Opere minori 1 (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Capitolo III

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Capitolo III

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Elegie e Capitoli - Capitolo II Egloga
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CAPITOLO TERZO.




     1Canterò l’arme, canterò gli affanni
D’amor, che un cavalier sostenne gravi,
3Peregrinando in terra e ’n mar molt’anni.
     Voi l’usato favore, occhi soavi,
Date all’impresa; voi che del mio ingegno,
6Occhi miei belli, avete ambe le chiavi.
     Altri vada a Parnaso, ch’ora i’ vegno,
Dolci occhi, a voi; nè chieder altra aita
9A’ versi miei, se non da voi, disegno.
     Già la guerra il terzo anno era seguita

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Tra il re Filippo Bello e il re Odoardo,
12Che con Inglesi Francia avea assalita.
     E l’uno e l’altro esercito gagliardo
Men di due leghe si stava vicino
15Nei bassi campi appresso il mar Piccardo.
     Ed ecco che dal campo pellegrino
Venne un araldo, e si condusse avanti
18Al successor di Carlo e di Pipino:
     E disse, udendo tutti i circostanti,
Che nel suo campo, tra li capitani
21Di chiaro sangue di virtù prestanti,
     Si profería un guerrier con l’arme in mani
A singolar battaglia sostenere,
24A qualunque attendato era in quei piani,
     Che quanto d’ogni intorno può vedere
Il vago sol, non è nazion che possa
27Al valor degl’Inglesi equivalere.
     E se tra’ Franchi, tra la gente mossa
In suo favore, è cavalier che ardisca,
30Per far disdir costui metta sua possa.
     Per l’ultimo d’april l’arme espedisca,
Che ’l cavalier che la pugna domanda,
33Non vuol ch’oltra quel dì si differisca.
     — Come è costui nomato, che ti manda? —
Domanda il re all’araldo; e quel rispose,
36Che avea nome Aramon di Nerbolanda.
     Gli spessi assalti, e l’altre virtüose
Opere d’Aramon erano molto
39In l’uno e in l’altro esercito famose;
     Sì che a quel nome impallidire il volto
Alla più parte si notò del stuolo,
42Che presso per udir s’era raccolto.
     Indi levóssi per le squadre a volo
Alto il tumulto, come avesse insieme
45Tanta gente impaurito un uomo solo.
     Non altrimenti il mar, se dall’estreme
Parti di tramontana ode che ’l tuono
48Faccia il ciel risuonar, mormora e freme.
     Quivi gente di Spagna, quivi sono
D’Italia, d’Alemagna; quivi è alcuno
51Buon guerrier, più al morir che al fuggir prono.
     Al cospetto del re si trovava uno

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Giovinetto animoso, agile e forte,
54Costumato e gentil sopra ciascuno.
     Generoso di sangue, e in buona sorte
Prodotto al mondo; e non passava un mese,
57Che venuto d’Italia era alla corte.
     Di cinque alme cìttadi, e del paese
Che Adice, Po, Vetemo e Gabel riga,
60Niccia, Scoltena, il padre era marchese.
     Obizzo era il suo nome; ad ogni briga
Di forza atto e di ardir; nè un sì feroce
63Nè questa avea nè la contraria liga.2
     Costui supplica al re con braccia in croce,
Che gli lasci provar se a quel superbo
66Può far cader così orgogliosa voce.
     Giovin era robusto e di buon nerbo,
Di gran statura, in ogni parte bella,
69Ma d’anni alquanto oltra il bisogno acerbo.
     Un poco stette in dubbio il re, se quella
Pericolosa pugna esser dovesse
72Commessa ad un’incauta età novella:
     Poi, ripetendo le vittorie spesse
Che dal padre ed ai figli ed ai nepoti,
75Non men che ereditarie, eran successe;
     Laonde i cavalieri illustri e noti
Della stirpe da Este a tutto il mondo,
78Lo fêr sperar che avríeno effetto i voti;
     Quella battaglia diede a lui, secondo
Che addimandòlla: indi Obizzo spedia
81L’armi con sicuro animo e giocondo;
     Avendo d’una roba, che vestia
Quel giorno molto ricca, rimandato
84L’araldo lieto alla sua compagnia.
     L’aver l’audace giovane accettato
Il grande invito d’Aramon, facea
87Parlar di lui con laude in ogni lato;
     Sì che il valor de’ principal premea,
Come di Francia, così d’altra gente
90Che appo sè in maggior grado il re tenea.
     Indi a figger nel cuor l’acuto dente

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D’alcun guerriero incominciò l’eterna
93Stimulatrice invidia della gente:
     Non quella che s’alloggia in la caverna
Di alpestra valle, e in compagnia dell’orse,
96Dove sol mai non entra nè lucerna;
     Che da mangiar le serpi il muso tôrse,
Allora che, chiamata da Minerva,
99Dell’infelice Aglauro il petto morse;3
     Ma la gentil che fra nobil caterva
Di donne e cavalieri, ecceder brama
102Le laudi e le virtù che un altro osserva.
     E prima ad un baron di molta fama
Entra nel côr, che del delfin di Vienna
105Era fratello e Carbilan si chiama;
     Che morto, l’anno innanzi, in ripa a Senna
Avea il conte d’Olanda, e rotti e sparsi
108Fiamminghi e Brabantini e quei d’Ardenna.
     Stimò costui gran scorno e ingiuria farsi
A Francia, quando innanzi a’ guerrier sui
111I guerrieri d’Italia eran comparsi:
     E pregò il re che non desse in altrui,
Che nelle mani sue, quella battaglia,
114O ad altri di nazion soggetta a lui;
     E che per certo in vestir piastra e maglia
A’ gran bisogni, fuor che la francesca,
117Altra gente non dee creder che vaglia.
     A un capitan di fantería tedesca,
Che si ritrova quivi, tal parola
120Soffrendo, par che a gran disnor riesca:
     E similmente a questo detto vola
La mosca sopra il naso d’Agenorre,
123Gran condottier di compagnía spagnuola.
     Rispondendo ambedui, che se, per porre
Centra Aramon, si deve cavaliero
126Della miglior d’ogni nazione tôrre;
     Ciascun per sè si proferiva al vero
Paragone dell’arme, a mostrar chiaro
129Che di sua gente esser dovea il guerriero.
     Obizzo, dell’onor d’Italia avaro
E del suo proprio, e quinci e quindi offeso

