Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrarono/Capitolo I
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Capitolo Primo
Cenno storico di Castelli.
Chi viene in Italia dalla parte d’oriente, entrando per l’Abruzzo teramano, vede di fronte il gruppo più grande di monti che formano gli Appennini: e dalla vetta più alta, che le altre di tanto sovrasta, riconosce a prima vista il Gran-Sasso d’Italia, detto altrimenti Montecorno alla destra del quale la catena degli Appennini alquanto declina, e dopo parecchi monticelli, si eleva di nuovo formando altro gran monte, che chiamano le pareti; perchè tagliato a piombo come un’enorme muraglia. Le sue falde son circondate da folto bosco di faggi, che estendendosi in sotto, finisce al cominciare del piano di S. Salvatore; così detto da un antico ed illustre monistero di Benedettini. L’un lato di questo piano è bagnato dalle fresche acque del Leomogna, e l’altro dall’umile Rio: i quali strisciando sempre ai fianchi di esso, vanno via via restringendolo; finchè dandogli forma di angolo, si uniscono insieme, e serpeggiando altro poco, sboccano finalmente nel fiume Navone.
Il tratto di terreno compreso tra i due torrenti (che non può dirsi piano che in piccola parte), per lo frequente mutar di scena è assai dilettevole a vedere; e specialmente passati i rigori della stagione invernale. Se volgi lo sguardo all’intorno, vedi d’appresso smisurate giogaie di monti, selve foltissime, colline rivestite di boschetti e di case campestri, cadute di acqua, fontane limpidissime: qui una Chiesetta, colassù un castello distrutto, che ricorda il potere feudale dei bassi tempi. Se cali giù l’occhio vedi rupi altissime formate dal rodere continuo dei torrenti: sopra le quali poggia il piccolo Castelli tanto celebre per le sue maioliche.
La sua origine è incerta, e si perde nella oscurità dei secoli. Il territorio dov’esso è fondato facea un dì parte dell’Agro Atriano, e con quasi tutto l’attuale Circondario di Tossicia, veniva anticamente chiamato Valle Siciliana: nome che oggidì anche ritiene, e che rammenta essere stata ivi l’antica abitazione de’ Siculi primitivi abitatori degli Abruzzi, secondo che dicono il Pontano, il Camarra e il Delfico: anzi quest’ultimo è di credere, che sia rimasta a questa regione un tal nome, perchè forse quei popoli vi si poterono più lungamente sostenere1.
Ad onta di che i Siculi, come narra Plinio, furono poscia espulsi dall’Agro Atriano dagli Umbri, questi dagli Etruschi, ai quali successero finalmente i Galli2.
A quale di questi popoli debbesi la fondazione di Castelli nol sappiamo. Certo è che in diversi luoghi del territorio Castellano si osservano tuttavia gli avanzi di antichissime fabbriche, e finanche vicino ai monti, dove oggi la selva è più folta, veggonsi le tracce di esse3. Si conosce solo per costante tradizione, che nei tempi andati gli edificii non erano come al presente uniti insieme, ma sparsi qua e là in gruppi fortificati, e che perciò vennero chiamati li Castelli o le Castella. Crollato però l’Impero Romano, allorchè i barbari penetrarono in Italia, e presero a disertare il bel paese, i Castellani così divisi malsicuri si videro e poco forti a resistere alla turba de’ tristi, che profittando di questi sconvolgimenti, faceano frequenti scorrerie in queste contrade. Sicchè raccolti in consiglio, determinarono formare dei diversi Castelli un sol paese, che tolse da essi il nome che tuttora conserva.
In mezzo a così indisciplinata e miseranda barbarie, non rimase al tutto spenta la civiltà nella Valle Siciliana, come ne fan fede tanti chiari uomini, che allora vi splendeano per grandi dignità ecclesiastiche, civili, e militari4; non che le arti che con lode vi si professavano. In ciò gran parte dovettero avere i molti signori, che, in tempo dell’invasione de’ Saraceni, si afforzarono presso a questi mondi, ed i monaci Benedettini quivi stabiliti, i quali tra le dense tenebre, il tesoro delle lettere e delle arti si diedero sollecitamente a conservare. Tra i vari Monisteri della contrada, il più celebre si fu quello di S. Salvatore di Castelli, il quale però ebbe pur molto a soffrire nel generale disordine, e venne quasi al tutto disfatto. Ma restaurato per cura dei monaci, e di tutti i suoi beni arricchito, verso la fine del secolo XI, da S. Berardo de’ Conti di Pagliara; fu trovato in ottimo stato dal Pontefice Pasquale II che, perseguitato da Arrigo V nell’anno 1117, costretto a lasciar Roma, trovò quivi un sicuro rifugio. Durante la sua breve dimora, consecrò la Chiesa di S. Salvatore, e molti privilegi all’Abate concesse a al Monistero, che rese immediatamente soggetto alla S. Sede, come rilevasi dal Diploma nello stesso anno speditogli da Benevento5. I Monaci grati vollero questo fatto rammentare agli avvenire con una lapide, che apposero nella loro Chiesa. La quale in prosieguo abbandonata dai monaci (per i troppi pericoli nei quali erano costretti di vivere), e poco curata dagli Abati Commendatarii che loro successero; cadde finalmente, non è ancora mezzo secolo, e seppellì con le sue rovine questo monumento, riferitoci da persona tuttora vivente che l’ha più volte osservato.
