Ottavia (Alfieri, 1946)/Atto quarto

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Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Poppea, Seneca.

Poppea Da me che vuoi?

Seneca   Scusa, importuno io vengo:
ma forse, io vengo in tuo vantaggio...
Poppea   Or, donde
tal cura in te dell’util mio? Mi fosti
amico mai, né il sei? Cagion qual altra,
che di volermi nuocere?...
Seneca   Giovarti
mai non vorrei, per certo, ove non fosse
misto per or di Ottavia il minor danno
all’util tuo. Pietá della innocente
illustre donna, amor del giusto, e lungo
tedio d’ingrata vergognosa vita,
parlar mi fanno: ad ascoltar ti muova
tuo interesse, e null’altro.
Poppea   Udiam: che dirmi
puoi tu?
Seneca   Che molto increscerai tu tosto
a Neron, s’ei pur vede il popol fermo
tenacemente in odíarti. Il vero
ti dico in ciò: sai ch’io Neron conosco,
Roma, i tempi, e Poppea.
Poppea   Tutto conosci

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fuorché te stesso.

Seneca   Al mio morir vedrassi,
s’io me pure conobbi. Odimi intanto,
odimi, prego. — A tua rovina or corri
col bramar troppo tu d’Ottavia i danni.
Roma te sola e del ripudio incolpa,
e dell’esiglio suo: se infamia, o pena
maggior le tocca, ascritta a te fia sempre.
Quindi l’odio di te, giá grave, in mille
doppj or si accresce, e il susurrare. Ancora
spersa non è l’ammutinata plebe:
ma pur, poniam che il sia: non riede il giorno
ch’ella temer vie piú si fa? Poppea,
trema per te; che il tuo Nerone è tale
da immolar tutto, per salvar se stesso.
Esca è forse ad amore ostacol lieve;
ma invincibile ostacolo, ben presto
lo spegne in cor che non sublime sia.
Or, non farti lusinga: assai piú in conto
(e di gran lunga) tien Nerone il trono,
ch’ei non ti tiene. E guai, se a tale eletta
lo sforza Roma.
Poppea   Ed io Neron piú assai
tengo in conto, che il trono. Ov’io credessi
porlo per me in periglio... Ma, che narri?
Assoluto signor non è di Roma
Nerone? e fia ch’ei curi un popol vile,
pien di temenza, che a Tiberio, a Cajo
muto obbedia?...
Seneca   Temerlo assai tu dei,
se non fai che Neron per se ne tremi.
Osa pur, osa; il freno sol che avanza,
togli a Neron; ne proverai tu prima
i tristi effetti. Inutil tutto è il sangue,
che alle fatali nozze tue fu sparso,
se aggiunger v’osi oggi d’Ottavia il sangue.

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Mira Agrippina: ella il feroce figlio

amava sí, ma il conoscea; né il volle
mai dall’angoscia del rival fratello
liberar, mai. Sua feritade accorta
prevalse poscia; e il rio velen piombava
all’infelice giovinetto in seno.
Vana fu l’arte della madre; e il fio
tosto ella stessa ne pagava. Allora
di sangue in sangue errar vieppiú feroce
Neron vedemmo. Ottavia or sola resta,
freno a tal mostro; Ottavia, idol di Roma,
e di Neron terrore. Ottavia togli;
fa, ch’ei di te sia possessor tranquillo,
sazio tosto il vedrai. Cara ei ti tiene,
perché a lui tante uccisíon costasti;
ma se un periglio, anco leggier, gli costi,
spento è l’amore. Allor mercede aspetta,
quella, onde avaro mai Neron non fia;
a chi piú l’ama piú crudel la morte.
Poppea Ecco Neron; prosiegui.
Seneca   Altro non bramo.


SCENA SECONDA

Nerone, Poppea, Seneca.

Ner. Perfido; ed osi al mio divieto?...

Poppea   Ah! vieni;
vieni, ed udrai...
Ner.   Che udir? fra poco anch’egli
la ragion stessa, che alla plebe appresto,
udrá da me. — Ma, oh rabbia! ancor non cessa
il popolar tumulto: i preghi chiusa
trovan la via: verrá tra breve il ferro,
e sgombrerassi ampio sentiero. Acqueta
l’alma, o Poppea: domani al ciel risorte

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tue immagini vedrai: nel fango stesso,

ma d’atro sangue intriso, strascinate
vedrai le altrui.
Poppea   Che che ne avvenga, Roma
sappia or da te, ch’io non ti ho chiesto sangue
ad espiare il ricevuto oltraggio;
benché a soffrir grave mi fosse. Ardisce
pur crude mire la ria plebe appormi:
e costui pure, il precettor tuo, m’osa
ciò appor, bench’ei nol creda. Io te, mio primo
Nume, ne attesto: il sai, s’altro ti chiesi,
che l’esiglio d’Ottavia. Erami duro
vedermi innanzi ognor colei, che s’ebbe,
non lo mertando, il mio Neron primiera:
ma, del suo esiglio paga, a’ suoi delitti
stimai che pena ella ben ampia avesse,
nel perder te: pena, qual io...
Ner.   Deh! lascia
parlar Seneca, e il volgo. A Roma or ora
chiaro farò, qual sia quest’idol suo.
Seneca Bada, Neron; piú che ingannar, t’è lieve
Roma atterrir: l’uno assai volte festi;
l’altro non mai.
Ner.   Ma, di te pur mi valsi
ad ingannarla io spesso; e a ciò pur eri
arrendevole tu...
Seneca   Colpevol spesso
anch’io: ma in corte di Nerone io stava.
Ner. Vil servo...
Seneca   Il fui, finch’io mi tacqui; or sorge
il dí, ch’io sciolgo a non piú intesi detti
libera lingua. Al mio fallire ammenda
fian lieve i detti, è ver; ma in fama forse
tornar potrammi alto morire.
Ner.   In fama
io ti porrò, qual merti...

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Seneca   Infin che grida

di plebe ascolto, che il furor tuo crudo
col tuo timor rattemprano, t’è forza
soffrirmi ancora: e l’irritarti intanto
giova a me molto; e il farti udir sí il vero,
che al ritornar del tuo coraggio io cada
vittima prima: e, se me pria non sveni,
Ottavia mai svenar non puoi, tel giuro.
Io trar di nuovo, e a piú furore, io posso
la giá commossa plebe; appien svelarle
io posso i nostri empj maneggi: io, trarti,
piú che nol credi, ad ultimo periglio. —
Io di Neron fui consigliero; e m’ebbi
vestito il core dell’acciar suo stesso.
Io, vil, credei per compiacerti, o finsi
creder, (pur troppo!) del perduto trono
reo Britannico pria; quindi Agrippina
d’avertel dato; e Plauto e Silla rei
d’esserne degni reputati; e reo
di piú volte serbato avertel, Burro:
ma, reo stimai me piú di tutti, e stimo;
e apertamente, a ogni uom che udire il voglia,
in vita, e in morte, io ’l griderò. Tua rabbia,
sbramala in me; securo il puoi: ma trema,
se Ottavia uccidi: io te l’annunzio; tutto
sovra il tuo capo tornerá il suo sangue. —
Dissi; e dir m’importava. — A me in risposta
manderai poscia, a tuo grand’agio, morte.


SCENA TERZA

Nerone, Poppea.

Poppea Signor, deh! frena il furor tuo...

Ner.   Tai detti
scontar farotti in breve. — