Novellette e racconti/XIX. Curioso contegno di certe donnicciuole abitanti presso una casa in cui si appiccò il fuoco

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XIX.
Curioso contegno di certe donnicciuole abitanti presso una casa in cui si appiccò il fuoco

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XIX.
Curioso contegno di certe donnicciuole abitanti presso una casa in cui si appiccò il fuoco
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Curioso contegno di certe donnicciuole abitanti presso una casa in cui si appiccò il fuoco.


La Calle del Forno a S. Polo è quale io la descriverò al presente. Larga, lunga, diritta, con molte casipole di qua e di là, abitate da certe donnicciuole, le quali tutto il verno stannovi dentro intanate, e quando la stagione comincia a migliorare, escono a guisa di lucertole, e portate fuori loro sedie impagliate, mettonle agli usci, e fatta sala della via, una fa calzette co’ ferruzzi, un’altra dipana, quale annaspa, qual cuce: in somma tutte fanno il loro mestiere particolare, e in ciò sono divise, ma parlano in comune dallo spuntare fino al tramontar del sole; e per giunta al cicaleccio, avvi anche una maestra di scolari, la quale non sapendo in qual altra dottrina ammaestrarli, tirando orecchi, dando ceffate e [p. 32 modifica]con le aperte palme cularelli percuotendo, insegna loro a stridere e a gridare quanto esce loro della gola; tanto che talvolta si ode un coro di fanciulli che piangono, di donne che rinfacciano la sua crudeltà alla maestra, e di maestra, la quale fa le sue difese, che Sofocle, nè Euripide non inventarono mai in tragedia coro a questo somigliante. Fra i diversi accidenti che nascono continuamente in questa via, avvenne giovedì sera, che due fanciulli, volendo cuocere non so quai cavoli, e non avendo legna, accozzati certi pochi carboni, e postavi sopra una cesta molto grande, tanto fecero a forza di polmone, che vi accesero il fuoco, il quale dopo di aver penato lunga pezza ad accendersi, si apprese tutto ad un tratto alla cesta, ch’era grandissima, e fece un incendio che parea Troja. Il fuoco si appiccò alla filiggine e a certi travicelli del cammino, per modo che questo mandava fuori per la canna fiamma e faville come il Vesuvio, e fece non poca paura a tutti i vicini. Lo schiamazzo delle Amazoni era grande: tutte gridavano che si decapitasse il cammino; ma quella che abitava nella casa ov’era il fuoco, pensando che le dovesse costare a rifarlo, uscita sulla via e postasi appunto di sotto ad esso, con animo di donna spartana gridava a due manovali ch’erano già saliti sui tegoli: Non fate, o io non mi partirò di qua, e sul capo e sul corpo mio cascheranno le pietre che voi di colassù gitterete; tanto che i manovali non sapeano che farsi. Se non che, crescendo tuttavia il fuoco, e vedendo essi il rischio, cominciarono con certe scuri a picchiare nel cammino, e al primo picchio Pantasilea sbigottita parte dalle pietre che cominciavano a piovere, e parte dalle grida delle vicine, si ritrasse e diede campo che fosse finalmente ammorzato il fuoco. Non si spensero però le ciance, le quali durarono quasi tutta la notte, e si rinforzarono la mattina del venerdì, quando verso quattordici ore si posero, secondo la usanza, tutte le donne a sedere, a lavorare e a narrare la passata paura. La variabile fortuna [p. 33 modifica]che scambia a tutte le cose gli aspetti, apparecchiava in quel punto un novello accidente; imperocchè saputosi il caso del fuoco da un certo uomo, il quale, fattosi da sè pubblico predicatore, va qua e colà per le vie parlando di costumi e di coscienza con un certo tuono da quaresima e con certi squarci di morale imparati a memoria, e divisi da lui per esordj e punti a suo modo; saputosi, dico, da costui il caso del fuoco, immaginò di trovare quelle anime tutte atterrite, e che quella fosse opportunità di far del bene tanto a loro, quanto a sè, traendone qualche danaruzzo o coserella pel corpo suo. Per la qual cosa, entrato con viso rigido fra le donne, si arrestò, e levati gli occhi, incominciò con una vociaccia di bue ad intuonare che il fuoco del cammino era stato un gastigo del Cielo, e che per loro non vi era altra misericordia. Pregaronlo le donne, ch’egli tacesse e se ne andasse a' fatti suoi, e che non volesse atterrirle più di quello ch’elle erano, avendo esse, oltre a ciò, molto che fare e non aver tempo di udire sue ciance. Oh sfacciate, oh sorde! gridò allora l’oratore: ben mi stareste voi ad ascoltare se io fossi un poeta e vi cantassi la storia di Paris e Vienna o altre frascherie di tal qualità; ma voi che siete cuori di fango e impastate di vermini, non amate la chiarezza della luce: a me però tocca di fare l’ufficio mio; e chi non vuole udirmi, non oda. E così detto, ricomincia e tuona di nuovo, stuzzicando il vespajo. Le donne per coprirgli la voce alzano un cicaleccio tutte ad un tratto: egli per affogare tutte le strida rialza tanto, che la via parea un mare in burrasca. Se non che la maestra, venutagli a noja quell’ostinazione, levatasi ad un tratto in piedi e presa la sedia impagliata sulla quale sedea, si avventò con essa per darla sul collo all’oratore, il quale, vedendo quella furia, trattosi di capo un suo cappellaccio con certe alacce aperte che pereano di nibbio e spenzolavano da tutti i lati, glielo diede sulla faccia, tanto che ad un tempo scesero la sedia dall’una parte e il cappello dall'altra. [p. 34 modifica]A questo atto levaronsi in piedi tutte le altre, senza però punto impacciarsi nella mischia. Stettero i due combattenti in quella zuffa qualche poco, ma con cautela: la donna, perchè temea di offendere la sua coscienza percuotendo l’oratore; e questi, perchè gli parea pure di uscire del grado suo e di perdere una porzione della sua gravità. E già partivasi borbottando; se non che dipartendosi, fra le parole che andava dicendo, alquante ne lanciò che uscirono fuori del linguaggio conveniente alla sua professione, e mescolava qualche vocabolo che non avea imparato sui libri di morale che avea studiati. Di che adiratasi un’altra della compagnia, mentre ch’egli avea già voltate le spalle e si era alcun poco allontanato, gli lanciò dietro una sedia e lo colse nella schiena. L’oratore voltatosi in furia, volendo pure cavare alcun frutto delle sue parole, colta la sedia di terra, si diede con essa in mano a trottare per uscir della strada e fare in questo modo la sua vendetta. Quando la vigorosa lanciatrice della sedia, accortasi dell’atto, gli si mosse dietro come uno sparviere, e il gridargli, Regolatore di coscienze, cane, tu se’ ladro; e pigliarlo pel collo con le ugne, fu una cosa sola. Egli si volta per azzuffarsi: la donna picchia; egli si difende, e tanto fece, che tutte l’altre si accesero come zolfanelli. Mossesi la squadra ad un tratto, e forse dodici gole si apersero insieme e ventiquattro mani e centoventi ugne furono in aria contro all’oratore, il quale, pettinato e concio, come può credere ognuno, appena potè scampare da tanta furia e salvarsi.