Orlando innamorato/Libro secondo/Canto decimoquarto

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Libro secondo

Canto decimoquarto

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Libro secondo - Canto decimoterzo Libro secondo - Canto decimoquinto

 
1   Già molto tempo m’han tenuto a bada
     Morgana, Alcina e le incantazïoni,
     Né ve ho mostrato un bel colpo di spada,
     E pieno il cel de lancie e de tronconi;
     Or conviene che il mondo a terra vada,
     E ’l sangue cresca insin sopra a l’arcioni,
     Ché il fin di questo canto, s’io non erro,
     Seran ferite e fiamme e foco e ferro.

2   Ranaldo e Rodamonte alla frontiera
     Se vederanno insieme appresentati,
     E la battaglia andar schiera per schiera;
     Ma stati un poco quieti, ed aspettati,
     Ché io vo’ prima tornar là dove io era,
     De’ duo baron che al mare erano intrati.
     S’io non me inganno, doveti amentare
     Che Ranaldo e Dudone entrarno in mare,

3   Dietro ad Astolfo che su la balena
     Avanti era portato per incanto.
     Dudon le gambe per quelle onde mena,
     E già per l’acque avea seguìto tanto,
     Che ormai più non vedea Ranaldo apena,
     E fu per ruïnare in tristo pianto,
     Però che il suo destrier per più non posso
     Trabuccò al fondo e portòl seco adosso.

4   E nel cader che fie’il giovane arguto
     Fece a sé sopra il segno de la croce,
     E cridò: - Matre pia, donami aiuto! -
     Ranaldo se rivolse a quella voce,
     E quasi il pose al tutto per perduto.
     Ora diversa doglia al cor gli coce:
     Astolfo avante a lui via ne è portato,
     Alle sue spalle è questo altro affondato.

5   Pure il periglio grande de Dudone
     Il fece adietro rivoltar Baiardo;
     Come pesce natava quel ronzone
     Per la marina, tanto era gagliardo.
     Quando fu gionto dove era il garzone,
     Non bisognava che fusse più tardo,
     Ché ormai più non puoteva trare il fiato;
     Ben sapea dir se il mare era salato.

6   Ranaldo fuor d’arcione il tolse in braccio,
     E portòl sopra ’l litto alla sicura,
     E poi che questo ha tratto fuor de impaccio,
     Di seguitare Astolfo prese cura.
     Ma la balena era ita un tanto spaccio,
     Che a riguardar sì longe era paura,
     E l’aria cominciò di farsi bruna,
     Soffiando il vento e gelo e gran fortuna.

7   Con tutto ciò Ranaldo vôle entrare,
     Ma Prasildo facea molta contesa;
     Dudone, Iroldo sì seppon pregare,
     Che al fin piangendo abandona la impresa.
     Stasse nel litto e non sa che si fare,
     Poi che non trova al suo cugin diffesa;
     Il mar più leva l’onde, e giù dal cielo
     Cade tempesta ed acqua con gran gelo.

8   Ora sappiati che questa roina,
     Qual par che tutto il mondo abbia a sorbire,
     Era ad incanto fatta per Alcina,
     Perché alcun altro non possa seguire.
     Or vo’ lasciare Astolfo alla marina,
     Di lui poi molte cose avremo a dire;
     Torno a Ranaldo, che in su la riviera
     Sol se lamenta e piange e se dispera.

9   Da poi che molto in quel litto diserto
     Fu stato a lamentar, come io ve ho detto,
     Con quella pioggia adosso, al discoperto,
     Ché ivi non era né loggia, né tetto,
     E lui non era del paese esperto,
     Però che mai non fu per quel distretto,
     Pur, seguitando a lato alla marina,
     Verso ponente più giorni camina.

10 Li Atàrberi passò, gente inumana,
     Di qua da loro il monte de Corubio,
     E per la Tartaria venne alla Tana.
     Quel che là fiesse, Turpin pone in dubio,
     Se non che gionse nella Transilvana,
     E passò ad Orsua il fiume del Danubio,
     Giongendo in Ongheria quella giornata,
     Ove trovò gran gente insieme armata.

11 Era adunata quella guarnisone
     Di gente ardita e forte alla sembianza,
     Perché Otachier, figliol de Filippone,
     Era assembrato per passare in Franza,
     Ché l’avea già richiesto il re Carlone,
     Sentendo d’Agramante la possanza.
     Quel re mandava il figlio, com’io dico,
     Perch’era infermo ed anco molto antico.

