Orlando innamorato/Libro primo/Canto ventesimoprimo

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Libro primo

Canto ventesimoprimo

../Canto ventesimo ../Canto ventesimosecondo IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Poemi epici

Libro primo - Canto ventesimo Libro primo - Canto ventesimosecondo

 
1   Cantando qui di sopra, io vi lasciai
     Come Ranaldo è sopra allo afferrante,
     E con vergogna e vituperio assai
     Disfida Trufaldino a sé davante;
     E nella fin del canto io vi contai
     Come fu spregionato Sacripante,
     E fece pace col re Trufaldino;
     Ma il re Torindo tenne altro camino.

2   Ora pone Ranaldo il corno a bocca,
     E tal parole al tintinar risuona:
     - O campioni, che seti nella rocca
     In compagnia della mala persona,
     Oditi quel che a tutti quanti tocca,
     Sia cavalliero, o sia re de corona:
     Chi non punisce oltraggio e tradigione,
     Potendo farlo, lui ne è la cagione.

3   Ciascun che puote e non diveta il male,
     In parte del deffetto par che sia;
     Ed ogni gentilomo naturale
     Viene obligato per cavalleria
     Di esser nemico ad ogni disleale
     E far vendetta de ogni villania;
     Ma ciascuno de voi questo dispreza,
     Ché pietà non aveti o gentileza.

4   Anci teneti vosco uno assassino,
     Quel falso cane de Dio maledetto,
     Dico il re di Baldaca, Trufaldino,
     Malvaggio, traditor, pien de diffetto.
     Ora me intenda il grande e il piccolino:
     Tutti ve isfido e nel campo vi aspetto;
     E vo’ provarvi, con la spada in mano,
     Che ognom de voi è perfido e villano. -

5   Con tal parole e con altre minaccia
     Tutti quei cavallieri il fio de Amone;
     Lor se guardavan l’uno e l’altro in faccia,
     Ché chiaro aveano inteso quel sermone;
     De loro alcun non è che ben non saccia
     Che a torto prenderà la questïone;
     Ché Trufaldin da tutti era stimato
     Iniquo, traditore e scelerato.

6   Ma la promessa fede e il giuramento
     Li fece uscire armati de le porte;
     E benché avessen tutti alto ardimento,
     E non stimassen, per onor, la morte,
     Andarno alla battaglia con spavento;
     E non vi fu baron cotanto forte
     Che, vedendo Ranaldo a sé davante,
     Non se stordisse insin sotto le piante.

7   Sei cavallieri uscîr di quel girone,
     E calarno de il sasso alla pianura:
     Primo Aquilante e il suo fratel Grifone,
     Che hanno e destrier fatati e l’armatura,
     Oberto e il re Adrïano e Chiarïone;
     In mezo è Trufaldin con gran paura.
     Come nel campo fôr gionti di saldo,
     Grifon cognobbe in vista il bon Ranaldo.

8   Verso Aquilante disse: - Odi, germano:
     Se io vedo drittamente, ora mi pare
     Che questo sia il segnor di Montealbano;
     E ben serebbe de girlo a trovare,
     E con carezze e con parlare umano
     Veder se pace se puote trattare;
     Però che, a dirti il vero, io me sconforto
     Per la battaglia che prendiamo a torto. -

9   Disse Aquilante: - A me pare ancora esso,
     E più proprio me par quanto più guardo;
     Ma non ardisco a dirlo per espresso,
     Ché non ha sotto il suo destrier Baiardo.
     Or cavalchiam pur, ché gionti da presso
     Ben lo cognosceremo senza tardo:
     E parla poi con lui, come te piace,
     De accordo o di battaglia, o guerra o pace. -

10 Così van verso lui, sempre parlando,
     E già l’un l’altro se recognoscia;
     Unde andarno da parte, e ragionando
     La sua sorte avenire, ogni om dicia
     Perché qua fosse gionto, e come, e quando;
     Ma ciascadun de’ tre gran pena avia,
     Poi che trovar non san ragion che vaglia,
     Che tra lor cessi la mortal battaglia.

