Oltre le mete, che segnò del mondo
| Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
| ◄ | Mentre a i Zeffiri molli il crin sciogliea | Mentre penso all'ampio ardore | ► |
POEMA
Per l’Ingresso in Roma della Regina di Svezia.
OLtre le mete, che segnò del mondo
De’ mostri orrendi il Domator gigante
Valle è el Mar, c’ha così basso il fondo,
Com’è sublime il Mauritano Atlante.
5Quasi nel vasto suo seno, profondo
Tutto assorbisce il pelago sonante:
Sì lunghi stende i termini, e sì ampi
Fuor di Cantabria gli arenosi campi.
In fondo a questa, ove più fiero ondeggia
10Dell’Oceano il tempestoso orgoglio,
Stà in mezzo a un’antro una superba Reggia
Che fa Teatro a un più superbo soglio.
Sovra cent’archi concavi torreggia
L’antro, formando un incavato scoglio,
15Che in guisa di piramide si stende
Sull’ampio albergo, e maestoso il rende.
Fianchi non ha, ma su grand’archi in foggia
D’anfiteatro è il gran Palagio eretto;
E in doppio giro di colonne appoggia
20Le spaziose legge e gli archi e ’l tetto.
Ogni colonna, ogn’arco ed ogni loggia
E’ d’an cristallo rilucente e schietto
Fuorchè le basi i capitelli e i giri,
Che di smeraldi sono e di zaffiri.
25Sotto ad un Ciel d’effigiato argento
Sù gradi di corallo è il Seggio adorno
D’un intero piropo, appo cui spento
Carbon sarìa chi fa la notte e ’l giorno
Cento seggj a sinistra, ed altri cento
30Fangli a man destra ampia corona intorno,
Qual di topazio e qual d’elettro, varj
Di color tutti, e di beltà sol pari.
Quivi, in tal’antro, in sì superbo chiostro
Di Nereidi frequente e di Tritoni,
35Il gran padre Ocèan, che suol dell’Ostro
Abitar le sì vaste regìoni,
Viene a raccor dell’emisperio nostro
Due volte l’anno i suoi tributi e i doni,
Che quindi la Numidia, e quinci manda
40Il Sen mediterraneo e ’l Mar d’Irlanda.
Onde allor, che tornando il Sol discioglie
L’ispida chioma al gelido Appennino
E quando il suol delle cadenti foglie
Tutto si copre, e sol verdeggia il pino;
45Ogni Fiume real, che ’l Mare accoglie
Tra i termini di Gade e dell’Eusino,
Suole ridursi in quest’amena chiostra
A far de’ doni suoi superba mostra.
Quivi si tratta, si consiglia e intende
50Ogni novella poi nel nostro Polo;
S’Africa ha pace, o se la guerra incende
L’Asia, e d’Europa o l’allegrezza o ’l duolo
Ond’ei, che regge il Mar, le sue vicende
Accorda a i moti istabili del suolo,
55Or le calme ordinando, ed ora i venti,
Come più importa alle divise genti.
E già dal cerchio austral girando il Sole
Portava il dì, ch’all’adunanza è dato
Nell’umida stagion, che Borea suole
60Tor le frondi alla selva e darle al prato;
E sparsa il crin di pallide vìole
L’Alba uscìa in carro lucido e gemmato,
L’aure fresche svegliando, e i pinti augelli
Per le liquide vie, per gli arboscelli,
65Sol biancheggiare il Mar verso Ponente
Vedeasi incontro al mattutino lume,
Che ’l rendean gonfio, e torbido, e fremente
Di quà, di là le pellegrine spume:
Quando nel sen della spelonca algente
70Comparve assiso il formidabil Nume
E quinci e quindi all’Assemblea ridutta
De’ Fiumi aquilonar la turba tutta.
E quei, che Libia, e quei, che l’ampia sponda
Lavan dell’Asia, e la pianura e ’l monte,
75La Milva è quì, quì del Sangario è l’onda,
La Tana e l’Iri e ’l faretrato Oronte:
Altri, ch’i Marni bagna, altri, ch’inonda
Frigj ed Ircani, altri ch’in Stiria ha il fonte
Chi ne’ Rifei, chi nelle valli Armene
80Ricco di ghiacci, o di feconde arene.
Parte d’essi è di fuor, parte si vede
Sparsa ondeggiar fra il colonnato e ’l Soglio
E d’onde, e d’urti di chi va, chi riede
s’ode suonar quel cavernoso scoglio.
85Nel mezzo il Re dell’agitata sede
Riede di fasto tumido, e d’orgoglio;
A cui fanno dagli omeri e da’ lati
Guardia fedele i suoi Tritoni astati.
Qual’il nubilo Ciel, che gonfio pende
90Di pioggia, nè la pioggia ancor si mira
Tal nel sembiante orribile risplende,
Senza che scoppii la fierezza, e l’ira.
Barba ha canuta, e pur canuto il rende
E crin, che sopra gli omeri s’aggira,
95E fierezza aggiungendo al torvo aspetto.
L’un gli copre le spalle, e l’altra il petto,
Nella destra temuta ha il gran tridente
Con cui del suolo i fondamenti scuote
E fa tremar dall’ultimo Orìente
100Le prossime province, e le rimote;
Coll’altra o men severo, o più clemente
Le supplici raccoglie onde divote,
Che un presso all’altro gli presenta in giro
Il Fiume del Vallacco, e dell’Assiro.
105Venian costor con vaga mostra avante
Del formidabil Seggio in mezzo al foro
Chi con fronte di Bue, chi d’Elefante,
Chi crinito di canna, e chi d’alloro;
E, poichè avea sull’adorate piante
110Sparso il tributo chi d’amor, chi d’oro,
Gìa ad occupar con ordine gli scanni
Secondo il merto, o l’osservanza, o gli anni.
Prima il Nilo comparve: ei sebben scende
Da Paese lontan del nostro Mondo,
115Pur quà ne vien donde coltiva, e rende
Dell’arenoso Egitto il sen fecondo.
Attorce il crin fra tante fasce e bende,
Che non appar se sia canuto, o biondo:
Seco è Astabora, e Astapo, e con sue chete
120Spume vien dietro il portentoso Lete.
Sparse questi i suoi doni, e l’aurea spica
Fè biondeggiar sul riverito piede;
Indi sen gia colla sua schiera amica
Dove fra i destri seggj ei primo siede.
125Venne secondo poi d’asta, e lorica
Cinto il Danubio a tribular sua fede;
Indi ogn’altro seguìa di maggior grido
Per reggio trono, o amenità di lido.
Venne tra gli altri ancor (ma il regio manto
130Già non avea, nè l’elmo avea, nè piuma)
La bellicosa Vistola di pianto
Molle vie più che disfatta bruma;
La qual, poichè dinanzi al Re fu alquanto
Dal duol posata, e s’asciugò la spuma,
135L’umido lembo in dispiegar del velo
Sangue diè in vece di disciolto gelo.
Ella narrò, che poi che fè del trono
La Regina magnanima il rifiuto,
Il bellicoso avea regno Polono
140La Svezia, e così rapida, abbattuto,
Che della fama prevenendo il suono,
Quasi vinto l’avea pria che veduto
Ed eran stati delle trombe i carmi
Inni al trìonfo, e non inviti all’armi.
145Questa l’ultima apparve. Eran già tutti
Passati il Moro, il Lusitano, e ’l Franco,
E s’erano ne’ seggi ancor ridutti
Parte dal destro lato, e parte al manco;
Ne fra sì vari Dei, fra tanti flutti,
150Che lo speco rendean tumido, e bianco,
Pur si sentìa del Tiberino fiume
Scossa di fronde, o mormorìo di spume.
Solo il Tebro mancò: vedovo e vuoto
Si vedea fra que’ Seggi il Seggio altero,
155Che benchè picciol sia, splendido, e noto
Fanlo i diademi del Romano impero.
Ben lo sguardo girò, ma sempre a vuoto,
Due volte e tre l’Imperador severo;
E quando ivi no ’l vide, a se turbato
160Chiamò Triton, che gli assistea da lato.
Suol questi al suon dalla sonora conca
Manifestar del suo Signor la mente,
In mar girando l’ispida, ed adonca
Coda dal tepid’Austro al Plaustro algente;
165E con lettre, e ambasciate ogni spelonca
Suol visitar della scagliosa gente,
Lor’intimando le dìete, e dando
Or gli ordini de’nembi, ed ora il bando.
A costui disse il Re: Del Lazio in riva
170Vanne, ove l’ampia Roma in due si fende,
Ed al Tebro dirai, perchè ci priva
Delle sue care palme, e quà non scende?
Forse la mente imperìosa, e schiva
Di dargli, in vece i suoi tributi attende.
175Conosco ben l’ambizìoso ingegno;
Ma ’l Ciel non diè fuorch’a Nettuno il regno.
Così parlogli, e dal turbato aspetto
Fuor balenò la ferita natìa.
E Triton prestamente uscìa dal tetto
180L’onde a guardar della commessa via.
Quando sorse una voce, e al Re fu detto,
Ch’indi non lungi il Tebro urtar s’uda
Ed ecco appunto in sulla regia soglia
Il Tebro entrar colla cerulea spoglia.
185Cinte di canna avea le tempie, e ’l crine
Biancheggiar si vedea tra fronde, e fronde,
E grondante di gel, molle di brine
La lunga barba rincrespata in onde.
Venìa com’Uom che di lontan confine
190Rechi novelle prospere, e gioconde,
Tutto piacevolezza, e tutto riso
Agli atti venerabili, ed al viso.
Nè, perchè sull’entrar sdegnato seco
Veggia, ed in minaccevole sembianza
195Il Regnator del cristallino speco,
Ei gli va innanzi con minor baldanza.
Disse: Signor tardi vengh’io, ma rcco
Tal che mi scuserà della tardanza,
E chiaro fia, che della mia dimora
200Ogni celerità men degna fora.
E in questo dir, del suo ceruleo lembo
Le strette pieghe sventolando aperse.
E de i tesor, che tributario in grembo
Chiusi traea, le maraviglie offerse.
205Balenò a gli occhi d’improvviso un nembo
D’oro, e di cose rilucenti e terse
Ed inondare si mirar le soglie
D’archi, d’imprese, di trofei, di spoglie,
Al gesto, al suon con cui tai detti espresse
210Il Tebro, allor de’ simulati busti
Tra curioso, e stupido s’eresse
In piè ciascun di quei spumosi Angusti,
Ei delle sparse cose una n’elesse
Effigiata di sembianti augusti,
215Ch’un tal Breve rendea celebri, e noti
La Reina magnanima de’ Goti.
Qual di Zenobia in vago lin ritratto
Il bellicoso volto arde, e sfavilla,
E qual’in trono si dipinge, o in atto
220Di ferir Semiramide, o Camilla;
Tal nella maestà di quel Ritratto
Un non so che di fervido scintilla;
Tal l’aspetto real mostra di fuore
Grandezza d’alma, e ferocia di cuore.
225Nella severa fronte, a cui leggiero
Peso sarìa la monarchìa del Mondo,
Un dolce misto di pietà, e d’impero
Fa il guardo venerabile, e giocondo.
D’un vivace color tra biondo e nero
230Il crin, che non è nero, e non è biondo,
Vedeasi intorno a questa tempia, e a quella
Cader disciolto in prezìose anella.
La corona real non avea in esso,
Ma il non averla lo rendea più degno,
235Ch’altrui scoprìa nella pittura espresso
Quel rifiuto mirabile del Regno.
O di cuor generoso ultimo eccesso
Glorìosa ripulsa, illustre sdegno,
E qual corona altri potrà comporre
240Di gemme, che si possa a te preporre?
Quasi abbagliato al folgorar del finto
Sguardo il Tiranno dell’instabil sede
Stupido infra se disse: Il Sol dipinto
Viene a portar tributo, o pure il ch ede?