Divisa l’Italia in feudi, la nostra Castelli fu signoreggiata dai Conti di Palearea: di che si ha la più antica memoria nel registro dei Baroni del regno di Napoli, compilato sotto i Normanni verso la metà del secolo XII6. Questa nobile famiglia Salernitana, come alcuni vogliono, prendea ora il cognome di Collepetrano da un feudo che possedea, ed ora di Palearea dal luogo di sua residenza, ch’era una rocca ben fortificata in su un alto colle, che Castelli sovrasta dalla parte di Occidente, detto oggigiorno Pagliara7. Tommasa, unica erede di Gualtieri conte di Palearea, sposatasi ad un Conte di Chieti, ebbe da tal matrimonio una sola figlia, che nel 1340, od i quel torno, si congiunse con Napoleone Orsini. Così la casa de’ Conti di Palearea si estinse, ed i suoi feudi passarono in potere di questa nobilissima famiglia romana8.
Ma non andò molto, che spogliati gli Orsini di tutti gli stati per aver prese le armi contro a Ladislao, questi concessi il dominio di Castelli e di tutta la Valle Siciliana a Francesco Riccardi di Ortona, che appresso nel 1419 fu confermato nel possesso dalla Regina Giovanna II. Dal Riccardi venne la signoria di Castelli alle mani di Antonello de Petrutiis di Aversa; e finalmente tornò di nuovo agli Orsini. Questi continuarono a godere pacificamente dei loro stato insino al 1524: nel quale anno, avendo il Re di Francia mandato l’esercito in Italia all’acquisto del regno di Napoli, Camillo Pardo Orsini di sua volontà il dominio rifiutò della Valle Siciliana all’ambasciadore di Carlo V presso la corte di Roma, per non incorrere in nota di ribellione9. Rimaste vittoriose le armi dell’Imperatore, questi per rimeritare i servigi del suo Capitano Ferrante Alarcon y Mendozza, nel 1526 gli concesse col titolo di Marchese la signoria della Valle Siciliana.
Perdette allora la Valle Siciliana quella pace, che avea lungamente goduta sotto i Palearea e gli Orsini: dappoichè i novelli padroni, non essendo stretti da alcun legame nè di patria nè di amicizia nè di parentela alle terre che dominavano, poco umanamente usavano con i loro soggetti. I Castellani quantunque fuor del dovere aggravati, pure soffrivano e tacevano. Finalmente ogni vincolo d’amore e fiducia scambievole tra essi e la casa Mendozza fu rotto per cagione di un balzello, che nell’anno 1660, col nome di piazza, fu posto sulle maioliche che si estraevano, per soccorrere ai bisogni del Comune. Cadde nell’animo al Marchese nel 1715 d’impadronirsi di tale imposizione, sotto pretesto che la terra di Castelli fu alla sua famiglia concessa cum viis, plateis ec: e poichè con tutte le arti possibili non avea potuto mandare ad effetto i suoi disegni, veduta l’ostinazione di quei di Castelli, risolse nell’anno seguente di spedirvi una squadra di sue genti d’arme, per condurli all’ubbidienza con la forza. I Castellani sdegnati dalle troppe gravezze, adunatisi segretamente a consiglio, deliberarono far trovare a sì brutti ceffi una forte resistenza: e perciò ben armati, avendo alla testa il celebre pittore Francescantonio Grue, animosi si fecero loro davanti; e nel primo incontro venuti alle mani, taluni di quei bravi rimasero uccisi, vari feriti, e tutti gli altri battuti e sbaragliati. Ma poichè le ragioni e gli sforzi dei deboli poco valgono, pagarono essi a gran costo la loro prodezza. La corte marchesale, avuto nelle mani il Capo, e fatta inquisizione ne’ complici, cinquantaquattro cittadini notò come ribelli: de’ quali molti furono imprigionati e tenuti per otto anni, e gli altri pochi postisi in fuga furono costretti andar lungamente raminghi10. Dello sventurato numero dei prigioni uno fu il Grue, il quale mentre era rinchiuso nelle più spaventevoli carceri di Napoli, con acerbi versi sfogava lo sdegno di cui era tutto acceso11.
La patria dolente della fine infelice di questi suoi figli più coraggiosi che provvidi, volle prenderne vendetta col far noto al Vicerè in quali oppressioni e travagli essi viveano. Ne’ ventidue articoli di accuse legonsi oggidì con orrore gli eccessi dei Baroni in quei tempi di calamità, che l’età presente non sostiene neppure di nominare. Dietro di ciò il fuoco della discordia vieppiù si accese tra le due parti; e la quistione addivenendo ogni giorno più intralciata, per essa occupavansi la R. Udienza di Teramo, la R. Camera, il R. Collaterale Consiglio, e lo stesso Vicerè. Passato alquanto tempo senza favorevole successo, i Castellani si persuasero che vanamente imploravano la giustizia: dappoichè se per ragioni essi vincevano il Marchese, questi li avanzava in potenza: sicchè, stanchi di consumare il tempo in timori e angustie, si rivolsero agli accordi. Trattato l’affare da uomini di legge scelti da ambe le parti, fu composto in modo che a Castelli libera rimase l’imposizione della piazza; ed al Marchese furono ceduti alcuni dritti controversi. Così fu firmata la pace a 10 Marzo 172712.