11 Di Chiaramonte sono e di Mongrana,
     Gentile ischiatte e de un sangue discese;
     Or per altrui e per cagione istrana
     Vengono insieme alle mortale offese.
     Dicea il franco Grifon con voce umana
     Verso Ranaldo: - Deh baron cortese!
     Mal aggia la fortuna e trista sorte
     Che per altrui te adduce a prender morte.

12 Perché sette baroni hanno giurato
     Diffender Trufaldin da tutto il mondo,
     Ciascuno d’alto pregio e nominato.
     Caro fratello, io non te me nascondo:
     Morto ti veggio e disteso nel prato,
     Ché dopo il primo venirà il secondo,
     E il terzo e il quarto senza dimorare:
     Contra de tanti non puotrai durare. -

13 Disse Ranaldo: - A fede di leanza,
     Aver guerra con voi molto me pesa;
     E ciò non dico già per dubitanza,
     Ché tutti andreti in terra alla distesa;
     Ed è la vostra sì grande arroganza,
     Poi contra a tutto il mondo aveti impresa,
     Che non doveti già meravigliare
     Se io solo a sette voglio contrastare.

14 Ma noi facciamo ormai troppo parole,
     Ed io non voglio star tutto oggi armato;
     Qualunche Trufaldin diffender vôle,
     Prenda del campo, ché io l’ho desfidato.
     Certo non passarà quel monte il sole,
     Che ad uno ad un vi stenderò sul prato,
     E mostrarovi chiaro il parangone
     Che ve moveti contra alla ragione. -

15 Poi che ebbe così detto, il cavalliero
     Più non aspetta e volta Rabicano:
     E dilungato con sembiante altiero
     Fermossi al campo con la lancia in mano.
     Or vedon li altri al tutto esser mestiero
     De insanguinar le spade in su quel piano,
     Perché Ranaldo ha qui fermato il chiodo;
     Alla battaglia dànno ordine e modo.

16 E, vergognando andarli tutti adosso,
     Ordinorno che Oberto dal Leone
     Fosse contra de lui soletto mosso;
     E quando avesse il peggio alla tenzone,
     Il re Adrïano l’avesse riscosso;
     E, bisognando, movesse Grifone,
     Al qual donasse aiuto il suo germano;
     E Chiarïone a lui, de mano in mano.

17 Aveva Oberto una estrema possanza,
     E fu de’ digni cavallier del mondo;
     Sprona il destriero ed impugna la lanza.
     Non fu mai corso tanto foribondo
     Quanto hanno e duo baron pien de arroganza
     Credendo metter l’uno l’altro al fondo;
     Poco vantaggio fu nel gionger saldo,
     Me se ge ne fu alcun, fu de Ranaldo.

18 E ritornarno con brandi taglienti
     Alla terribil zuffa, inanimati
     Per darsi morte, a guisa de serpenti,
     Sempre menando colpi disperati.
     Avean tagliati tutti e guarnimenti,
     E rotti e scudi e li usberghi spezzati;
     Ma Ranaldo con lui de maestria
     E ancor di forza vantaggio avia.

19 Menando le botte aspere e diverse,
     Ranaldo, che aspettava, il tempo ha còlto;
     Però che, come Oberto se scoperse,
     Gionse Fusberta, e l’elmo ebbe disciolto.
     La barbuta e il guancial tutto li aperse,
     E crudelmente lo ferì nel volto;
     E fu il colpo sì fiero e smisurato,
     Che come morto lo distese al prato.

20 Questo veggendo il franco re Adrïano,
     Che stava apparecchiato alla riscossa,
     Mosse a gran furia, correndo nel piano
     Con una lanza smisurata e grossa.
     Era senza asta il sir de Montealbano,
     Ché l’avea rotta alla prima percossa,
     Ma correndo ne vien col brando nudo;
     Il re Adrïano il gionse a mezo il scudo.

