Novelle umoristiche/Una “scampanata„

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Una “scampanata„

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La fortuna di un uomo Il polso

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Una “scampanata„.

In Romagna.


Tornavano dalla parrocchia, dopo i vesperi, frotte loquaci di donne, uomini e fanciulli e coppie amorose, sorridenti o serie nel loro bisbiglio; i dami col garofano all’occhiello.

Una gran dolcezza primaverile calava dal cielo, ove serenamente moriva il lume crepuscolare e, sensibile e ineffabile, si effondeva dalla terra ove il nuovo verde pareva velarsi a poco a poco e oscurarsi e, lontano, sparire. Come due ragazzi s’arrestarono per tirar sassate in un ricovero di passeri, nel fitto del cinguettio, il nonno d’uno di loro ammonì a voce aspra:

— Lasciateli stare, poveri animalini! — Ubbidirono; lanciarono i sassi nel fiume; e nel ricovero di fronde le piccole voci ripresero richiami, proteste, confidenze, querele, saluti.

A un punto della strada, la Faziòla e [p. 202 modifica]Fulgenzio, che venivano fra gli ultimi, l’uno dal lato destro, l’altra a sinistra, si videro.

— Buona sera, Fulgenzio.

— Buona sera, Faziòla.

— Il sole è calato bene. Avremo bel tempo anche domani.

— Ce n’è bisogno.

— Dove siete a lavorare, adesso?

— Vanghiamo le vigne.

— Sarete in molti.

— Quindici o sedici.

— E han fatto «caporale» Giulio, eh?

— Giulio.

— Povero Fulgenzio! Non c’era ragione di farvi torto.

— Chi comanda ha sempre ragione.

Dopo una pausa lei chiese:

— Ma è vero quel che dicono?

— Dicono.

La loro malignità non andava più oltre dell’accennare alla ciarla che Giulio dovesse ai meriti della moglie la nomina a capo degli operai braccianti.

— Per fortuna non avete famiglia da mantenere, voi.

— Oh! io mi contento che Dio mi lasci la salute. Ma.... — E l’infelice guardò la Faziòla sorridendo in quella sua maniera di bontà ingenua per cui appariva men brutto e più triste: — ....Ma se mi viene una febbre, io non ho un cane che mi porti una goccia d’acqua. [p. 203 modifica]

Allora, quantunque compiangesse lui, la Faziòla sospirò per sè.

— Meglio non aver nessuno, che aver dei cani, per modo di dire, che vi porterebbero via il boccone di bocca, se potessero.

— Non vi trattan bene in casa?

Essa volle attenuare.

— Capirete anche voi: le annate vanno scarse e uno di più in famiglia, aggreva.

— Ma voi lavorate.

— Questo è vero. C’è la tela da fare? Tocca a me. C’è da rappezzare la roba? Tocca a me; la sera o la mattina. Al dì, o si va alla foglia, o all’erba con le ragazze; o s’aiuta la reggitora. In ozio non ci sto; quest’è vero.

Era disgraziata anche lei, la parte sua, povera Faziòla!

Quindi Fulgenzio riprese:

— Avete fatto male a non maritarvi un’altra volta, quando eravate a tempo.

— Le vedove che non han quattrini si lascian dove sono; lo sapete pure. Piuttosto voi, Fulgenzio, perchè non avete preso moglie?

Entrambi s’erano già dimenticati d’aver riconosciuto un vantaggio in lui il non aver famiglia da mantenere; e lui tornò a sorridere.

— Chi volete che mi prendesse?

Infatti da giovane era anche più brutto e più magro, sembrava più zoppo; sembrava tirasse l’anima coi denti.

— Una ragazza non dico — la Faziòla [p. 204 modifica]rispose. — Le ragazze han delle pretese; ma una donna quieta....

— Trovarla una donna quieta!

Tacquero, mentre la Faziòla diceva fra sè e a occhi bassi, nel silenzio: «Oh non c’ero io?» Almeno così egli credette, perchè sorrise ed esclamò commosso:

— Ah, lo capisco il mio sbaglio! Avrei dovuto sposarvi voi, Faziòla! Voi eravate proprio la donna per me.

