Origine della lingua italiana/V

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Ma dicendo che le lingue romanze sono, in sostanza, una continuazione e un perfezionamento del latino, che cosa s’intende qui per latino? È chiaro che s’intende il latino parlato, giacchè le sole lingue parlate possono moversi e trasformarsi.

Siccome però i Romani, che parlavano il latino duemila anni fa, sono, per nostra disgrazia, morti tutti, e noi non possiamo conoscere la loro [p. 33 modifica]lingua se non per quel tanto che ce n’è stato tramandato dai libri e dalle iscrizioni; perciò si è cercato di stabilire se il latino scritto e il latino parlato fossero una stessa cosa, o se ci corressero più o men notevoli differenze.

Leonardo Bruni d’Arezzo (1369-1444) e Celso Cittadini di Roma (non di Siena, come comunemente si crede — 1553?-1627), il secondo dei quali ebbe lampi d’intuizione filologica maravigliosi per il suo tempo, sostennero che la lingua della plebe romana fosse quasi del tutto diversa da quella delle classi cólte e specialmente degli scrittori.1

Trovando nel latino arcaico voci come aurom (oro), consol (console), ecc., le quali somigliano all’italiano, più che non gli somiglino le corrispondenti del latino classico (aurum, consul), il Cittadini capitombola quasi nell’opinione che fu poi, come abbiamo visto, sostenuta dal Quadrio, e che il Muratori giustamente chiamò un sogno, indegno persino d’essere confutato.2

Il Bruni, dal canto suo, arrivò a dire che i Romani non cólti intendessero il linguaggio [p. 34 modifica]degli oratori, non più di quel che oggi la plebe nostra intende la messa;3 e come se questo fosse poco, aggiungeva, che essi andassero al teatro, non già per intendere i versi del poeta, ma per godere dello spettacolo scenico; e perciò, secondo lui, si chiamavano spettatori e non uditori:4 speciosa ragione, a distrugger la quale basterebbe osservare, che spettatori si chiamavano anche le persone cólte, le quali andavano anch’esse al teatro.

Egli inoltre non sapeva capacitarsi come mai le donnicciole di Roma sarebbero potute riuscire a imparare le declinazioni de’ nomi e le coniugazioni de’ verbi, e specialmente de’ verbi irregolari: cose, diceva, che fanno sudar sangue anche noialtri dotti. Come mai volete, domandava il brav’uomo, come mai volete che quelle povere ignoranti potessero servirsi del verbo ferre (portare), che nel presente fa fero (porto), e nel passato fa tuli (portai), e nel supino muta ancora, e fa latum? — Qui, l’ottimo messer Leonardo somiglia proprio a quel tale che, andato in Francia, si maravigliava che là anche i bambini sapessero parlare il francese. Dio buono! anche la donnicciola fiorentina, senza aver studiato grammatica, tira fuori bravamente dall’infinito essere il presente sono, l’imperfetto [p. 35 modifica]ero, il passato fui, eccetera; nè c’è pericolo che dica io ando invece di io vado, nè io dovo invece di io devo, nè oma invece di donna, nè femmino invece di maschio; quantunque queste anomalie non siano punto men difficili di fero, tuli, latum.

Ma segue forse da ciò che la lingua delle orazioni di Cicerone fosse precisamente la stessa che parlava la sua lavandaia, o quella che in tutto e sempre parlava egli medesimo? No davvero!

In questa questione, gli equivoci a me pare che siano nati e nascano ancora da un errore fondamentale, e cioè dal non considerare la lingua nel suo complesso, ma in questa o quella parte soltanto, in questo o quel libro, in questo o quel parlante. Con tal metodo, per quanto la lingua sia potentemente unificata, come era appunto quella di Roma e come è ora quella di Parigi, deve per necessità apparire una specie di Proteo multiforme.

Chi può negare, per esempio, che la lingua di cui si serviva in parlamento il signor Thiers, non fosse la lingua che si parla a Parigi? Eppure, chi oserebbe dire che fosse addirittura quella medesima di cui si serviva il suo portinaio?

