Misteri di polizia/XXIII. La Letteratura clandestina

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La Letteratura clandestina

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XXII. Due proscritti: Giuseppe Garibaldi e Gustavo Modena XXIV. La Censura

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XXIII.

La letteratura clandestina.

In un paese dove il pensiero dell’uomo non può manifestarsi che dopo d’aver subito la tortura di quel letto di Procuste che è la censura, la letteratura clandestina, quella che vede la luce alla macchia e si diffonde nell’ombra, può dirsi che occupi il primo posto. Il regio censore non mette il suo visto, in quel paese, che alla letteratura senza impronta d’originalità, senza profondità di concetto, senza arditezza di sentimenti. Letteratura, peraltro, che in Italia, dall’invenzione dell’Indice col relativo codazzo di revisori civili, religiosi, e in qualche parte, come a Roma, coll’aggiunta di quelli della Santa Inquisizione, non mancò di far gemere i torchi della penisola, costretti da un siffatto sistema a non dar fuori che sonetti e madrigali d’Arcadia, cicalate d’accademici, storie redatte da scrittori pagati per tacere, peggio, per mentire, sermoni ed omelie di frati e di vescovi, elementi e trattati di morale e di filosofia imbastiti da scolopi e da gesuiti per castrare l’animo ed inebitire lo spirito della gioventù. In Toscana, ove, è giusto dirlo, la censura era piuttosto tollerante sino ad attirarsi non di rado i rimproveri dell’autorità politica, come vedremo in seguito, i torchi clandestini fornirono nei tempi che descriviamo tutta una letteratura civile elevata, che qualche volta s’innalzava sino a raggiungere il capolavoro o il genere nuovo. Giudizio che a nessuno dovrà sembrare esagerato, quando si pensi che furono stampati alla macchia o all’estero, e segretamente circolarono l’Elogio di Cosimo del Fante e l’Assedio di Firenze, del Guerrazzi, l’Arnaldo da Brescia, del Niccolini, e le Poesie del Giusti; ma oltre ai capolavori, ci fu tutta una letteratura che prosperò nell’ombra, non sempre [p. 177 modifica]correndo, umida d’inchiostro tipografico, per le mani della gioventù: letteratura che non aveva bisogno di torchi e i cui saggi degli oscuri ammanuensi riproducevano all’infinito, e i curiosi, i maligni, e i liberali diffondevano rapidamente senza che d’ordinario la Polizia arrivasse a scoprire, malgrado il suo zelo, gli anonimi autori.

Questa era, d’ordinario, la letteratura del giorno, del momento, diremmo quasi la cronaca politica e cittadina del paese, di rado non personale. Il pubblico, che non poteva leggere la questione del giorno in un articolo di fondo, in un capo-cronaca, in una monografia di rivista, trovava sempre un poeta o uno scrittore che con un epigramma, un sonetto, una pagina di prosa mordace appagasse il suo desiderio o la sua curiosità. Soltanto il pubblico, in quella lettura, provava una soddisfazione maggiore di quella che avrebbe provato se quella sua lettura fosse passata per le mani del censore. Era la soddisfazione che nasceva dal sapere che al suo spirito si buttava in pascolo un frutto proibito.

Riservandoci a parlare sotto speciali rubriche di alcuni dei monumenti più importanti della letteratura clandestina apparsi e diffusi in Toscana nei tempi di cui ragioniamo, diamo qui posto alla piccola letteratura anonima venuta sù nel mistero, omettendo sopratutto le scritture in prosa, comprese quelle di natura politica, per non isconfinare di soverchio dal nostro argomento. La nostra rassegna sarà limitata al campo poetico.

L’ispettore Chiarini, con rapporto del 17 marzo 1818, informava la Presidenza del Buon Governo che un certo Dario Mercati aveva narrato al Caffè del Bottegone d’aver ricevuto per mezzo della posta il seguente sonetto, il quale è una atroce satira all’indirizzo dei ministri toscani di quel tempo. [p. 178 modifica]

La Nave, detta l’Etruria

.

Preso ha il timon chi fu poc’anzi al remo,
     E la finanza ha caricata in barca:
     Con tanta preda in corpo il mar travarca
     Per gir della fortuna al lido estremo.