— E io vi avrei preso, Fulgenzio!

Mormorò l’uno:

— Adesso è fatta.

— Adesso è fatta — mormorò l’altra.

Nè parlaron più finchè furono vicini a casa.

Ma quando la Faziòla stava per augurar la buona notte, lasciar la strada e passare la siepe, Fulgenzio, fermo, si guardò attorno, raccolse il fiato e con voce tremula disse:

— Sentite: la gente può dir quel che vuole; ma io, di una donna ne ho proprio bisogno.

— Lo dico anch’io.

— Se voi mi voleste....

Alla proposta lei si mise a ridere forte.

— Ma siete matto? Ho cinquant’anni; sono vecchia....

— Mi volete?

Ridevano tutti e due, tanto la cosa era seria; tanto egli temeva un no e tal voglia aveva lei di rispondere sì.

Ma vinse la ragione. [p. 205 modifica]

— Bisogna pensarci su, per non pentirsi dopo.

— Pensiamoci. Domenica ne discorreremo.

— Va bene. Buona notte, Faziòla.

— Buona notte, Fulgenzio.

🟌

Avevano una settimana per pensarci; ed era troppo; e la settimana fu lunga. Finchè aveva sperato di migliorare un po’ la sua condizione risparmiando il corpo malconcio, Fulgenzio aveva sperato anche di trovar donna non molto innanzi con gli anni la quale lo compensasse della giovinezza perduta senza amore; ma cadutagli ogni speranza e presunzione, doveva ringraziar Dio se la Faziòla lo voleva! Era una brava donna, che a opera nei campi o a tessere, guadagnerebbe tanto da non tornargli di peso; una buona donna da cui, quando Dio lo chiamasse per primo a sè, avrebbe amorevole assistenza. Davvero?... Non seduceva la Faziòla il solo interesse? Non si era sparsa voce ch’egli aveva da parte qualche soldo? Questo sospetto lo infastidiva; ma, insomma, la donna era buona o no? Sì, era buona. E allora, via il pensiero maligno!

Quanto a lei, la Faziòla, uscir di quella casa in cui i parenti la trattavano da serva e le invidiavano il pane che mangiava; e faticar meno, e vivere in casa sua, giudicava tal fortuna [p. 206 modifica]che a rifiutarla le sarebbe parso d’offendere la Provvidenza. Pure un ritegno le restava. Perchè? si sentiva il coraggio di sfidare la gente, o no....

Finalmente venne la domenica a chiuder la settimana dell’attesa e dell’incertezza.

— Come la mettiamo? — chiese, al ritorno dai vesperi, Fulgenzio. E sorrideva in quel suo modo faticoso.

— Ho paura del mondo.

— Io no; non ci bado io!

— Ci faranno la «scampanata».

— E che la facciano!

Egli cercò inanimirla; e tanto disse, che lei accondiscese. Pur mentre incoraggiava, quella giusta apprensione degli scherni che turberebbero forse per anni la loro pace; quel timore dell’avversione o della condanna pubblica, toglieva ardimento a lui stesso e l’induceva, il dì dopo, a interrogare l’arciprete. — A costo di spender qualche cosa, non si potevano evitare le pubblicazioni matrimoniali? —

— Impossibile!

L’arciprete però fece coraggio a Fulgenzio: — Non badassero a rispetti umani! —

— Un po’ di meraviglia in principio, eppoi smetteranno.

— È quel che dico anch’io.

Altro che meraviglia! Fu stupore, fu ilarità mal repressa per tutta la chiesa quando l’arciprete disse dall’altare: [p. 207 modifica]

— Si pubblica per la prima volta la domanda di matrimonio di Fulgenzio Landi con la Violante Stradelli vedova Faziòli.

E, dopo, la fidanzata non osava più uscir dalla porta di casa, avvelenata in casa dalle canzonature dei nipoti e dei pronipoti; nè il fidanzato osava cercarla. Essa ignorava in che modo resisteva lui alla tempesta. E Fulgenzio sorrideva e taceva.