21 La lancia ne andò al ciel, rotta a tronconi,
     Né se mosse Ranaldo più che un sasso.
     Or ben vi sazo dir che e due ronzoni
     Non venian di galoppo né di passo,
     Anci se urtarno insieme come troni,
     Petto per petto, con molto fraccasso;
     Ma quel del re Adrïano andò per terra:
     Grifone incontinente il brando afferra.

22 Non volse lancia il cavallier pregiato,
     E quasi ancor de andar se vergognava,
     Parendoli Ranaldo affaticato.
     Or, come io dissi, la spada pigliava;
     L’arme avea tutte e il destriero affatato,
     Né d’altra cosa lui se dubitava,
     Salvo de non potersi indi partire
     Che non facesse Ranaldo morire.

23 E dolcemente lo volea pregare
     Che li piacesse de lasciar la impresa.
     Disse Ranaldo a lui: - Non predicare;
     Fuggi in mal’ora, o prendi tua diffesa. -
     Quando Grifone intese quel parlare,
     La faccia li vampò di foco accesa,
     Ed a lui disse: - Io non soglio fuggire,
     Ma tua superbia ti farà morire. -

24 Compìto non avea queste parole,
     Che il principe il ferì con tal roina,
     Che veder non sapea se è luna o sole,
     Né se gli era da sera o da matina.
     Ranaldo a lui diceva: - Altro ce vôle
     Che il destrier bianco e l’armatura fina
     A voler esser bon combattitore!
     Lena bisogna ed animoso core. -

25 Quando Grifone intese con oltraggio
     Dal sir de Montealbano esser schernito,
     Turbato oltra misura nel coraggio
     Ferilli ad ambe man l’elmo forbito;
     E benché a quel non facesse dannaggio,
     Ché era incantato, come avete odito,
     Fu il colpo di tal furia e tal tempesta
     Che tutta quanta gli stordì la testa.

26 Non pone indugia, che un altro li mena,
     Con più roina assai de quel primiero;
     Non sentì mai Ranaldo maggior pena,
     E tutto fraccassato avea il cimiero.
     - Io ti farò sentir se ho core e lena,
     E se altro vôlsi che un bianco destriero,
     Vil ribaldo, di strata rio ladrone! -
     Queste parole diceva Grifone.

27 E menò il terzo colpo assai maggiore,
     Così come era tutto invelenito,
     E tanta fretta mena e tal furore,
     Che Ranaldo non può prender partito.
     Ma come piacque a l’alto Creatore,
     Sempre ne l’elmo l’aveva ferito,
     Ché, se l’avesse gionto in altro loco,
     Serìa durata la battaglia poco;

28 Però che avria spezzata ogni armatura:
     Ma l’elmo stette alle percosse saldo.
     Turbato era Grifone oltra misura,
     Né mai fu de grande ira tanto caldo;
     Ma d’altra parte a voi lascio la cura
     Di pensar come stesse il pro’ Ranaldo;
     Ché Mongibel non arde né Vulcano,
     Più che facesse il sir de Montealbano.

29 Sembrava gli occhi suoi faville accese,
     E parea nel soffiar tempesta e vento;
     Cridando ad ambe man Fusberta prese,
     E ferisce a Grifon con ardimento.
     Sette armature non serian diffese,
     Se non vi fosse stato incantamento;
     Ma quella fatasone era sì forte
     Che campò il giovanetto dalla morte.

30 Abenché se stordì della percossa,
     Ed alle crine del destrier s’inchina;
     E non avendo ancor l’alma riscossa,
     Ranaldo lo ferì con gran ruina.
     Ma il giovanetto, che avea tanta possa,
     Ed è guarnito di armatura fina,
     Come risente, di nulla si cura,
     E mena colpi grandi oltra misura.