245E ’i curìoso braccio oltre sospinto
Su quel punto il rapì, che quei gliel diede.
Il Tebro ripigliò: Rimira, o Padre,
Le contumacie mie se sian leggiadre.
Indi seguìa: La generosa donna,
250Poichè la Svezia incoronò di fregi,
Ed avvolta nell’armi, o in reggia gonna
Parve Uomo tra i guerrier, Diva tra i Regi,
Venne in pensier, ch’esser Regina e donna
Fosse il minor de’ titoli e de’ pregi,
255E che gli aurci diademi, e regj troni
Frano sue catene, e non già doni.
Quindi a regno immortal ( regno dovuto
Al magnanimo cuor ) volse il pensiero,
E rifiutò i suoi regni, e nel rifiuto
260Donna apparve maggior che nell’impero.
Mossa da un bel desìo di dar tributo
Di fede a Cristo, e di servaggio a Pietro,
Peregrina real con sciolta chioma
Venne a empir di sè stessa Italia, e Roma,
265Venne ancor vaga d’ascoltar presente
Le maraviglie del saver profondo
Nel gran Pastor della Cristiana gente,
Saba novella a Salamon secondo:
E l’ampia Roma mia tutta ridente
270Le aperse il trionfal seno giocondo,
Come fè già ne’ secoli vetusti
Per gli Scipioni suoi, o per gli Augusti;
D’archi, d’imprese la Città si scerse
Sparsa, e di querce, e di dorate spiche,
275D’abiti vari, e fantasie diverse
Di cimier, di divise, e di loriche:
Là di Belgiche pompe, e quà di Perse
Mista, e di Babiloniche fatiche,
Parvi al tumulto, e d’allegrezza ai segni
280Roma albergar non le Città, ma i Regni.
Fin da’ Japigi, e Calabri al solenne
Spettacolo, ch’intorno ampio si noma,
E dagli estremi Allobrogi se ’n vente
La gente varia d’abito, e di chioma.
285Tutta in Roma era Italia; e non convenne
Star fuori il Tebro, e tutta Italia in Roma.
Tra me stesso diss’io: non è tributo
Il servir sì gran Donna anco, dovuto
Che, se gran Rege è l’Ocèan, sprezzando
290Costei gli scettri è vie maggior de’ Regi;
E soggiungeami anco un pensier, mirando
Tante memorie di trofei, di pregj:
Ove trovar più bel tributo, o quando,
Che i tributi arricchir di sì bei fregi
295Ma quel, ch’allor fu elezioni, divenne
Forza, ch’a te mi tolse, altrui mi tenne.
Perchè giunse Cristina, e ciò, che innante
Se n’udìa di magnifico e d’altero,
Dileguò quando apparve, e in quel sembiante
300Restò maggior della sua fama il Vero.
Premeva il dorso, e il ricco fren spumante
La man reggev’a indomito destriero,
E veduto le avresti agli atti, al riso
Le Grazie allor, la leggiadria nel viso.
305precedean, maravigliose anch’elle,
Schiere in arcon di Principi, ed Eroi,
Ch’ella seguìa, come seguir le stelle
Vedesi il Sol da i luminosi Eori:
Ma più che innanzi a lei splendide e belle
310Le Stelle si scoprìam negli occhi suoi,
E l’aureò Sol dentro un bel giro accolto
Più che all’andar lo somigliava al volto.
Stupidi al dolce folgorare, e immoti
Rimaser gli altri: io pur sentii legarmi,
315E dissi: Oh Roma sempre arsa da’ Goti
O che rida un bel viso, o freman l’armi
Miei doni per offrir, e porger voti
Quì saprei tributario ancor trovarmi,
Sì rapito restai, così diviso
320Or dagli atti leggiadri, or dal bel viso.
Ma poichè in me la novità disciolta
Da’ novelli pensier mi venne in me te
Quest’antro, e questa sede, e quà raccolta
Delle cerulee Deità la gente,
325Precipitai la mia tardanza, e tolta
Parto di quei trofei, son quì presente;
Opportuna venuta, ove raccoglia
In grado i doni fur, gli obblighi io scioglia.