12 Nella terra di Buda entrò Ranaldo,
     Ove il re lo ricolse a grande onore,
     Però che cognosciuto fu di saldo,
     Sapendosi per tutto il suo valore;
     Ed Otachier assai divenne baldo,
     Parendo alla sua andata un gran favore
     Ed un gran nome trïonfale e magno
     Lo aver Ranaldo seco per compagno.

13 Fu fatto capitano in quel consiglio
     Il pro’ Ranaldo, e fu ciascun contento;
     E già le liste a candido e vermiglio
     Ne’ lor stendardi se spiegarno al vento.
     Ben racomanda Filippone il figlio
     Molto a Ranaldo, e tutto il guarnimento,
     E dopo, dietro alle real bandiere,
     Verso Ostreliche se dricciâr le schiere.

14 Passâr Bïena, e per la Carentana
     Vargano le Alpi fredde in quel confino,
     E giù scendendo nella Italia piana,
     Andarno avanti e gionsero a Tesino.
     Tre giorni manco de una settimana
     Re Desiderio avea preso il camino;
     E, come là per tutto se ragiona,
     Con la sua gente è dentro de Savona.

15 Onde Ranaldo insieme ed Otachieri
     Seguir deliberarno il re lombardo.
     Essi avean trenta miglia cavallieri,
     L’un più che l’altro nobile e gagliardo,
     Che a quella impresa venian volentieri,
     Né avean de’ Saracini alcun riguardo.
     Passarno e monti, e giù nel Genoese
     Sopra del mar la gente se distese.

16 Là dietro caminando molti giorni,
     Già di Provenza sono alle confine,
     E, vagheggiando quei colletti adorni,
     Tra cedri, aranci e palme pellegrine,
     Odirno risuonare e trombe e corni
     Oltra a quel monte, e par che il cel roine:
     Di tal strida e furore è l’aria pieno,
     Che par che il mondo abissi e venga meno.

17 Ranaldo presto se trasse davante
     Ed Otachiero, e seco il bon Dudone,
     E lor gente lasciarno tutte quante,
     Tanto che gionti son sopra al vallone,
     Là dove Rodamonte lo africante
     Mena e Lombardi a gran destruzïone.
     Prima sconfitti alla battaglia fiera
     Avea i Francesi e il duca di Baviera.

18 E quattro figli soi feriti a morte
     Eran distesi al campo sanguinoso;
     Né avendo esso riparo a quella sorte,
     Era fuggito tristo e doloroso.
     E sempre il saracin torna più forte,
     Dissipando ogni cosa il forïoso.
     Già il duca di Savoglia e di Lorena
     Avea spezzati e morti con gran pena.

19 A Bradamante, che è figlia de Amone,
     Occiso avea il destriero e posto a terra,
     E più gente tagliata in quel sabbione
     Che giamai fosse morta in altra guerra.
     Tutta la cosa a ponto e per ragione
     Già vi contai, se il mio pensier non erra,
     Insin che sua bandiera cadde al campo,
     Onde lui prese il disdegnoso vampo.

20 Quella bandiera, che è vermiglia e d’oro,
     Nel mezo a sopraposte è ricamata;
     Una dama e un leone ha quel lavoro:
     La dama è Doralice di Granata.
     Questo è di Rodamonte il suo tesoro;
     Né cosa al mondo avea più cara o grata,
     Perché colei che ha quella somiglianza,
     Era suo amore e tutta sua speranza.

21 Quando la vide a terra Rodamonte,
     Della gran doglia non trovava loco,
     Ed arrufârsi e crini alla sua fronte,
     Mostrando gli occhi rossi come il foco.
     Quale un cingial che a furia esce del monte,
     Che cani e cacciatori estima poco,
     Fiacca le broche e batte ambe le zane:
     Tristo colui che a canto gli rimane!

22 Cotal se mosse allora quel pagano,
     Sopra a’ Lombardi tutto se abandona,
     E ben si sbarattò presto quel piano,
     Né vi rimase de intorno persona.
     Gli omini e l’arme taglia ad ogni mano,
     Della ruina il ciel tutto risuona,
     Perché scudi ferrati e piastre e maglia
     Spezza e fracassa a quella aspra battaglia.