31 E sì crudel battaglia han cominciata,
     Che un’altra non fu mai cotanto dura;
     Né mai chiesen ripossa alcuna fiata,
     Né di doglia o de affanno alcun si cura.
     La faccia avea ciascun tanto infiammata,
     Che solo a riguardarli era paura;
     E, chi mirava da lontano un poco,
     Parea che fuor de l’elmi uscisse foco.

32 Né si scorgìa vantaggio di nïente,
     Benché meglio Grifone fosse armato.
     Cresce d’ognor lo assalto più fervente,
     Qual già presso a cinque ore avea durato.
     Dicea Ranaldo: - O Cristo onnipotente,
     Se bene in altra cosa aggio peccato,
     Non ne volere in questo far amendo,
     Ché adesso il dritto e la ragion diffendo!

33 Tu sai, Segnor, se iusta è la mia impresa,
     Ché a te menzogna se direbbe in vano;
     Grifon de un Saracino ha la diffesa
     Contra di me, che pur son cristïano.
     Per un can Saracin lui fa contesa,
     Crudele, iniquo, perfido e inumano:
     Fa, re del ciel, che chiaro ora comprenda
     Che la iustizia per te se diffenda. -

34 Così parlava; ed ancora Grifone,
     Tuttavia combattendo a gran ruina,
     Mirava al celo con devozïone.
     - Vergine, - dicea lui - del cel regina,
     Abbi del mio fallir compassïone,
     Né abandonar questa anima tapina!
     Che, benché in altre cose aggia peccato,
     In questo è pur il dritto dal mio lato.

35 Sempre parlai con Ranaldo de pace,
     E lui me oltraggia con tal villania,
     Che adoprar mi convien quel che me spiace
     E far battaglia contra a voglia mia.
     Suo tanto orgoglio e suo parlar mordace
     Me hanno condutto a questa pugna ria;
     E il tuo soccorso aspetto, che è dovuto,
     Ché sempre a’ bisognosi doni aiuto. -

36 In tal forma pregavan con pietate,
     Tuttavia combattendo, quei guerreri;
     Né mai se vedean ferme le sue spate,
     Ma colpi sopra colpi ognor più fieri;
     Né se temean l’un l’altro in veritate,
     Tanto eran prodi e de virtute altieri,
     Che a brando, a lancia, a piedi e su l’arcione,
     Potean con ciascun stare al paragone.

37 Ma nel presente io voglio differire
     Il fin di questa pugna sì rubesta;
     De Orlando e Brandimarte vi vo’ dire,
     Che son con quella dama alla foresta,
     Quale han campata da crudel martìre,
     E tre giganti occisi con tempesta,
     Come doveti aver nella memoria;
     Or de quel fatto io vo’ seguir la istoria.

38 Brandimarte giacea sopra a quel prato,
     Come io vi dissi, tutto sanguinoso,
     Con l’elmo rotto e scudo fraccassato
     Pel colpo di Marfusto furïoso.
     Orlando in braccio se l’avea recato,
     E piangea forte quel conte pietoso.
     Ma quella damisella a mano a mano
     Giù del gambelo discese nel piano,

39 Ed andò prestamente ivi alla fonte,
     Ch’era nel mezo del prato fiorito,
     E gettando acqua a Brandimarte in fronte
     Ritornar fece il spirto sbigotito:
     E dolcemente ragionando al conte
     Dicea voler pigliare altro partito,
     Ché poco longe una erba avea veduta,
     Qual racquista la vita ancor perduta.

40 Dentro alla selva che girava intorno
     La damisella se pone a cercare,
     Né stette molto, che fece ritorno
     Con l’erba che a virtute non ha pare.
     Ad ôr simiglia quando è chiaro il giorno,
     La notte poi se vede lampeggiare;
     Il fior vermiglio ha la pianta felice,
     E come argento è bianca sua radice.