Pregno di nobiltà, di merti scemo,
     Altro corsaro in la galera imbarca.
     Della sentina a poppa Ei tutti abbarca
     D’orgoglio i vizî, onde naufragio io temo.

Vi monta un terzo a cui spirto maligno
     Ride sui labbri: ei regge guerra esterna
     Per salvare ai compagni vita e scrigno.

Ma quarto vien chi sbirri e spie governa
     Perchè mostri la ciurma umor benigno:
     Spera Etruria il suo ben da tal quaderna.


Con nota del 28 marzo, il Presidente del Buon Governo fece chiamare il Mercati dinanzi il Commissario di Santa Croce, perchè questi lo invitasse a conservare un perfetto silenzio sulla poesia ricevuta, sotto pena, in caso di trasgressione, di fargli fare una breve villeggiatura nelle casematte della Fortezza da Basso; ammonimento non troppo grave ove si consideri che l’uomo che ha preso il remo era il Frullani, ministro delle Finanze, quello pregno di nobiltà e di pregi scemo don Neri Corsini, ministro dell’interno, quello a cui uno spirto maligno ride sui labbri, Vittorio Fossombroni, primo ministro, e in fine quello che sbirri e spie governa lo stesso Aurelio Puccini, Presidente del Buon Governo.

Benchè non si riferisca a cose toscane, pure per essere stata ritrovata in una perquisizione fatta a Firenze a persona di principî liberali, ci piace riportare la seguente poesia improvvisata da Luigi Rossi, impiccato a Napoli per causa politica il 7 marzo del 1799, poco prima d’essere condotto al patibolo, come si legge in fronte alla stessa poesia: [p. 179 modifica]

Ad un Amico.

Dolce moto in cor mi sento
D’una speme, che mi dice
Cile sovente un infelice
Può trovar qualche pietà.

Se una lagrima, un lamento
Spargerai sulla mia sorte,
Dell’onor d’ingiusta morte
L’alma mia trionferà!

E pensare che pochi anni prima strofette simili a quelle improvvisate dal povero Luigi Rossi, l’abate e poeta cesareo Pietro Metastasio poneva sulla bocca degli eroi dei suoi drammi per essere cantate sui teatri Imperiali e regi di Vienna da gole certamente non destinate al capestro del boia!

Ma la letteratura clandestina prese un notevole incremento in seguito agli avvenimenti di Parigi e di Bruxelles del 1830, che ebbero il loro contraccolpo in Italia in quelli di Bologna e di Modena del 1831. La stampa fu allora adottata come il mezzo più efficace d’apostolato politico. La redenzione dei popoli fu affidata alla penna. Si continuò a cospirare, ma più che nelle congiure e nei moti sì cominciò ad aver fiducia nella forza delle idee. Laonde gli apostoli della penna non mancarono nelle file dei liberali. Ce n’era piuttosto di soverchio. Erano, peraltro, liberali quasi tutti i migliori scrittori del tempo. Il Mazzini, capo della Giovine Italia, non sapeva soltanto organizzare cospirazioni; sapeva scrivere proclami, che mettevano la febbre addosso alla gioventù. D’ordinario gli stampati rivoluzionari arrivavano clandestinamente dalla Svizzera, da Malta, dalla Corsica, da Marsiglia, dall’Inghilterra; ma in Toscana, ove i censori erano arrendevoli, o troppo buoni, più d’una volta si tentò e si ottenne di far passare col visto della stessa censura, della roba incendiaria.

Nel gennaio del 1833, in una raccoltina di versi dedicati alla cantante Rosa Botrignani-Bonetti e distribuita in teatro nella sera della beneficiata dell’artista, col permesso dei [p. 180 modifica]superiori, potè leggersi in una canzone, colla quale si offriva alla diva una corona di gigli, di rose e d’alloro, la strofa seguente:

Il giglio vi metti
     La rosa e l’allor;
     Quei fior son diletti
     A ogni italo cor.

Scrivendo i quali versi il loro autore avrà probabilmente dovuto pensare a quelli del Berchet, allora tanto in voga fra la gioventù liberale:

Il giallo ed il nero
     Colori esecrabili
     A ogni italo cor.