Lasciato stare il Comune, i Mentozza misero mano alle sostanze della Chiesa: e non temerono appropriarsi le ricche rendite della Badia Curata di S. Salvatore, col conferirla a individui di loro famiglia anche laici, obbligando i cittadini a pagare il Parroco con i proprii danari! Questa faccenda però venuta a notizia del Re, verso la fine del secolo passato, con R. dispaccio de’ 3 Febbraio 1798, ne fu tolto l’abuso.
Caduta la potenza de’ Baroni, i Castellani speravano vivere riposatamente; ma altre calamità erano loro serbate. I torrenti che ai fianchi scorrono della loro patria, avendo d’intorno scoverte le fondamenta delle case, si temeva ogni dì che rovinassero: e infatti una notta di Febbraio del 1834, cadde l’antica Chiesa di S. Pietro e vari edifici vicini, con generale sbigottimento dei cittadini. La qual cosa come seppe il Commendatore Palamolla, che la provincia di Teramo allora reggeva, ogni opera fece per cessare i mali di quegli sventurati13. Di paterno zelo si mostrò e di animo affettuoso il Marchese di Spaccaforno, il quale, alzato poco dopo a sì nobile officio, delle sciagure di Castelli più volte parlò con calore al Consiglio Provinciale14. Nè minore fu la sollecitudine del Cavaliere Valia, che nell’amministrazione gli successe, poichè molto s’adoperò per campare dai pericolo l’infelice paese15. Il ch. Commendatore Roberti, che ora al governo presiede della detta Provincia, ogni sua cura ha parimenti rivolta, perchè la patria dei Grue altrove si riedificasse. Egli espose il quadro miserando davanti agli occhi dell’Augusto Monarca: e la M. S. volendo alla salute provvedere di così industriosi cittadini, con R. Rescritto de’ 12 Dicembre 1850, si degnò ordinargli che sul luogo si conducesse per ponderare la spesa occorrente per la nuova Castelli16. Essendo stato già compilato il lavoro, i Castellani ansiosi aspettano le sovrane disposizioni, come quei che temono una rovina certa e vicina.
L’aria di Castelli è pura e salubre; il terreno quantunque poco fertile, pure quello che produce è bastevole ai bisogni dei cittadini. Tutto il popolo del Comune è composto di 2932 abitanti. Essi sono di bello aspetto, svelti intelligenti, allegri, affettuosi, ospitali.
Note
- ↑ Interamnia Pretutiana, pag. 7.
- ↑ His. Nat. lib. 3. cap. 13.
- ↑ Il Sig. de Bartolomei, uomo di molta erudizione, ci ha fatto gentilmente sapere, che presso Castelli esser dovea la sede del Lucumone, in tempo della Dedearchia Etrusca; e che la memoria di questo fatto ci è stata conservata dal torrente Lucumonia, oggi Leomogna.
- ↑ I Pontefici S. Agatone, S. Leone II, e Stefano III furono della Valle Siciliana. La simiglianza del nome della loro patria, ha fatto dire a vari scrittori, che i due primi fossero Siciliani.
- ↑ Il P. Lauret Abate di S. Salvatore, pubblicò questo Diploma nelle addizioni da lui fatte alla Cronica Cassinese di Leone Ostiense, messa a stampa in Napoli nel 1616.
- ↑ Alla pag. 55 di questo registro pubblicato dal Borelli si legge — Oderisius de Collepetrano dixit quod tenet a Domino Rege in Balba Carapellum feud. 4. mil. et medietatem Civitatis feud. 1. mil. et Tuscitiam feud. 2. mil. et Furcam 1. mil. et li Castelli 2. mil. et Collem Altum 1. mil. ecc.
- ↑ V. Palma, Storia Eccl. e Civ. della regione più settentrionale del regno di Napoli, tom. 1. pag. 147. Teramo 1832.
- ↑ V. Palma, op. cit. tom. 1. pag. 146.
- ↑ V. Sansovino — L’Historia di Casa Orsina fol. 96 — Venetia — mdlxv.
- ↑ Di questo avvertimento si fa menzione nel Registro de’ diversi ordini ec: che conservasi nell’archivio comunali di Castelli.
- ↑ V. Documento A.
- ↑ Nell’archivio comunale conservasi la copia autentica dell’istrumento di pagine 62 all’uopo fatto: nel quale si leggono le cagioni delle controversie, e le accuse date al Marchese.
- ↑ V. Documento B.
- ↑ V. Documento C.
- ↑ V. Documento D.
- ↑ V. Documento E.