Con l’aiuto de’ miei scolari, io son riuscito a mettere insieme un centottanta sinonimi italiani del verbo morire, e tutti, si noti bene, d’uso comune;5 mentre, sia detto per incidenza, il Tommasèo ne dà solo cinque o sei. Son dunque centottanta modi usati e usabili per esprimere una sola [p. 36 modifica]idea in italiano, e potrei anche dire, più esattamente, in fiorentino, perchè quattro quinti di essi son vivi a Firenze, e i rimanenti son creazioni di prosatori e di poeti, fatte però tutte con voci vive fiorentine o foggiate alla fiorentina, ed entrate poi nell’uso comune letterario.

Eppure, quale italiano o qual fiorentino potrebbe dire, preso così all’improvviso, di saperli tutti e centottanta? E chi oserebbe affermare che il plebeismo: andare a rincalzare i cavoli, o l’altro: crepare, siano soltanto della lingua plebea? Domani potrete sentirli in bocca a una persona civile, che l’userà per ischerzo o in un momento di collera; mentre la povera donnicciola, trafitta dal dolore, vi dirà poeticamente che il suo bambino è stato ripreso da Dio, o che è andato in paradiso. E persona civile e donnicciola si troveranno inconsapevolmente, ma sicurissimamente, d’accordo nel non dirvi mai che quell’omaccione grasso e grosso, morto ier l’altro, sia volato al cielo, perchè sanno che vi farebbero ridere.

Certo, il fatale divorzio della lingua scritta dalla parlata è stato possibile in Italia, dove nessuna parlata ha mai definitivamente prevalso; ma non era possibile in Roma, con quell’acutissimo senso pratico de’ suoi cittadini, con quel bisogno ch’essi avevano d’intendersi tra di loro più speditamente che potessero, con quella, insomma, potente e compatta unità di linguaggio; quantunque ogni romano, in fondo, avesse in testa una lingua, che non era precisamente quella di nessun altro romano, e lo stesso scrittore usasse voci e maniere [p. 37 modifica]diverse, secondo il soggetto e il genere del componimento.

Ne crediate che il fatale divorzio succeduto in Italia abbia contribuito e contribuisca ancor poco a far inclinare molti Italiani a supporre che altrettanto fosse accaduto anche a Roma. Mal comune, mezzo gaudio; e certo, quando altri lamenta che tante e tante prose italiane, pregevolissime di sostanza, siano però pochissimo lette, perchè scritte in una lingua mezzo morta, fa molto comodo il poter rispondere: cosa volete farci? anche nella letteratura latina è stato così.

Questo, dico, può far molto comodo; ma a me non pare che sia la verità. E alle ragioni già addotte per dimostrarlo, ne aggiungerò un’altra di fatto, e che, credo, dovrebbe bastar da sola a risolver la questione.

Papirio Peto, in una lettera a Cicerone, aveva applicato a sè stesso un luogo di Trabea, chiamando pazzia il suo sforzarsi d’imitare l’eloquenza dell’amico. E Cicerone gli rispondeva: “Dici davvero? Ti pare una pazzia lo imitare quelli che tu chiami fulmini del mio stile? Certo, sarebbe pazzia, se la cosa non ti riuscisse; ma poichè ti riesce anche meglio che a me, de’ fatti miei devi ridere, e non de’ tuoi; e lascia star Trabea, dacchè il fiasco è piuttosto mio. Ma pure, delle mie lettere che te ne pare? Non sono esse scritte alla buona?"6 Già si sa: non conviene mica usar [p. 38 modifica]sempre lo stesso tono. Altro è una lettera, altro un’orazione politica, o un’orazione forense. Persino davanti ai giudici, si varia tono secondo le cause; perchè le private e di poca importanza non richiedono quegli ornamenti, che adoperiamo quando siano in gioco la vita o l’onore. Le lettere poi, sogliamo scriverle con le parole di tutti i giorni.„7