23 De la sua gente ognior cresce la folta,
     Che venne prima in fuga e sbigotita.
     Ora torna cridando: - Volta! Volta! -
     E sopra a’ Cristïan se mostra ardita.
     Intorno al franco re tutta è ricolta;
     Ma nostra gente quasi era stordita,
     Mirando il saracin cotanto audace;
     De’ suoi gran colpi non si puon dar pace.

24 Nel campo de’ Lombardi è un cavalliero
     Nato di Parma, e nome ha Rigonzone,
     Forte oltra modo e di natura fiero,
     Ma non avea né senno né ragione.
     Da morte a vita avea poco pensiero;
     Ov’è il periglio e la destruzïone,
     E dove il scampo apena se ritrova,
     Più volentier si pone a far sua prova.

25 Costui, veggendo il forte saracino
     Che sopra al campo mena tal tempesta,
     Non lo stimando più che un fanciullino,
     Gli sprona adosso con la lancia a resta.
     Cridando: - A terra! a terra! - in sul camino
     A ritrovar l’andò testa per testa;
     Ruppe sua lancia, che è grosso troncone,
     Ed urta via nel corso del ronzone.

26 Col petto del ronzone urta il pagano
     A briglia abandonata l’animoso,
     E ben credette trabuccarlo al piano,
     Ma troppo è Rodamonte ponderoso.
     Nel freno al gran destrier dette di mano,
     E quel ritenne al corso furïoso;
     Perciò non stette Rigonzone a bada:
     Rotta la lancia, ha già tratta la spada.

27 Lasciata avea la briglia, e ad ambe mano
     Feritte il saracin di tutta possa,
     Ma ciascun colpo adosso a quello è vano;
     Quella pelle del drago è tanto grossa,
     Che da possanza o da valore umano
     Non teme taglio, o ponta, né percossa.
     Mentre ch’a lo Africano il colpo tira,
     Lui prende il suo destriero e intorno il gira.

28 E poi che l’ebbe alquanto regirato,
     Con furia via lo trasse di traverso,
     E quello andò per caso in un fossato,
     E sopra Rigonzon cadde riverso.
     Lasciamo lui, che vivo è sotterrato,
     E ritorniamo al saracin diverso,
     Che abatte sopra al campo ogni persona.
     Ecco afrontato ha il conte di Cremona,

29 Dico Arcimbaldo, il fio de Desiderio,
     Che vien col brando in mano alla distesa,
     Giovane ardito e degno de uno imperio,
     Ed atto a trare a fine ogni alta impresa;
     Né già gli attribuisco a vituperio
     Se fu perdente di questa contesa,
     Perché quel saracino ha tal possanza,
     Che tutti gli altri di prodezza avanza.

30 Egli abatte Arcimbaldo de l’arcione,
     Ferito crudelmente nella testa.
     Or se incomincia la destruzïone
     Di nostra gente e l’ultima tempesta;
     E destrier morti insieme e le persone
     Cadeno al campo, e quel pagan non resta
     Menare il brando da la cima al basso:
     Battaglia non fu mai di tal fracasso.

31 Ranaldo che nel monte era venuto,
     E Dudon seco e ’l giovene Otachieri,
     Quasi per maraviglia era perduto,
     Mirando del pagano e colpi fieri,
     E ben s’avede che bisogna aiuto;
     Né porre indugia vi facea mestieri,
     Ché de ogni parte è persa la speranza,
     Rotti e Lombardi, e fuggian quei di Franza.

32 Le lor bandiere al campo sanguinoso
     Squarzate a pezzi se vedeano andare;
     Nel mezo è Rodamonte il furïoso,
     Che sembra un vento di fortuna in mare,
     Ed ha quel brando sì meraviglioso,
     Qual già Nembroto fece fabricare,
     Nembroto il fier gigante, che in Tesaglia
     Sfidò già Dio con seco a la battaglia.

33 Poi quel superbo per la sua arroganza
     Fece in Babel la torre edificare,
     Ché de giongere in celo avea speranza,
     E quello a terra tutto ruïnare.
     Costui, fidando nella sua possanza,
     Il brando de cui parlo, fece fare,
     Di tal metallo e tal temperatura
     Che arme del mondo contra a lui non dura.

34 Re Rodamonte nacque di sua gesta,
     E dopo lui portò quel brando al fianco,
     Qual mai non fu portato in altra inchiesta,
     Perché ogni altro portarlo venìa stanco,
     Né di brandirlo alcuno avia podesta;
     E ’l suo patre Ulïeno, ardito e franco,
     Benché di sua bontade avesse inteso,
     L’avea lasciato per superchio peso.