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132Da quel parlar via più che assenzo amaro,
     Rispose: — Tosto ch’avrò morto o preso
(Come spero) Aramon, chè non mi deve
135Quel che m’ha il re donato, esser conteso;
     Farò a ciascun di voi veder in breve,
Che la mia gente al par d’ogn’altra vale
138Ad ogni assalto, o faticoso o lieve. —
     Moltiplicavan le parole, e tale
Era il remor, lo strepito, che uscire
141Se ne vedea una rissa capitale.
     Ma non li lascia il re tanto seguire;
Prima il suo Franco, indi il Spagnuol riprende
144Con l’Aleman del temerario ardire.
     — Come ben fa chi sua intenzion difende
Da biasmo altrui (dicea), così molto erra
147Chi per la sua lodare ogn’altra offende.
     E chi vuol di voi dir che la sua terra
Prevaglia a tutte l’altre, è nell’errore
150Di questo Inglese, e il torto ha della guerra.
     Degli altri il detto d’Obizzo è ’l migliore,
Di sostener ch’Italia sua di loda
153A nessun’altra parte e inferïore.
     Or, quanto alla battaglia, mai non s’oda,
Poi che ad Obizzo n’ho fatto promessa,
156Che la promessa non sia ferma e soda.
     Egli fu il primo a chiederla, e concessa
A lui l’ho volentieri; e non mi pento,
159Nè meglio altrove potría averla messa. —
     ll re fece a lor tal ragionamento,
Sì per ragion, sì perchè assai non fôra
162Di dar la pugna a Carbilan contento:
     Chè se fortuna, che temere ognora
Si deve, ad Aramon volge la guancia,
165È meglio che un estran sia preso o môra,
     Che Carbilan, o di nazion di Francia
Altro guerrier, per non dar la sentenza
168L’inglese esser miglior della sua lancia.
     Nel vincer non facea tal differenza;
Pur che un guerrier, sia di che gente voglia,
171Spegnesse a quell’altier tanta credenza.
     Quanto più il re si sforza che si toglia
Carbilan dall’impresa, egli più duro

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174E più ostinato ognor più se n’invoglia;
     E con parlar non fra li denti oscuro,
Ma chiaro e aperto, mormorando in onta
177E d’Obizzo e d’Italia va sicuro.
     Al cavalier da Este per ciò monta
Lo sdegno e l’ira; e di nuovo al cospetto
180Del giustissimo re con lui s’affronta,
     E dice: — Carbilan, se t’è in dispetto
Che per ir contro ad Aramone audace
183M’abbia, a’ miei preghi, il signor nostro eletto;
     E se perciò ostinato e pertinace
Tu voglia dir che quest’onor non merti,
186E che di me tu ne sia più capace,
     Dico che tu ne menti; e sostenerti
Voglio con l’arme, che in alcuna prova
189Miglior uomo di me non dêi tenerti.
     E perchè quest’error da te si môva,
Che ad intender ti dai che a tua possanza
192E tua destrezza par non si ritrova;
     Proviamo in questo tempo che n’avanza
Di qui alla fin d’april, qual di noi deggia
195Metter in campo il re con più baldanza.
     E s’altro ancor, o di tua o d’altra greggia,
Dice che più la pugna gli convenga
198Che a me, fra questo termine mi chieggia. —
     Così diss’egli: or forza è che sostenga
Carbilano il suo detto, e ad altro giôco
201Che di parole e di minacce venga.
     Il re, da prieghi vinto, se ben poco
Ne par restar contento, pur nè tolle
204La pugna lor, nè nega ad essa il loco.
     Ma non che fosse la querela volle
Qual nazïon, l’italica o la franca,
207Sia più robusta, o qual d’essa4 più molle;
     Ma chi, ciascun per sè, abbia più franca
Persona o più gagliarda, non repugna
210Che mostri, e per ciò lor dà piazza franca;
     E si serba anco di partir la pugna.




Note

  1. Questa composizione è il principio di un poema in terza rima, che l’autore si proponeva di scrivere in lode della casa d’Este, prendendo per suo eroe un Obizzo da Este, che fu ai tempi di Filippo il Bello, e combattè negli eserciti francesi contro le armi inglesi, e vinse in singolar certame Aramone di Nerbolanda (Northumberland), celebre campione. Ma il poeta, o poco contento del soggetto, o giudicando la terza rima meno atta dell’ottava a tal genere di poesia, lo abbandonò, e si rivolse a scrivere il suo Orlando Furioso. — (Molini.)
  2. Liga (lega) non è qui semplice traslazione a significare esercito composto di popoli collegati, ma voce usata nell’età di mezzo, anche nella nostra lingua, per denotare questa cosa medesima.
  3. Vedi Ovidio, Metamorph., lib. II.
  4. Così le stampe; parendo però a noi che dovrebbe invece leggersi: d’esse.