«Presto o tardi smetteranno!»

Altro che smettere! Dio sapeva quel che preparavano per il dì delle nozze!

Fortunatamente l’arciprete ebbe un buon consiglio; e allorchè, nel gran giorno, la gente accorse alla prima messa per assistere allo sposalizio, apprese che da due ore gli sposi eran già fatti e che già erano a casa loro.

— Stamattina ce la siam cavata — sospirava la Faziòla. — Il peggio sarà stasera.

Ripeteva Fulgenzio:

— Non ci pensate.

Intanto si vedeva che lui ci pensava.

Attendevano, intanto, a riordinar la casa, oh senza alcuna smania di sposi novizi!: irritati, al contrario, che a loro due, così quieti e consapevoli degli anni e dei malanni che portavano addosso, il mondo attribuisse simili sciocchezze.

Molte erano le faccende. Anzitutto, il letto, primo talamo della Faziòla, da riconnettere; e i pagliericci da riempir di foglie, e i cuscini da [p. 208 modifica]rifare; quindi, ripulire le masserizie, riordinare e spartire la biancheria e i panni che meritavano rattoppi; e nettar la cucina in modo che non ci fosse da vergognarsi nemmeno se v’entrassero l’arciprete e il fattore.

— Ah le mani d’una donna! — diceva Fulgenzio strofinando, dentro, il paiolo.

Inoltre, si prepararono il desinare di nozze con le tagliatelle in brodo e il lesso.

— Sono dieci anni che non ho sentito un poco di manzo; da quando si maritò mia sorella — confessò Fulgenzio.

Similmente la Faziòla gustava il vino.

— Buono! Buono! Non me ne davano mai, in casa, a me!

E, d’improvviso, il vino le fece concepire l’idea mirabile, che schiarì del tutto il malumore in entrambi. Se dessero da bere agli offensori?

— Ho fatto un pensiero curioso — lei disse. — Se dessimo da bere?...

Fulgenzio ascoltava, sorridendo; approvando.

— Sì, sì! Un bel pensiero! Sicuro!... Rideremo! — E rideva.

— Il vino dove lo mettiamo?

— In un bigoncio.

E poco dopo egli fermò il bigoncio nella carriola; e andò alla fattoria a riempirlo di quello buono.

Ma al ritorno vide la moglie desolata, pentita d’averlo indotto alla grave spesa. [p. 209 modifica]

— Ne avremmo tante delle spese da fare! — Infatti mancavano di questo; mancavan di quest’altro....

Allora Fulgenzio si sentì in obbligo di consolarla; di rivelarle il segreto contenuto nell’animo a fatica. Trasse dalla tasca della giacca il libercolo.

— Guardate qui! Non siamo poi disgraziati come vi credete.

— Cos’è?

— Il libretto della cassa di risparmio.

Essa aveva spalancati gli occhi; guardava; ma non sapeva leggere.

— Dice — spiegò Fulgenzio — che ci ho settecento franchi, senza i frutti.

— Ma vi fidate voi a lasciarli in mano di altri?

— Eh! alla cassa....

— Io no: io non mi fido di nessuno! Volete vedere dove li tengo, io?

Salirono nella camera del talamo. Ivi lei, rimestato che ebbe in fondo alla cassapanca, elevò la calza trionfale, sonante e gravida del gruzzolo; e disse, sgroppandola e riversandola sul letto:

— Contiamoli. Non so neanche quanti me ne abbia.

Il marito aveva le lagrime agli occhi men per la gioia che per il rimorso di quel suo dubbio, che la donna l’avesse sposato per interesse. In [p. 210 modifica]un’occhiata si vedeva che dei quattrini n’aveva più lei!

Altre lagrime, non di gioia, non di rimorso velavan gli occhi della moglie.

— Sono quei pochi — disse — che mi rimasero dopo la morte di Faziòli, e quelli che misi insieme a vendere la roba quando perdei il ragazzo.