La cosa non passò inosservata alla Polizia, la quale, senza pretendere ad un brevetto d’invenzione, potè scoprire nel giglio, nella rosa e nell’alloro insieme accoppiati i colori della Rivoluzione Italiana; e il Presidente del Buon Governo osservò come l’Imperiale e regio Censore, nell’accordare il permesso, fosse stato troppo buono.

Nel 1833 la notizia d’un caso pietosissimo si diffuse, per l’Italia. Una donna, moglie e madre, per reato politico fu tratta in carcere d’ordine della Polizia austriaca, mentre il marito, per la stessa causa ricercato, aveva poco prima potuto porsi in salvo colla fuga. Nelle carceri di Stato di Venezia la povera donna s’ammalò e morì, e alla sua morte tenne dietro quella del figlio, un angioletto di poco più d’un anno. Il Mazzini, nella Giovine Italia, con parole di profonda pietà commiserò il caso tristissimo, e Carlo Pepoli, da Parigi, scrisse sulla morte del figliuolo morto innocente, un’iscrizione, che diffusa a migliaia di esemplari nella penisola, destò dappertutto un grido d’indignazione contro l’oppressore austriaco. L’iscrizione si distacca dalle solite forme classiche; all’incontro, sotto una rassegnazione che vuol parere cristiana, ma è un urlo di vendetta, essa preludia alle barricate del quarantotto. E per più tempo [p. 181 modifica]quell’urlo dovette interrompere i sonni del carnefice straniero, se anche oggi quelle parole arrivano a commuoverci.

io sono
ENRICHETTO
dello
ESULE SILVESTRO CASTIGLIONI
e della
ERRICHETTA BASSOLI
alle madri e spose italiane
specchio santissimo.



costei
perchè rea d’avere amato
la patria
ed il consorte nemico ai tiranni
nelle prigioni del tedesco in venezia
spirò.



io figliuolino d’un anno due mesi e tre dì
subitamente volai da terra
per
baciar mia madre
nel cielo
d’onde
insieme preghiamo
a voi
una patria.



o genti italiane!
non piangete
ma
sulla tomba dell’innocenza
di farvi degni d’italia

GIURATE!

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La musa clandestina non s’ispirava solamente alla politica: pigliava argomento di scoccare dardi, che si conficcavano nella piena carne, dai fatti della cronaca quotidiana.

Nel 1826, un’aspra battaglia impegnossi tra i letterati toscani a proposito del noto verso di Dante:

Durante la lotta, che fu combattuta a furia d’inchiostro e col sussidio di codici rovistati in tutte le biblioteche del Granducato, un dubbio terribile amareggiò l’animo e turbò i sonni e la digestione di quei buoni letterati. Il conte Ugolino, passato il dolore, si nutrì delle carni dei figli e dei nipoti? Oppure, sopravvenuta la fame, questa, vinto il dolore, uccise il prigioniero? La prima interpretazione fu sostenuta con tutti i sofismi d’un avvocato imbottito di testi danteschi e d’arzigogoli filologici dal fecondo Carmignani, al quale un poeta anonimo scoccò il seguente epigramma:

Che un uom per fame mangi i figli morti
     Non può strano sembrare a un avvocato,
     Che divora per genio disperato
     Vivi coi figli i padri e i lor consorti.

L’epigramma che segue, fu scritto in occasione della messa celebrata in Santa Croce, nel 1841, per inaugurare i lavori del Congresso scientifico riunitosi allora a Firenze. A spiegare lo stesso si premette che i preti, per salvare come suol dirsi la capra e i cavoli, visto e considerato che una messa doveva celebrarsi e per obbligo d’ospitalità dinanzi ad un uditorio di sapienti, fra cui notavasi più d’un dotto luterano d’un letterato evangelico, omisero nella messa il Credo e il Gloria.

Una messa in Santa Croce
     Senza Credo a bassa voce;
     Senza Credo pei credenti,
     Senza Gloria pei sapienti.

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Il seguente epigramma fu diffuso a Firenze contro un certo prete Michelagnoli, commissario dell’Ospedale degl’Innocenti, al quale si attribuiva la proposta di mandare i trovatelli in quel di Grosseto per accrescerne la scarsa e malazzata popolazione:

Michelagnoli il prode,
     Dei miseri Innocenti commissario,
     Vorria, novello Erode,
     Mandar colà dello Spedale i figli,
     E darli di Grifone fra gli artigli,
     Onde vedere tutti gl’innocenti
     In poco tempo sterminati e spenti:
     Questo progetto barbaro d’un prete
     Prence, Ministri, che l’abbraccerete?

