viveva [p. 118 modifica]poveramente, ma non senza decoro, con quei pochi che ricavava dalla sua collaborazione all’Antologia — amava risolvere le questioni, anche letterarie, più colla spada che coll’inchiostro. A questo egli chiedeva il pane; si serviva dell’altra quando credeva che si trovasse impegnato l’onor suo quello d’Italia, che per lui, valoroso soldato ed ardente patriotta, era lo stesso. E lasciata ad altri la cura di rispondere al Lamartine magari in terzine di sapore dantesco1, egli mandò al poeta francese, che allora occupava il posto di segretario della legazione di S. M. Cristianissima presso il governo toscano, un cartello di sfida.

Alla Polizia del Granduca, quell’attività d’uomini che la diplomazia per bocca d’un figlio d’Apollo, nonostante le recenti condanne al carcere duro di Milano e di Venezia e i patiboli innalzati nelle Romagne dai cardinali legati, si ostinava a chiamare un popolo di morti, non poteva andare a sangue.

Aveva paura che quella poussière humaine, ripresi i muscoli e rifatte le ossa, scendesse un giorno in istrada e facesse bravamente alle schioppettate; e si mise subito in moto per impedire il duello. O non era l’Italia un cimitero di vivi?

Ma la Polizia, nel prendere le sue misure, s’impappinò come un filodrammatico o un professore novellino, smarrendosi maledettamente in una fitta selva d’ordini e di contrordini; e mentre dava la caccia al Pepe e al Lamartine fuori le porte di Firenze, a Pisa, a Livorno, a Prato, al confine, mettendo la febbre addosso ai Governatori, ai Commissari, ai Vicari e ai Bargelli, insomma a tutta l’alta e bassa sbirraglia del Granducato, il nostro colonnello e il suo avversario si battevano tranquillamente nel giardino del Palazzo della Legazione di Francia. [p. 119 modifica]

Colla scorta dei documenti ufficiali, noi possiamo tener dietro, diremmo quasi ora per ora, al lavoro fatto dalla Polizia per evitare lo scontro cavalleresco.

Il 18 febbraio (giorno di sabato) il cavaliere Puccini, dopo d’aver conferito con S. E. il conte Fossombroni e con S. E. don Neri Corsini, chiamato a sè un ispettore di Polizia, gli comunicava come fosse desiderio del Governo quello d’impedire ad ogni costo che il colonnello Pepe e il signor Lamartine scendessero sul terreno.

Già Omero qualche volta dormiva; e per quanto un paragone fra il divino cieco di Grecia e l’oscuro funzionario fiorentino possa sembrare parecchio irriverente a più d’uno dei nostri lettori, specie se nutrito di studi classici, pure siamo costretti ad aggiungere, per non lasciare a mezzo il paragone, che l’Ispettore, come Omero, pagò quel benedetto giorno del 18 febbraio il suo tributo a Morfeo. Difatti, come egli stesso narra in un rapporto al Puccini, raccolte che ebbe le sue informazioni, si formò la convinzione che quel giorno nulla sarebbe avvenuto. Imperocchè, non gli risultava che il colonnello Pepe avesse dato disposizioni per mettersi in viaggio, nè che altrettanto avesse fatto il Lamartine, che i suoi informatori gli dipingevano „sempre molestato da una forte percossa alla gamba, riportata nei giorni precedenti nella circostanza di essere rimasto investito dal calcio d’un cavallo.„

Quanto al Pepe, l’Ispettore ordinava ad un agente del commissariato di Santa Croce — il colonnello napoletano abitava presso un certo Ruggini, in Piazza del Duomo, nello stabile segnato allora col numero 6229 — che lo sorvegliasse, ed ove tentasse d’uscire, glielo impedisse in nome dell’Alta Polizia. Prevedendo poi il caso che il Pepe, non ottemperando all’inibizione, volesse ad ogni modo mettersi in viaggio, ordinava all’agente, che verificandosi tale caso, salisse in vettura con lui e arrivati che fossero insieme alla porta — la Polizia credeva fermamente che il duello avrebbe avuto luogo fuori le mura della città — chiedesse mano forte ai doganieri e ai soldati colà di presidio.