Ma se fosse vissuto il suo figliuolo, oh no, non avrebbe pensato a rimaritarsi, a cinquant’anni!

— Povera la mia Faziòla! — esclamò, intenerito, Fulgenzio.

Per impedire ogni tenerezza e per sottrarsi alla dolorosa memoria, lei ripetè:

— Contiamoli.

Cominciarono il conto, il loro sguardo si riaccendeva mentre distinguevano le monete e le ammucchiavano sorte per sorte, ed enumeravano i biglietti di banca; mentre il vino, a cui non erano avvezzi, ferveva loro nel sangue. Così, a poco a poco, i diversi sentimenti si confusero in una gioia comune.

E il marito non potendo terminare il conto, distese le magre braccia a un timido abbraccio.

— Povera la mia donna!

Lei sorrise.

Fu un momento. In quel momento avrebbero dato fors’anche il libretto della cassa e tutte quelle monete per tornare indietro di dieci anni; ma la sposa subito tornò in sè: [p. 211 modifica]

— Sono vecchia, Fulgenzio!

Nè lui insistette; ebbe anche lui la coscienza della sua propria insania; e ripresero il conto.

🟌

....La turba frenetica avanzava avanzava. Era una gara a chi strepitasse più forte: un fracasso di secchi battuti a furia; di cassette di latta bastonate senza tregua; di coperchi picchiati l’un contro l’altro come piatti striduli; di campanacci — quelli che s’appendono al collo de’ buoi per la fiera — scossi da instancabili mani; e corna di bue roboanti, e voci umane fatte bestiali: grugniti, gallicinî, ragli, fischi. Un ex soldato, trombettiere, si sfiatava nel suo strumento; un cacciatore, con meno fatica, sparava a quando a quando colpi di schioppo all’aria, e due cani abbaiando e latrando s’introdussero nella compagnia.

La dimostrazione veniva solenne, memorabile. All’infernale sollazzo dava motivo e impeto l’oscura coscienza rusticana, avversa a che la vecchiaia presuma cosa da giovani, e offesa da una vedovanza interrotta. Nessuno di coloro pensava certo che invece di schernire un connubio ridevole e sozzo, scherniva l’alleanza di due povere anime e di due timorosi egoisti condotti dalla fortuna a reciproco soccorso. [p. 212 modifica]

Ma la Faziòla e Fulgenzio ridevano.

— Sono qui! — disse la donna. — Vado a smorzare il lume.

A posta, per far credere che erano a letto e per accrescersi il piacere dell’improvvisata, l’avevano acceso nella camera nuziale.

Quindi, al mancar di quella luce, le oscene grida e le risa superarono tutti i suoni.

— Adesso accendiamo il lanternino.

Così fecero, nascosti sotto la scala; e attesero.

— Bisogna lasciarli un po’ sfogare — ammoniva Fulgenzio.

— Sentite la voce di Mauro?

— E quel della tromba chi sarà?

— È Martino dell’Argine.

— Che matti!

— Vogliamo ridere!

Ma in quel punto il cacciatore sparò due colpi.

— Anche delle schioppettate!

E la moglie:

— Non ci faran del male, eh? Quando si è matti!...

— Lasciatemi andare innanzi.

Innanzi lui, con la carriola su cui il bigoncio; dietro, andò la donna col bicchiere e il lanternino.

A quell’apparizione improvvisa, chi tacque un istante, chi sonò o soffiò con più lena; e in massa tutti s’appressarono alla porta. [p. 213 modifica]

Miauu...; chicchiricchì...; ohn: ohn: ohn!...; buum buum buum...; taratatà taratatà, taratatà...; cococodè!...; e, prevalenti, strazianti, i cian cian dei metalli e il dan dan dei campanacci.

— Bravi ragazzi! Bravi! Venite a bere!... Ohe!... gente! Chi vuol bere?

— Vino buono, vino buono! — ripeteva la Faziòla. — E di cuore, ragazzi!