41 Avea il baron la testa dissipata
     Per il gran colpo, come aveti odito;
     Posevi dentro quella erba fatata
     La damisella, e chiusela col dito.
     Fu incontinente la piaga saldata,
     Né pur se vede dove era ferito;
     Ma, come il spirto li fu ritornato,
     Di Fiordelisa il conte ha dimandato.

42 - Eccola quivi! - a lui rispose Orlando
     - Lei sola ti campò veracemente. -
     Così rispose il conte al suo dimando,
     Perché de l’altra non sapea nïente.
     Brandimarte mirò la dama, e quando
     Vide che non è quella, un dolor sente
     Sì smisurato e sì nocivo al core,
     Che quel del trapassar serìa minore.

43 Volgendo al cel le luce lacrimose:
     - Chi mi campò, - dicea - da mortal sorte
     Per darmi pene tanto dolorose?
     Or non me era assai meglio aver la morte?
     Spirti dolenti ed anime piatose
     Che stati del morir sopra le porte,
     Pietà vi prenda della pena mia,
     Ch’io vo’ venir con vosco in compagnia!

44 Non voglio viver, non, senza colei,
     Che sola ene il mio bene e ’l mio conforto;
     Vivendo, mille volte io morirei.
     Ahi, Fortuna crudel, come a gran torto
     Presa hai la guerra contro a’ fatti miei!
     Or che te giovarà poi che sia morto?
     Che farai poi, crudel, senza lïanza?
     Ché morte finirà la tua possanza.

45 Tolto m’hai del paese ove fui nato,
     Ché ancor me odiasti essendo fanciullino;
     Di mia casa reale io fui robato,
     E venduto per schiavo piccolino;
     Il nome de mio patre aggio scordato
     E il mio paese, misero! tapino!
     Ma solo il nome de mia matre ancora
     Fermo nella memoria mi dimora.

46 Fortuna dispietata, iniqua e strana,
     Tu me facesti servo ad un barone,
     Quale era conte di Rocca Silvana;
     E poi, per darmi più destruzïone,
     Con falso viso ti mostrasti umana:
     E il conte, che mi desti per padrone,
     Franco mi fece; e, non avendo erede,
     Ogni sua robba e il suo castel mi dede.

47 E per fingerti a me più grata e sciolta,
     Dama me desti de tanta beltate:
     Quella me desti che adesso m’hai tolta,
     Per farmi ora morir con crudeltate.
     Odi, fallace, e il mio parlare ascolta:
     Nocer non posso alla tua vanitate,
     Ma sempre biasmarotti ed in eterno
     Di te me andrò dolendo nello inferno. -

48 Così parlando sì forte piangia,
     Che avria spezzato un sasso di pietate.
     Il conte Orlando gran dolor n’avia,
     E quella dama con umanitate
     Dolcemente parlando gli dicia:
     - Molto me incresce di tua aversitate,
     E debbo avere assai compassïone,
     Perché a dolermi teco aggio cagione.

49 E vo’ che intendi se le cose istrane
     Son date ad altri ancor dalla Fortuna.
     Mio padre è re delle Isole Lontane,
     Dove il tesor del mondo se raduna;
     E tanto argento ed oro ha in le sue mane,
     Che altro tanto non è sotto la luna,
     Né ricchezza maggior al sol si vede;
     Ed io restavo a tanto bene erede.

50 Ma non se puote indivinar giammai
     Quel che sia meglio a desïare al mondo.
     Di re figliola e bella mi trovai,
     Ricca de avere e de stato iocondo;
     E ciò mi fu cagion de molti guai,
     Come te contaraggio il tutto a tondo,
     Perché cognosci a quel che èmmi incontrato,
     Che anzi alla morte alcun non è beato.

51 Era la fama già sparta de intorno
     Della ricchezza del mio patre antico;
     E nominanza del mio viso adorno,
     O vera o falsa, pur come io te dico,
     Menò duo amanti a chiedermi in un giorno,
     Ordauro il biondo e il vecchio Folderico;
     Bello era il primo dal zuffo alla pianta,
     L’altro de li anni avea più de sessanta.