La Polizia ne attribuì la paternità all’avvocato Lamporecchi, spirito caustico, in quel tempo ritenuto come uno dei luminari del fôro fiorentino.

Il risanamento dell’agro grossetano intrapreso con enorme dispendio da Leopoldo II, diè più d’una volta la stura allo spirito epigrammatico dei poeti toscani. Oltre ai famosi versi del Giusti che si leggono nell’Incoronazione, altri ne corsero per Firenze, ne’ quali l’opera grandiosa del nipote di colui che aveva prosciugato e risanato Val di Chiana, era parecchio bistrattata. Questo epigramma fu diffuso nel 1842:

Si dice che una volta il vecchio Ombrone
     Così dicesse al suo Real Padrone:
     — Pria le mie terre fossero toccate,
     Ci regnavan le febbri nell’estate;
     Ma coi vostri lavori, a quel che scemo,
     Non si campa d’estate, nè d’inverno.

Nello stesso anno la Polizia potè mettere le mani sopra la seguente satira, molto diffusa in Toscana e fuori:

LA BIBLIOTECA.

Satira contro i Sovrani d’Italia.

Regno Lombardo-Veneto. — Sul modo di tosare le pecore, opera di S. A. I. e R. l’Arciduca Ranieri. [p. 184 modifica]

Sardegna. — Caino, Tragedia in cinque atti.

Napoli. — De Arte Culinaria, opera di S. M. il Re Ferdinando II.

Roma. — Modo di raffinare i vini all’uso forestiero, opera di S. S. Papa Gregorio XVI.

Toscana. — Sul rasciugamento dei ranocchi, opera di S. A. il Granduca Leopoldo II.

Modena. — Istruzione ai Birri, opera di S. A. il Duca Francesco IV.

Parma. — Le lagrime d’una vedova, commedia in tre atti di S. A. la Duchessa Maria-Luisa, vedova di Napoleone il Grande.


Sempre nel 1842, e contro il prosciugamento della Maremma grossetana:

QUESTUA DELLA R. DEPOSITERIA.

Sovvienti della Depositeria:
     Mi fe’ Frullani, sfecemi Maremma:
     Salselo Cempini, ed il Manetti pria
     Che d’oro m’han spogliato e d’ogni gemma.1


Contro il cav. Ferdinando Tartini, sopraintendente delle Comunità:

(Dopo la Pasqua del 1843).

Il nostro cristianissimo Sovrano
     L’empio Tartini volle a mensa piena
     Nel santo giovedì per ciambellano:
     Così ad imitazion del Redentore
     Ai sudditi mostrò che la gran cena
     Gli piacque consumar col traditore.

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L’atteggiamento delle due statue di Dante, l’una in Santa Croce, l’altra negli Uffizî, suggerì a un bell’umore il seguente epigramma, che per altro corre ancora per la bocca di tutti:

Il gran maestro della tosca musa
L’ha fatta in Santa Croce e qui l’annusa.

Qui, negli Uffizî, dove il grande poeta è rappresentato in atto di portare la destra all’altezza del naso, mentre nel mausoleo di Santa Croce, è raffigurato seduto.

Sempre contro il Cempini, ministro delle finanze, e prosciugamento della Maremma di Grosseto:

Quel governaccio degli Stati Uniti
    Non sa che cosa farsi dei quattrini;
    Se vuol presto vederli rifiniti,
    Mandi a chiamare il consiglier Cempini:
    Se poi quel villanzon non gli garbasse,
    Secchi i paduli e vuoterà le casse.


L’epigramma che segue, l’abbiamo estratto da un fascicoletto manoscritto di poesie satiriche e politiche d’autori diversi, sequestrato a Pietro Fanfani non ancora venuto in fama d’illustre filologo, nel 1845. Esso è contro la contessa d’Albany:

Lung’Arno ammirano i forestieri
    Una reliquia del Conte Alfieri.
    Si crede il fodero del suo pugnale;
    Secondo i fisici è l’orinale.