35 Or, come io dico, Rodamonte il porta,
     E sopra al campo mena tal ruina,
     Che avea più gente dissipata e morta,
     Che non han pesci e fiume e la marina;
     E gli altri tutti, senza guida e scorta,
     Per monti e per valloni ogniom camina;
     Pur che si toglia a lui davanti un poco,
     Non guarda ove se vada, o per qual loco.

36 Ranaldo che era gionto alla montagna,
     Mirando giuso la sconfitta al basso,
     Ché già de morti è piena la campagna
     E gli altri vòlti in fuga a gran fraccasso,
     Forte piangendo quel baron se lagna,
     - Ahimè, - dicendo sconsolato e lasso,
     - Che io non spero più mai de aver conforto!
     Tra quella gente il mio segnore è morto!

37 Or che debbo più far, tristo, diserto,
     Che certamente morto è il re Carlone?
     Già pur in qualche guerra io sono esperto,
     E mai non vidi tal destruzïone.
     Re Carlo è là giù morto, io so di certo,
     E debbe avere apresso il duca Amone,
     Che gli portava sì fidele amore;
     Io so che occiso è apresso al suo segnore.

38 Ove è il franco Oliviero, ove è il Danese,
     Re di Bertagna, il duca di Baviera?
     Ove la falsa gesta maganzese,
     Che si mostrava sì superba e altiera?
     Alcun non vedo che faccia diffese,
     Né sola al campo ritta una bandiera.
     Tutti son morti, e non potria fallire;
     Ed io con seco al campo vo’ morire.

39 Né so stimar chi sia quello Africano,
     Che occiso ha nostre gente tutte quante,
     Se forse non è il figlio di Troiano,
     Re di Biserta, che ha nome Agramante.
     Sia chi esser vôle, io vado a mano a mano
     Ad affrontarme con quello arrogante;
     Voi, Otachiero, e tu, Dudon mio caro,
     Prendèti a nostra gente alcun riparo;

40 Ché io callo al campo come disperato,
     E son senza intelletto e coscïenza.
     O tu, mio Dio, che stai nel cel beato,
     Donami grazia nella tua presenza;
     Ché io te confesso che molto ho fallato,
     Ed or ritorno a vera penitenza.
     La fede che io ti porto, ormai mi vaglia,
     Ch’io son senza il tuo aiuto una vil paglia. -

41 Così parlava quel baron gagliardo,
     Piangendo tutta volta amaramente;
     Giù della costa sprona il suo Baiardo,
     E batte per furor dente con dente.
     Tornarno e due compagni senza tardo,
     Per condur sopra al poggio l’altra gente;
     Ma il pro’ Ranaldo menando tempesta
     Gionse nel campo e pose l’asta a resta.

42 Ver Rodamonte abassa la sua lanza,
     E ben l’avea nel campo cognosciuto,
     Ché tutto il petto sopra agli altri avanza,
     Ne la sua faccia orribile ed arguto,
     E gli occhi avea di drago alla sembianza.
     Or vien Ranaldo, e colse a mezo il scuto
     Con quella lancia sì nerbuta e grossa
     Che avria gettato un muro alla percossa.

43 Un muro avria gettato il fio de Amone,
     Con tal furore è dal destrier portato,
     E gionse Rodamonte nel gallone,
     E roverso il mandò per terra al prato.
     Come caduto fosse un torrïone,
     O il iugo de un gran monte roïnato,
     Cotal parve ad odir quel gran fraccasso,
     Quando giù cadde l’Africano al basso.

44 Non si puotria contar l’alta roina,
     Ché suonâr l’arme che ha il pagano in dosso,
     E tremò il campo insino alla marina
     Di quel gran busto quando fu percosso.
     Or se mosse la gente saracina,
     Tutti a Ranaldo s’aventarno addosso;
     Per aiutare il suo segnor ch’è a terra,
     Adosso de Ranaldo ogniom si serra.

45 Lui già del fodro avea tratto Fusberta,
     E dà tra lor, ché non gli stima un fico;
     De prima urtata ha quella schiera aperta,
     Né discerne il parente da lo amico,
     Perché la gente misera e diserta
     Taglia senza rispetto, come io dico;
     A chi la testa, a chi rompe le braccia:
     Non dimandar se intorno al campo spaccia.