52 Ricco ciascuno e de schiatta gentile;
     Ma Folderico sagio era tenuto
     E de uno antiveder tanto sotile,
     Che come a Dio del cel gli era creduto.
     Ordauro era di forza più virile,
     E grande di persona e ben membruto;
     Io, che a quel tempo non chiedea consiglio,
     Il vecchio lascio, e il giovine me piglio.

53 Non era tutta mia la libertate,
     Però che il patre mio vi tenea parte;
     Vergogna rafrenò la voluntate,
     Che presto in nave avria tratto le sarte.
     Ed anco mi stimava in veritate
     Poter mandar mia voglia al fin con arte,
     Ed ottenire Ordauro di leggiero;
     Ma fallito me andò questo pensiero.

54 Nelli antichi proverbii dir se suole
     Che malizia non è che donna avanze;
     Salamon disse già queste parole,
     Ma al nostro tempo se ritrovan cianze.
     Provato l’ho a mio costo, e ben mi dole,
     Ch’aggio perduto l’ultime speranze,
     Per confidarme alla malizia mia;
     Perso ho quel ch’io volevo e quel ch’io avia.

55 Perché, fingendo la faccia vermiglia
     E gli occhi quanto io pote vergognosi,
     Con quel parlar che a pianto se assomiglia,
     Nanti al mio patre ingenocchion mi posi,
     E dissi a lui: "Segnor, s’io son tua figlia,
     Se sempre il tuo volere al mio preposi,
     Come fatto ho di certo in abandono,
     Non mi negare a l’ultimo un sol dono.

56 Questo serà che non me dia marito
     Che prima meco al corso non contenda;
     E sia per legge fermo e stabilito
     Che il vincitor per sua moglie mi prenda;
     Ma fa che ’l vinto sappia che il partito
     Sia di lasciar la vita per amenda,
     E sia palese per tutte le bande:
     Chi non è corridor, non me domande."

57 Questa richiesta fu crudele e dura,
     Ma non la seppe il mio patre negare,
     E fecela per voce e per scrittura
     Quasi per l’universo divulgare.
     Ora me tenni lieta e ben secura
     Poter marito a mia voglia pigliare,
     Perché io son tanto nel corso legiera,
     Che apena è più veloce alcuna fiera.

58 E mi ricordo che nel prato piano
     Che è presso alla città di Damosire,
     Presi una cerva, correndo, con mano,
     Ed altre cose assai che non vo’ dire.
     Or, come io dissi, Ordauro, quel soprano,
     Con Folderico insieme ebbe a venire.
     L’uno è canuto e di molti anni pieno,
     L’altro nel viso angelico e sereno.

59 Pensa tu, cavalliero, a qual s’accosta
     Lo amoroso voler de una fanciulla.
     Io tutta al giovanetto ero disposta,
     E di quel vecchio mi curavo nulla.
     Più non se dette al fatto indugia o sosta;
     Venne il vecchiardo sopra ad una mulla,
     E de alto carco se mostrava stanco;
     Una gran tasca avea dal lato manco.

60 Il giovanetto viene con gran festa
     Sopra un corsier, che de oro era guarnito;
     Salta su il campo ed al corso s’apresta.
     Ciascun mostrava Folderico al dito,
     Dicendo: "Il saggio perderà la testa,
     Ché qua non gioverà esser scaltrito;
     Di tanta astuzia al mondo era tenuto,
     Or per amore egli ha il senno perduto."

61 Fuor della terra smontamo ad un prato
     Per far di nostro corso ultima prova:
     Folderico la tasca avea da lato.
     E prima che dal segno alcun se mova,
     Fu il patto nostro ancora ricontato,
     E la condizïon qui se rinova;
     La turba sta d’intorno alla vedetta,
     E sol la mossa al terzo suono aspetta.