Sicchè te soddisfatto, e me disciolto
330Ricda a goder di quel sembiante adorno,
Tributario di te, ligio d’un volto
Nella venuta mia, nel mio ritorno.
Mentr’ei così dicea, s’era raccolto
Tutto il popol de’Fiumi a lui d’intorno,
335Altri i detti osservando, altri il sembiante
Regio, vie più che spettatore, amante.
Il curioso Re, poichè del viso
Ha i bei color raffigurati, e scorti,
Or le ciglia ammirando, or del diviso
340Crine gli stami innanellati e torti,
Gli occhi volgendo in lui con un sorriso:
Amico, incominciò, cosa ci porti
In sì prosperi avvisi, in tal Ritratto,
Ond’a ragion ti desiavan più ratto?
345Benchè nè nuovo a noi, ne ’l dì primiero
E questo, che de’ gesti altri ci dica
Della Donna degnissima d’impero,
Ch’abbiam di lei pur conoscenza antica;
Ed in sembiante intrepido, ed altero
350La vid’io d’asta armata, e di lorica
Per le rive talor dell’Oceàno
Spaventare or il Cimbro, ora il Germano.
Con tutto ciò nè indugio è il tuo, nè arrivi
Tardo quì tu, se la cagion è tale,
355E ad indugiar sì fruttuoso ascrivi
Dono sì bel d’immagine regale:
Anzi s’avvien, che dal partir derivi
Opra miglior, nè quù restar ti cale,
Per gli dianzi da te segnati calli
360Ritorna pur, che io ti condono i falli.
Ne avrò in grado minor, che così altera
Vincitrice di popoli e di cuori
Serva là tu, che se portassi in schiera
L’oro dei Caspi, o del Tarpèo gli allori.
365Indi volto allo stuol, che tratto s’era
D’intorno a quelle tele, ed a quegli ori,
Numi cortesi, seguitò, novelle
Ci reca il Tebro il ver superbe e belle:
E tai, ch’eterna in sù remota soglia
370Ne sarà la memoria, e in questi chiostri.
Ma s’alcun è di voi cui forse invoglia
Curioso desìo de’doni nostri,
Prenda pur qual più aggrada, o immago, o spoglia
Perchè tornando a i Suoi la spieghi e mostri;
375Ed in narrar poi donde l’ebbe e come,
Facca suonar di lei le glorie e ’l nome.
Cosà diss’egli, e le reliquie altere,
Che rapì il Tebro alla Città di Marte,
Volle che sian tra l’adunate schiere
380De’ molli Dei distribuite e sparte.
V’eran statue, corone, armi, bandiere
Dpinti arazzi, istorìate carte,
Cl’esprimean lineati, o pur contesti
Della gran Donna i gloriosi gesti.
385Vedeasi là, dacchè rapì la morte
All’imperio del Mondo il Re suo padre,
Collo scettro dorato aprir le porte
Di famosi Licei, d’arti leggiadre;
Quà si senta con man virile e forte
390Sull’Alpi e l’Istro rinforzar le squadre,
Ed innestar nella Germania e fuori
Del gran Gustavo i riseccati allori.
Altra scoprìa come a favor del regno
Stringea le leghe, e stabilìa le paci;
395Altra il zelo mostrava, altra lo sdegno
De’ riti abbominevoli e mendaci:
E molte di pietà, molte d’ingegno
Vº erano espresse immagini veraci:
Che rendean pago ogni desìo di loro,
400Più che le lane, e l’orditura, e l’oro.
Sicchè liete le turbe al Re cortese
Grazie rendean delle concesse spoglie;
Altri il Tebro abbracciando, altri l’imprese
Scegliendo, altri le Spichè, altri le Foglie.
405E già le stelle in Orìente ascese
Facean dell’antro scintùllar le soglie;
Onde finì la gran Dìeta. Al fondo
Ritornò l’Oceàno; i Fiumi al Mondo.