46 Ma Rodamonte, la anima di foco,
     Di novo si era in piedi redricciato,
     E per grande ira non trovava loco,
     Chiamandosi abattuto e vergognato.
     Già tutta la sua gente a poco a poco,
     Rotta per forza, abandonava il prato,
     Quando vi gionse il superbo Africante,
     Ed a Ranaldo se oppose davante.

47 A prima gionta de la spada mena
     Giù per le gambe del destrier Baiardo,
     E quel ronzon scappò de un salto a pena,
     Né bisognava che fusse più tardo;
     E Rodamonte il suo brando rimena
     A gran roina, e non pone riguardo
     De giongere a cavallo o cavalliero;
     Tanto è turbato e disdegnoso il fiero.

48 - Ahi falso saracin, - disse Ranaldo
     - Che mai non fusti di gesta reale!
     Non ti vergogni, perfido, ribaldo,
     Ferir del brando a sì digno animale?
     Forse nel tuo paese ardente e caldo,
     Ove virtute e prodezza non vale,
     De ferire il destriero è per usanza;
     Ma non se adopra tal costume in Franza. -

49 Parlò Ranaldo in lenguaggio africano,
     Onde ben presto il saracin lo intese,
     E disse: - Per ribaldo e per villano
     Non ero io cognosciuto al mio paese;
     Ed oggi dimostrai col brando in mano
     A queste genti che ho intorno distese,
     Che de vil sangue non nacqui giammai;
     Ma, a quel che io vedo, non è fatto assai.

50 Se io non te pongo con seco a giacere
     Sopra a quel campo, in duo pezzi tagliato,
     Più mai al mondo non voglio apparere,
     E tengome a ciascun vituperato;
     Ma sino ad ora te faccio sapere
     Che il tuo destrier da me non fia servato;
     La usanza vostra non estimo un fico,
     Il peggio che io so far, faccio al nimico. -

51 Questo che io dico tuttavia parlava,
     E cominciò a ferir con tanta fretta
     Che, se Ranaldo ponto l’aspettava,
     Era ad un colpo fatta la vendetta.
     Ma lui verso del poggio rivoltava,
     E corse forse un tratto di saetta;
     E smontò quivi e lasciovvi Baiardo,
     Tornando a piedi il principe gagliardo.

52 Quando il pagano il vidde ritornare
     Soletto, a piede, senza quel ronzone
     Che via correndo lo puotea campare,
     Ben se lo tenne aver morto o pregione.
     Ma già le gente sopra al poggio appare,
     Qual conduce Otachieri e il bon Dudone,
     Li Ungari, dico, armati a belle schiere,
     Con targhe ed archi e lancie e con bandiere

53 Venian cridando quei guerreri arditi
     Giù della costa, e menando tempesta.
     Quando li vidde il re sì ben guarniti
     De arme lucente e con le penne in testa,
     Come gli avesse già presi e gremiti
     Saltava ad alto e faceva gran festa:
     Menando il brando intorno ad ogni mano
     Ferìa gran colpi sopra al vento in vano.

54 Poi se mosse qual movese il leone
     Che vede e cervi longi alla pastura,
     E già venendo fa tra sé ragione
     Cacciar da sé la fame alla sicura.
     Cotal quel saracin, cor di dragone,
     Che spreza tutto il mondo e non ha cura,
     Lasciò Ranaldo che già presso gli era,
     E rivoltosse incontra a quella schiera.

55 Tutta sua gente dietro a lui se mosse,
     Ed è per suo valor ciascuno ardito,
     E l’una schiera a l’altra se percosse
     A tutta briglia, nel campo fiorito.
     Del fraccasso de’ scudi e lancie grosse
     Non fu giamai cotal rumore odito.
     A cui stava a mirare era gran festa
     Petto per petto urtar, testa per testa.

56 E corni e trombe e tamburi e gran voce
     Facean la terra e il cel tutto stremire,
     E li Africani e’ nostri da la Croce
     Né l’un né l’altro avante puotea gire.
     Sol Rodamonte, il saracin feroce,
     Facea d’intorno a sé la folta aprire,
     Tagliando braccie e busti ad ogni lato
     Come una falce taglia erba di prato.