La contessa d’Albany, come si sa, abitò in Lung’Arno, nell’antico palazzo dei Gianfigliazzi, a Santa Trinita. [p. 186 modifica]

Nello stesso fascicoletto si legge quest’altro epigramma, insieme alla sua versione latina:

Solean gli antichi barbari e feroci
    Far penzolare i ladri dalle croci:
    I moderni or più miti e più leggiadri,
    Fanno le croci penzolar dai ladri.

Come si vede, l’epigramma è più vecchio della odierna usanza di spargere a piene mani croci e commende.

Ed ecco ora la traduzione latina:

Mos erat antiquis crucibus suspendere fures;
    Furibus appendunt tempore nostra cruces.

Una postilla del Fanfani, chiama leggiadra siffatta traduzione.

Intanto i tempi ingrossavano. Seguivano i casi di Romagna, e Pietro Renzi, uno dei capi di quel moto, ricoveratosi in Toscana, fu dal Governo granducale, con insigne vigliaccheria, arrestato e consegnato alle autorità pontificie.

La estradizione fu accompagnata da uno scoppio di sdegno contro il Principe che veniva meno in siffatto sconcio modo alla sua riputazione di bontà e di mitezza, ed i ministri che infeudavano lo Stato alla Curia Romana. Scritti in prosa e in versi e in cui lo spirito epigrammatico s’alternava alle imprecazioni, piovvero dappertutto. S’attribuì al letterato Domenico Valeriani, accademico della Crusca, il seguente Sonetto, in cui sotto pretesto di mettere alla gogna Francesco IV di Modena, allora morto, si dava addosso ai Consiglieri di Leopoldo II:

PANEGIRICO DEL DUCA DI MODENA.

(In occasione della consegna di Pietro Renzi).

    Nacque costui dall’iniqua semenza
Degli oppressori: al ducal seggio accanto
Innalzò la mannaia, e fe’ suo vanto
Di boia incoronato l’impudenza.

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    D’ogni infamia ebbe in sè la quintessenza,
Ogni infamia coprì col regio manto,
E l’itale sciagure accrebbe tanto
Che l’austriaco rigor parve clemenza.

    Fedele ai gesuiti e al Santuario,
Torturò, macellò la specie umana,
E degli Stati suoi fece un Calvario!

    Ed or morendo questa buona lana,
Nomina esecutor testamentario
Il nuovo ministero di Toscana.


Altre poesie ispirò l’atto codardo. L’ultimo giorno del carnevale 1846, in occasione che col consenso della Polizia, dal pubblico si volle imitare quella brillante e fantastica scena del carnevale romano ch’è la passeggiata dei moccoletti, furono gettati lungo via Calzaioli, via Cerretani e via Tornabuoni, migliaia e migliaia di cartellini, coi seguenti epigrammi.

AL MINISTERO TOSCANO.

Per farti Roma amica
    Ai carnefici suoi Renzi tu desti:
    Gli usi or ne imiti; e quì un Loiola
    Colle tenebre sue, nei moccoletti;
    Noi pure avrem, da giogo vile oppressi,
    I soli lumi che saran permessi.

A FIRENZE.

Giunti appena al Governo questi broccoli,
Passi, Firenze mia, dai lumi ai moccoli.

Furono i due predetti epigrarammi attribuiti dalla Polizia a Filippo De Boni, che il Buon Governo non aveva ancora cacciato dal Granducato.

Codesto nuovo Ministero, composto di gesuitanti ed austriacanti e la cui intransigenza contrastava colla prudenza dei vecchi ministri Fossombroni e Corsini, provocò un nuvolo di poesie e di scritti anonimi.

La poesia che segue feriva in pieno petto il [p. 188 modifica]Baldasseroni, che in quel Ministero reggeva il portafoglio delle finanze.

LA DIFESA DI S. E. BALDASSERONI.

Quel superbo ed alter Baldasseroni
     Contro del qual tanto si è detto e scritto
     Da certi vagabondi, birbaccioni,
     Che avvilito il volevano ed afflitto,

Fa lor saper che meno Sua Altezza,
     Qualunque altro non teme, anzi disprezza;
     Che conosce le trame e gli amminicoli
     Dei pochi suoi nemici e grandi e piccoli.