Dati siffatti ordini, che corrispondevano assai poco [p. 120 modifica]all’alto concetto in cui nel mondo della sbirraglia era tenuto quell’Ispettore, questi se ne andò a letto colla convinzione d’aver mandato a monte il duello; lo che probabilmente avrà contribuito a farlo saporitamente dormire sino all’indomani mattina.

Ma se l’onesto poliziotto invece di rincasare alle otto di sera come un semplice padre di famiglia, avesse dato una capatina sino in piazza del Duomo e vi si fosse trattenuto qualche ora ammazzando il tempo magari col rifare colla mente la storia della vecchia cattedrale di Arnolfo, sino alle dieci o alle undici, avrebbe visto il Pepe uscir di casa e con passo piuttosto affrettato recarsi al di là d’Arno e precisamente presso il suo avversario, ove da quel buon poliziotto ch’egli era, non avrebbe mancato di seguirlo. Di là avrebbe visto il colonnello andare in giro per la città e picchiare alla porta di due suoi amici2, quindi ritornare ancora oltr’Arno, in casa del poeta, per non uscirne che verso il tocco e ricondursi per Ponte Vecchio, via Por Santa Maria e Vacchereccia, a casa. Insomma, avrebbe visto tutto ciò e si sarebbe persuaso d’una cosa assai semplice, cioè, che il Pepe e il Lamartine, visto e considerato che la Polizia si dava attorno per impedire il duello, s’erano posti d’accordo per far la barba di stoppa alla rispettabile matrona.

Quanto alla sorpresa che doveva avere il giorno dopo l’Ispettore, lasciamo che la narri egli stesso: „Un poco prima delle otto mi si presentò il Magnolfi (l’agente di S. Spirito), e mi riferì che poco innanzi il Lamartine s’era imbarcato sopra una carrettella a due cavalli per quanto sostenuto dal suo cameriere a causa della gamba non per anco ben guarita, ordinando al cocchiere d’andare a passare dalla casa del colonnello Pepe. Vidi il Celli (l’agente di S. Croce), e questi mi disse che avendo visto sortire il Pepe, gl’ingiunse di rientrare in casa d’ordine della Polizia; ma [p. 121 modifica]che il colonnello era montato in vettura ed andato via. Il Magnolfi, che intanto si era recato in piazza del Duomo, aveva visto arrivarvi il Lamartine al momento in cui s’allontanava la carrozza del Pepe, che si fermò ad un cenno dell’aggiunto della legazione francese, il quale discese dalla vettura, e parlò colle persone che si trovavano dentro l’altro legno, e quindi s’allontanarono.„

Il fiasco della Polizia non poteva essere più colossale. Con un’ingenuità veramente preadamitica i birri avevano perduto le traccia della selvaggina quando già l’avevano sotto il tiro. Figurarsi l’imbarazzo e la disperazione dell’Ispettore!

Nè egli era solo a trovarsi nell’imbarazzo come un aio qualunque delle commedie del conte Giraud di briosa memoria. Facevano a lui compagnia i pezzi grossi del Governo, il Puccini, il Corsini, il Fossombroni che strillavano come aquile. Poco dopo il mezzodì parve che la Polizia si fosse posta sulle orme del Pepe. Una staffetta, spedita da Prato, avvisava il Presidente del Buon Governo ch’era stato visto un signore elegantemente vestito e in compagnia d’un grosso cane avviarsi, a piedi, verso il territorio lucchese. In quel viaggiatore parve ai birri riconoscere il colonnello napoletano. Ma il Puccini, fra un moccolo e l’altro, pensò che anche a Prato i poliziotti dovevano pigliar lucciole per lanterne; imperocchè, se il Pepe un poco prima delle otto era stato visto a Firenze, in piazza del Duomo, quasi alla stessa ora non poteva sul cavallo di San Francesco avviarsi, al di là di Prato, verso il confine, a meno che non fosse stato lo stesso Sant’Antonio; alla qualcosa, l’ex-volterriano presidente, com’è facile credere, non prestava fede.