57 Non se vide giamai cotal spavento
     Che ’l ferir del pagano in quella guerra.
     Come ne l’Alpe la ruina e il vento
     Abatte e faggi con furore a terra:
     Cotale il saracin pien d’ardimento
     Tra’ cavallieri a piedi se disferra,
     Non li stimando più che l’orso e bracchi:
     Già sono in rotta Ungari e Valacchi.

58 Benché Otachier se adoperasse assai
     Per farli rivoltare alla battaglia,
     Non fu rimedio a voltarli giamai,
     Ma van fuggendo avanti alla canaglia;
     E Rodamonte, come io vi contai,
     Di qua di là nel campo li sbaraglia,
     Né vi è chi contra lui volti la fronte;
     Già gli ha cacciati insino a mezo il monte.

59 Il giovanetto fio de Filippone
     Per la vergogna se credea morire,
     E già di vista avea perso Dudone,
     Che in altra parte avea preso a ferire.
     Ranaldo era smontato de l’arcione,
     Sì come poco avante io vi ebbi a dire,
     Ed a quel loco non era presente,
     Ove egli è in volta tutta la sua gente.

60 Però si volse come disperato
     Verso il pagano e la sua lancia arresta,
     E gionse il saracin sopra al costato,
     E fiaccò tutta l’asta con tempesta.
     Ma lui conviene andar disteso al prato,
     Ferito sconciamente nella testa:
     Nel capo Rodamonte l’ha ferito,
     E fuor d’arcion lo trasse tramortito.

61 Non era indi Dudone assai lontano,
     E prestamente fu del fatto accorto.
     Quando vidde Otachier andare al piano,
     Senza alcun dubbio lo pose per morto;
     E già lo amava lui come germano,
     Onde ne prese molto disconforto,
     E destinò nel cor senza fallire
     Di vendicarlo, o con seco morire.

62 E’ non portò mai lancia il giovanetto,
     Per quanto da Turpino io abbia inteso,
     Ma piastra e maglia e scudo e bacinetto
     E la mazza ferrata di gran peso.
     Con quella viene adosso al maledetto,
     E sì come era di furore acceso
     Tutto se abandonò sopra al pagano
     Con ogni forza, e tocca de ambe mano.

63 Ad ambe mano il tocca il damisello
     Sopra de l’elmo che è cotanto fino,
     E roppe la corona e ’l suo cerchiello,
     Né vi rimase perle né rubino.
     Tutto il frontale aperse a quel flagello,
     E cadde ingenocchione il saracino.
     Ma la sua gente che intorno li stava,
     Li dette aiuto; e ben gli bisognava.

64 Tutti cridando avanti al suo segnore,
     Coperto lo tenian co e scudi in braccio.
     E Dudon la sua mazza a gran furore
     Mena a due mano adosso al populaccio;
     E non curando grande né minore,
     Fiacca e profonda chi gli dona impaccio;
     Abatte e spezza, e de altro già non bada
     Se non di farsi a Rodamonte strada.

65 Ma lui già se era in piedi redricciato,
     E mena il brando a cui non val diffesa;
     Il scudo de Dudone ebbe spezzato,
     E strazia piastra e maglia alla distesa,
     E tutto il disarmò dal manco lato,
     Benché non fosse a quel colpo altra offesa:
     Ma non avea callato il brando apena,
     Che l’altro colpo a gran fretta rimena.

66 Dudon, che vede non poter parare,
     Però che troppo gli è il pagano adosso,
     Subitamente il corse ad abracciare.
     Or era l’uno e l’altro grande e grosso,
     Sì che un bon pezzo assai vi fo che fare,
     Ma Dudon alla fin per più non posso
     Fu posto a terra da quel saracino,
     Preso e legato come un fanciullino.

67 Come volse Fortuna o Dio Beato,
     Ranaldo se trovò presente al fatto,
     E veggendo Dudone incatenato,
     Quasi per gran dolor divenne matto.
     Strenge Fusberta come disperato,
     Né prende alcun riguardo a questo tratto,
     Né stima più la vita o la persona;
     Ver Rodamonte tutto se abandona.

68 Egli era a piedi, come aveti odito,
     Ché al poggio avea lasciato il suo Baiardo;
     L’uno e l’altro de questi è tanto ardito,
     Che dir non vi saprei chi è più gagliardo.
     Ora il canto al presente è qui finito,
     Ed è gionto Ranaldo tanto tardo,
     Che non può far battaglia questo giorno;
     Doman la contarò: fati ritorno.