Mitologia del secolo XIX/XIV. Ati

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XIV. ATI.

Conosco taluni a’ quali tanto è coltivare le lettere quanto il prendere un poco di fresco lungo la riva del mare, o starsene a fiutare una rosa spiccata per caso. Noiati da quelle ch’essi chiamano le loro faccende, gettano a caso gli occhi sur un libro, o pigliano in mano una penna per farla correre da dritta a sinistra sopra quel primo foglio di carta che incontrano sul tavolino. Quando essi dicessero: ciò serve a mia ricreazione; e di tanto si contentassero, non ci sarebbe che soggiungere: chi vorrà far colpa a Menandro se in compagnia d’amiche persone, mentre altri suona, si pone a ballare, quando anche le sue capriole non siano tagliate tutte aggiustatamente? Ma se Menandro monterà il palco, e nel cospetto di un migliaio o due di persone vorrà tentare a soli, o terzetti, come s’usa da’ ballerini di professione, chi sarà che non gli dica: Menandro tu impazzi; a far ciò si vuole una particolare disposizione di membra e studii particolari? Ora il fatto di que’ taluni, da me pur ora citati, è di tal modo. Pigliano le lettere come trastullo, non per averne quel diletto ch’esse sono destinate di spargere in tutti gli animi indistintamente, ma per erigersene in maestri e censori, e credersi atti a fare per caso, e come vien viene, ciò che altri non ottiene che con lungo esercizio d’ingegno, e continui sagrifizii di mol[p. 95 modifica]ti piaceri. Quanto a me, quando mi si affaccia qualcuno compreso da simile mattezza, non posso a meno di ripetere fra me stesso: oh Ati infelicissimo! vedi come la tua lezione è poco studiata! oh infelicissimo Ati!

Che cosa ha che fare questo discorso di Ati con quelli che chiameremo letterati per diletto? Mi si conceda ritesserne in poche righe la storia, e la relazione si farà senz’altro sensibile ad ogni lettore. Era Ati un bel giovanotto di Frigia, e bello per guisa da dar nell’umore alla più attempata fra le Dee, l’antichissima Cibele. E il malaccorto, senza badare gran fatto che importasse il mettersi ai servigi di una padrona tanto gelosa, votò ad essa la propria giovinezza. Veduta indi a poco certa ninfa Sangaride dimenticò la fatta promessa. Ora che ne avvenne? Gli entrò nelle viscere un siffatto furore, che, fuggendo di casa, ne venne ai boschi di Dindimo, consacrati alla terribile Dea, e quivi di propria mano si gastigò nella guisa meglio atta a contentare la gelosia. Preso poi il timpano, e credendosi femmina, senza più si mette a saltare, incitando a far il somigliante tutti coloro che si fossero compiaciuti di aggiungersi alla sua setta. Nè qui la favola finisce; ma c’è anche una trasformazione in pino, a cui pose la propria arte Cibele, dopo che i compassionevoli canti del giovane mutilato stancarono la sua collera. Ma della metamorfosi ce ne passeremo per ora.

Ora io chiamo Ati que’ tali che si danno alle [p. 96 modifica]lettere per semplice ricreazione dello spirito, e credono in esse potere per tal guisa riuscire eccellenti. In quanto alle lettere, esse mi sono benissimo figurate in Cibele madre dei numi, e rispettabile allo stesso Saturno, ch’è il Tempo. Non è Dea che si presenti atteggiata a smorfie e moine, e il suo carro è tirato da’ leoni, indizio della forza e della magnanimità. Scorre da un capo all’altro la terra, e porta la testa coronata di torri, in quanto ha in tutela ogni spezie d’umano consorzio, e le città si reggono col suo consiglio. Ma non si creda ch’ella voglia contentarsi di chi ne viene a lei rifinito tra gli amplessi delle Sangaridi. All’imprudente che la tiene in sì poca stima, fugge il senno e la dignità della propria natura; per cui, fatto arrogante e cianciero al pari di femminetta, si dà a urlare bizzarre canzoni, e a strepitare col timpano tra le mani. E forse che non è tale il castigo dei poveretti di cui parliamo?

Al vederli infocarsi nel volto e mandare poco meno che faville dagli occhi quando pongonsi a quistionare di ciò ch’e’ non conoscono, non potete a meno di credergli pazzi; e quando si mettono a parlare, i loro ragionamenti hanno la sodezza ch’è nei discorsi della femminetta. Orsù, Ati mio bello, fa che ascoltiamo alcun poco di questo tuo canto sì dolce, e del quale ti credi l’eccellenza sia tanta, da poter levarti a giudice de’ più dotti maestri. Ati spicca due salti, e tempesta percosse sulla tesa pelle bovina. Ma tu [p. 97 modifica]mi rompi l’orecchie con questo frastuono. Egli è come parlare a’ macigni. Rinsaviiscono anche talvolta, dopo avere un poco dormito; e al destarsi conoscono la mala via in cui sono posti e i molti inutili passi gettati. Si richiamano allora del proprio delirio con misere voci: oh patria! oh amici! oh miei traffichi! oh foro! oh studio! oh palestra! chi mi ha consigliato di abbandonarvi? Ora che fo io su per questi monti, tra questi boschi, con questo timpano da metter paura negli orsi? Ma la puerile vanità torna a spirare, ed eccoli nuovamente in danza, eccoli nuovamente in tripudio finchè loro basta la vita.

Quando adunque accada a taluno, il quale coltivi gli studii di proposito e con la debita assiduità, d’incontrarsi in questi letterati per diletto, do loro consiglio di non venirne a quistione con essi, e nè manco di stizzare. Essi sono più che altro da compiangere. Basterà dir loro sotto voce: povero Ati! Ati infelice! tu manchi di ciò che più importa, e il timpano e l’ululare ti tengono luogo d’ogni cosa. Potrete conoscerli facilmente: il loro fare e da femmine vane e insolenti, spiccano salti da disperati, ed operano con quella discrezione medesima che si userebbe fra i boschi. Hanno il furore di Cibele che gl’incalza, sono fuori di senno. Credettero che si potesse partire la vita tra Cibele e tra Sangaride, e si sono ingannati: persistettero nel loro errore, e ne furono puniti colla demenza. Niente ad essi è difficile, tengono per nulla [p. 98 modifica]gettarsi dal più alto dirupo col capo innanzi. Che cosa è un’orazione? Sorridono al vedere come altri vi si apparecchi raccogliendo i pensieri, e studiando nell’ordine con cui sia da disporli. Le odi? Essi le fanno un paio per volta. Pensate se vogliono andare a rilento nel giudicarne!

Ma non era meglio per voi starvene con Sangaride tutte l’ore? Non vi è tolto godere la festa di Cibele, quando essa, veneranda negli atti, passa sul proprio carro; ma perchè venirne furtivi al suo culto? Le lettere sono di loro natura destinate a gustarsi da tutti; ma non è da ognuno il professarle: e chi si voglia mettere a questo deve porvisi di proposito. Dico ciò con animo di assennare chi ancora non è caduto nel delirio del povero fanciullo di Frigia, che quanto agli altri, che hanno di già cominciato ad urlare e saltare pe’ boschi, la sarebbe fatica gettata il dar loro consiglio alcuno. Per essi è il solito ritornello: povero Ati! Ati meschino!