L’esito del duello non si conobbe che nelle prime ore della sera di quel giorno, ed insieme ad esso che i due avversari non erano usciti dalla città. Il Puccini, che qualche scintilla del vecchio fuoco giacobino conservava in petto, non tenne il broncio al Pepe pel tiro birbone giuocatogli. È anzi da credere che in fondo al suo cuore abbia approvato il colpo di spada regalato al francese insolente dal colonnello carbonaro, al quale si limitò a far conoscere il proprio risentimento con un bigliettino che non doveva [p. 122 modifica]essere nè acre, nè altezzoso, se il Pepe, lo stesso giorno in cui era sceso sul terreno, potè rispondergli nel modo seguente:

„Sensibilissimo al gentile rimprovero da Lei fattomi d’aver disobbedito all’ordine significatomi da un agente del Governo, onde non sortissi di casa fino ad ulteriore comunicazione, ho l’onore di dirle e d’assicurarla sulla mia parola che nessuna persona si è a me approssimata, nè mi diè cenno alcuno dell’ordine in discorso. Potrà Ella contare sulla scrupolosa e religiosa verità di questa mia assicurazione. Ho il bene ecc.„

La città, intanto, era eccitatissima. Gariele Pepe, la sera del 19 febbraio, era già divenuto l’enfant gâté del pubblico fiorentino. Quel suo colpo di fioretto assestato tanto opportunamente a colui che aveva scritto i versi che avevano fatto fremere d’indignazione gl’italiani, anche più alieni dalle sètte e dalle cospirazioni, l’aveva trasformato in un eroe. Era una disfida di Barletta in proporzioni minuscole, con un zinzino di sapore letterario per giunta, come peraltro portavano i tempi e l’ambiente, quella che era stata ancora combattuta tra Italia e Francia e colla vittoria della prima.

Il Governo, che si riassumeva nella persona del primo ministro, il conte Vittorio Fossombroni, a cui non faceva difetto un certo spirito d’italianità che di tanto in tanto lo spingeva a non accettare sempre senza beneficio d’inventario gli ordini della Cancelleria austriaca, stimò prudente di mettere a dormire la faccenda, benchè uno degli attori del dramma fosse un carbonaro della più bell’acqua e non vivesse a Firenze che per semplice e graziosa tolleranza di S. A. I. e R. il Granduca felicemente regnante; e la sera stessa della gran giornata don Neri Corsini scriveva al presidente Puccini:

„Il consigliere don Neri Corsini prega il degnissimo signor Presidente del Buon Governo di non prender nessuna misura rispetto al napoletano Pepe già tornato in città insieme al suo avversario sani e salvi (in quel momento il ministro ignorava che il Lamartine avesse riportato una [p. 123 modifica]ferita) senza averne parlato con lui in segreteria dove l’attende domani all’una pom.ª„

E l’indomani il ministro ordinava al presidente del Buon Governo che si stendesse un velo sui fatti della vigilia.3

In seguito, e quando l’effervescenza suscitata dal duello si poteva ritenere calmata, l’Antologia volle pubblicare alcune terzine che Giuseppe Borghi aveva scritto in risposta agli alessandrini del Lamartine; ma la censura vi si oppose col suo veto, come anche più tardi si oppose che sullo stesso giornale si rendesse conto con un articolo moderatissimo del poema del bollente segretario della legazione di Francia. La consegna, come si vede, era di dormire.



Note

  1. Rispose con alcune terzine Giuseppe Borghi; ma la poesia, destinata a comparire nell’Antologia, non ebbe l’approvazione della censura.
  2. Uno dei due padrini del Pepe fu Carlo Merlo, marchese di Sant’Elisabetta, siciliano, già ufficiale nella marina napoletana, e come il Pepe, esule dalla patria in seguito ai moti del 1820-21.
  3. Secondo il Lamartine (Mémoires Politiques) avrebbe contribuito a siffatta determinazione lo stesso poeta. Difatti, egli scrive: „Ma femme, qui courut au palais Pitti, obtint facilement du grand-duc que le gouvernement fermât les yeux sur un duel sans suite funeste.„ La ferita, per altro, non poteva dirsi leggiera. „Le chirurgien (scrive il poeta) trouva ma blesseure sérieuse, mais sans danger.„ Se si dovesse poi giurare sulla parola di lui, quella ferita l’avrebbe egli ricevuta volontariamente. „Je songeai que la blessure grave ou légére que je lui aurais faite aurait nécessairement été suivie d’une serie interminable de duels avec des italiens, prenant aussitôt aprés sa place.„