62 Ciascun di noi dal segno fo partito.
     Folderico davanti via passava:
     Io il comportai, per averlo schernito.
     Come lui vide che a passarlo andava,
     Un pomo d’oro lucido e polito
     Fuor della tasca subito cavava;
     Io, che invaghita fui di quel lavoro,
     Lasciai la corsa e venni al pomo d’oro.

63 Ché quel metallo in vista è sì iocondo,
     Che la più parte del mondo disvia;
     Ed era sì volubile e ritondo,
     Che de pigliarlo gran fatica avia.
     Io presi il primo, e lui gettò il secondo,
     Fuggendomi davanti tuttavia,
     Dove ebbi assai fatica, e ad un ponto
     Questo pigliai ed ebbilo ancor gionto.

64 Io l’ebbi gionto, ed eravamo al fine
     Della affannata corsa e faticosa;
     E già le tende bianche eran vicine,
     Dove, compìto il corso, se riposa.
     Fra me dicea: "Convien che io me destine
     A dietro non tornar per altra cosa;
     Non tornaria per tutto il mondo un dito,
     Ché un vecchio non voglio io per mio marito.

65 Passar me lassaraggio al giovanetto,
     E lui davante vo’ lasciare andare;
     E questo brutto vecchio e maledetto,
     Che è sì canuto e vôlsi maritare,
     La forma lasciarà del bacinetto;
     E già questa ora mille anni a me pare
     Che Ordauro meco nel corso contenda,
     Ed io lo baci e per vinta mi renda."

66 Così parlava meco nel mio core,
     Alegra, già vicina alla speranza,
     Quando il vecchio malvaggio e traditore
     Il terzo pomo della tasca lanza;
     E tanto me abagliò col suo splendore,
     Che, benché tempo al corso non me avanza,
     Pur venni adietro e quel pomo pigliai,
     Né Folderico più gionsi giamai.

67 Lui forte ansando alle tende arivava;
     E soi gli sono intorno con letizia.
     Tutta la gente di fuora cridava:
     "Adoprata ha il volpone alta malizia."
     Or tu pôi mo pensar se io biastemava,
     Ch’io piansi il sangue vivo per gran stizia;
     E nel mio cor dicea: "Se egli è volpone,
     Farollo essere un becco, per Macone.

68 Ché mai non intrò a giostra cavalliero,
     Né a torniamento per farsi vedere,
     Che avesse in capo tanto alto il cimiero,
     Come io farò di corne al mio potere.
     Ponga a guardarme tutto il suo pensiero,
     Che non gli giovarà lo antivedere;
     E s’egli avesse uno occhio in ciascun dito,
     Ad ogni modo rimarrà schernito."

69 Feci il pensiero e missilo ad effetto.
     Ma voi aveti forse altro che fare,
     Perché io vedo entrambi nello aspetto
     Esser sospesi e de intorno guardare;
     Sì che io verrò con voi, e con diletto
     La mia novella voglio seguitare,
     Qual or vi piace. Prendite la via,
     Ch’io serò presta a farvi compagnia. -

70 Rispose Brandimarte: - Il danno mio
     M’ha tratto della mente al tutto fuore,
     E de mia dama tanto mi sa rio,
     Come perduto avessi proprio il core;
     Sì che a cercarla è tutto il mio desio,
     E sento per la indugia tal dolore
     E tanta pena e tanta angoscia e guai,
     Ch’io non ho inteso ciò che detto m’hai. -

71 E così tutti tre fôrno accordati
     Di cercar Fiordelisa in quel deserto,
     E non posar giamai son destinati,
     Sin che di lei non sanno al tutto il certo;
     E cavalcando se fôrno invïati
     Nel bosco ombroso e di rame coperto.
     Ma il lor camino e i fatti e il ragionare
     Dirovi a ponto in questo altro cantare.