Súbito porse il bicchiere pieno a colui che ebbe di fronte. Quegli lasciò cadere la secchia disarmonica per bere d’un fiato, e gridar dopo:

— Viva gli sposi!

— A voi! — disse la sposa riempiendo a sua volta il bicchiere per un altro.

Gli ultimi, di dietro, sospingevano: — Cosa c’è? — Cosa fanno?... Dan da bere! — Un bigoncio! — Ohe! ci siamo anche noi! — Vino!

Di súbito la meraviglia, l’ammirazione e un senso quasi di gratitudine avevan còlti gli animi; di súbito, secondo avviene nella gente rude, i cuori s’erano aperti a un sentimento nuovo, opposto.

Non come altri, nella condizione loro, la Faziòla e Fulgenzio avevano gettato dalla finestra, per vendicarsi, immonde cose o inani minacce; o non avevan taciuto, essi, in una vile rassegnazione; ma passavan da bere, e vino buono! Succedevano alle grida folli e ai motti sconci, voci di gioia e motti che esprimevan benevolenza; e tutti in una volta.

— La fanno da signori, gli sposi! [p. 214 modifica]

— Viva gli sposi!

— Ehi! Faziòla! Il primo che nascerà voglio tenervelo io al battesimo!

— Guardatevi dai compari, Fulgenzio!

— Adesso che ha moglie, Fulgenzio diventerà caporale anche lui!

— No, no! la Faziòla non gli farà torto!

— Fulgenzio è geloso!

— Fulgenzio è pacifico!

— Viva gli sposi!

— Viva l’allegria!

Il trombettiere impose silenzio.

— Zitti! state zitti! — e avventava scapaccioni ai ragazzi più ostinati nel frastuono. — Adesso gli sposi ballano la monferina! — La proposta fu accolta da applausi; la monferina fu intonata dalla tromba, cantata e zufolata; mentre altri tentavano di convincere Fulgenzio, il quale si schermiva con ambedue le braccia.

— Ho gambe da ballare io, matti che siete? — Rideva dimenandosi fra le mani e le braccia che l’urtavano, lo spingevano.

— Avanti! Forza! — Forza, Fulgenzio!

— Lasciatemi stare! Lasciatemi andare!

Ma la Faziòla diede al marito la prima prova di abnegazione; una gran prova, anzi, di virtù. Comprendendo che per acquetarli era necessario che lei almeno accondiscendesse, tosto s’adattò al ballo con l’agilità e la disinvoltura de’ suoi vent’anni e del ballerino che combinò a saltarle di contro. [p. 215 modifica]

Ebbene: la virtù fu premiata; Fulgenzio lasciato tranquillo; e, per emulazione più che per burla, i giovani gettarono i recipienti sonori, i campanacci e i corni; e in mancanza di donne, si misero a ballare tra loro, intanto che Fulgenzio attingeva e offriva il vino attorno con viso lieto.

— Chi ne vuole, ragazzi?... È poco, ma volentieri.... Finchè ce n’è!... Di cuore!

Quando egli ebbe vuotato il bigoncio e il trombettiere perduto il fiato, tutti ripresero gli strumenti del baccano.

Adesso però ciascuno dava dentro nel suo con l’anima d’un inno glorioso.

.... — Felice notte!

— Viva gli sposi!

— Viva l’amore!

— Viva l’allegria!

🟌

....E finalmente gli sposi andarono a letto, felici per il sollievo del peso che aveva preoccupato a lungo il loro animo; per il piacere d’una vittoria guadagnata, in disuguale battaglia, con l’astuzia; per la gioia d’essersi sottratti, anche in avvenire, a beffe o biasimi, meritando invece indulgenza e benevolo ricordo.

E aggiungendosi a ciò un eccitamento intimo, di reciproca gratitudine, e la certezza di giorni [p. 216 modifica]meno tristi, forse ebbero allora la persuasione che avevano saputa togliere agli altri l’illusione, che a torto prima presupposta in essi, aveva indotta la terribile turba a tanto sbattere, gridare e scampanare.