Sognando veramente da Baccelli
     Ch’egli debba finir come il Ciantelli;
     Ma che il giorno verrà delle vendette
     E lor farà cacar chiodi e bollette.


Contro lo stesso Baldasseroni, l’Hombourg, ministro degli esteri, e il Paüer, ministro dell’Interno2:

Ieri in Piazza certe antenne
     A rizzar s’incominciâro;
     A qualcuno in capo venne
     Che a puntello ed a riparo
     Le ponesse pel potere
     Ieri Poldo3 l’ingegnere.

Ma i più accorti poi sostennero
     Ch’erano forche belle e buone,
     Che rizzate in fretta vennero
     A impiccar certe persone
     State scelte a vitupero
     Del toscano ministero.

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La poesia che segue è contro il Baldasseroni.

SUPPLICA AL GRANDUCA.

Prence! Dacchè poneste al ministero
     Un uom senza opinione e senza fama,
     Pallone, prepotente, asino, altero,
     Contro del qual tutta Toscana esclama:
     — È questi il Robespier Baldasseroni
     Che Pluton se lo prenda fra i demoni!
     Il disordine è nato e lo scompiglio
     Tanto dentro, che fuori del Consiglio.
     Talchè è pubblica voce per Firenze
     Che egli ne impone alle altre Eccellenze;
     Se tal cosa sussiste, è da Baccelli
     Il non fare di lui come a Ciantelli.

Pel varo del Giglio, legno a vapore della marina granducale, corse il seguente epigramma:

Perchè non possa al prisco onor tornare
Baldasseroni l’ha gettato al mare.

Il Giglio, come si sa, è lo Stemma della città di Firenze.


Sparsasi a Firenze la notizia della morte di Gregorio XVI, fa diffusa una litografia rappresentante il Papa ubbriaco, giacente al suolo, e con sotto la scritta: Dio in terra. Quasi nello stesso tempo fu trovato affisso al muro, accanto al Gabinetto Letterario del Vieusseux, a santa Trinità, il seguente scherzo:

     Sapete ch’è stato?
Vi è noto il gran caso?
Il Papa è crepato
D’un canchero al naso.

     E un dèmone sgherro
Col viso di scherno
Per strada di ferro
Lo trasse all’inferno.

     U’ in giro abbrustito
Percorre con esso
D’un cerchio infinito
L’odiato progresso.

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Come si vede, nella scelta della pena a cui l’anonimo poeta condannava Gregorio XVI, c’è abbastanza spirito, mentre nessuno ignora quanto fosse l’odio di quel Papa pel progresso e per le ferrovie: due cose, secondo lui, inventate dal diavolo.

La morte del Papa, che fu salutata da un grido di gioia dagli abitanti degli Stati Pontifici, ispirò ad un poeta romano una poesia, che circolò anche a Firenze. Ne diamo le prime due strofe.

DE PROFUNDIS.

     De Profundis! Don Gregorio
Sei fra i santi o in purgatorio?
Quando mai tra incensi e lagrime,
Nel dolor di tutto il mondo
La fedel cristianità
Del tuo naso rubicondo
La reliquia adorerà?

     De Profundis! La cantina
L’ha bruciato stamattina:
Invocate il Divin Spirito
E Gregorio per decreto
Sacrosanto in Concistoro
Del Champagne e dell’Orvieto
Sia nel cielo il protettor.

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In un’altra poesia sullo stesso argomento e con allusione al patto d’amicizia stretto fra Gregorio e lo czar Niccolò, al tempo delle stragi di Polonia, il poeta dirizzandosi al Papa, esclama:

Nella tomba due volte al tuo cospetto,
     La Polonia invocandoti si scosse,
     E armata d’una croce, ignuda il petto,
     Dalla cintola in su, fissa levosse:
     E tu, la prova indarno combattuta,
     Seguace al boia del lontano Sire,
     Colla croce la povera caduta
     Scendevi sulla fossa a maledir.


Note

  1. Il Frullani e il Cempini, ministri delle Finanze del Granducato; il Manetti, celebre idraulico.
  2. In occasione che in piazza della Signoria (allora del Granduca) erano state dirizzate certo antenne per praticare alcuni restauri sulla facciata di Palazzo Vecchio.
  3. Leopoldo II.