Dunque, le lettere del grande oratore sono scritte, per sua stessa e incontrastabile testimonianza, in plebejo sermone e con quotidianis verbis. Ma, di grazia, chi è che avendo sott’occhio una di quelle lettere e un’orazione dello stesso autore, non s’accorga che sono scritte nella medesima lingua, salvo, s’intende, le differenze derivanti dal diverso genere di componimento? Ciò che nella lettera sarà detto con la frase familiare: andare all’altro mondo, o con altra anche plebea, nell’orazione sarà detto con frase sostenuta: render l’anima a Dio. Ma queste non sono due lingue: son gradazioni, tinte, sfumature diverse d’una stessa, stessissima lingua; e chi volesse prendersi il gusto di esaminare le prime cento voci o maniere d’una lettera di Cicerone, si può scommettere che ce ne [p. 39 modifica]troverebbe almeno novanta usate da lui anche nelle orazioni o nelle altre sue opere. Insomma, a dir tutto in poco, la diversità che egli accenna a Papirio Peto non è di lingua, ma di stile; e la frase plebejo sermone, addotta così spesso per provare l’esistenza di quella specie di muraglia della Cina tra il latino scritto e il parlato, o tra il latino nobile e il popolare, prova invece per l’appunto il contrario!8


Note

  1. Leonardi Bruni Arretini, Epistolarum libri VIII; Florentiae, 1741; lib. VI, epist. X (Leonardus Flavio Foroliviensi). — Celso Cittadini, Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua; Venezia, Ciotti, 1601. — Le origini della toscana favella; Siena, Marchetti, 1604. — Furono ripubblicati nelle Opere edite ed inedite del Cittadini, per cura di Girolamo Gigli, Roma 1721. Ma, a detta dello Zeno (Annotaz. al Fontanini), per il secondo trattato il Gigli seguì l’ediz. Marchetti, invece d’un’altra riformata dall’autore e tanto migliore, uscita in Siena per Ercole Gori nel 1628.
  2. “Somnium....... nulla confutazione dignum.„ (Antiq. Ital., Diss. XXXII; tom. VI, col. 455 dell’ediz. d’Arezzo, 1775.)
  3. “Pistores vero, et lanistae, et hujusmodi turba sic intelligebant Oratoris verba, ut nunc intelligunt Missarum solemnia.„ (Pag. 63 della cit. ediz.)
  4. “Tu enim turbam convenisse putas ad carmina poëtae intelligenda, ego autem convenisse puto ad ludos scenicos spectandos. Itaque non auditores qui aderant, sed spectatores dicebantur.„ (Pag. 64.)
  5. In quanti modi si possa morire in Italia. Seconda edizione. Torino, Paravia, 1883.
  6. Plebejo sermone dice il testo. Ma è chiaro che, qui, plebejus non corrisponde punto, come parecchi hanno creduto, al nostro plebeo.
  7. “Ain tandem? insanire tibi videris, quod imitere verborum meorum, ut scribis, fulmina? Tum insanires, si consequi non posses: quum vero etiam vincas, me prius irrideas, quam te, oportet. Quare nihil tibi opus est illud a Trabea; sed potius άπότευγρχ meum. Verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? nonne plebejo sermone agere tecum? Nec enim semper eodem modo. Quid enim simile habet epistola aut judicio aut concioni? Quin ipsa judicia non solemus omnia tractare uno modo. Privatas causas, et eas tenues, agimus subtilius; capitis aut famae scilicet ornatius: epistolas vero quotidianis verbis texere solemus.„ (Ad Familiares, IX, 21.)
  8. “Così, le parole tante volte citate di Quintiliano: nam mihi aliam quandam videtur habere naturam sermo vulgaris, aliam viri eloquentis oratio (Inst. Orator., XII), non pongono e non esprimono una differenza tra una lingua letteraria e una lingua volgare o comune, ma tra il parlare d’un uomo eloquente e il parlar d’un idiota. Possono avere in bocca la stessa lingua e maneggiarla in modo molto diverso.„ (Zendrini, Della Lingua italiana; Palermo, 1877; pag. 65.)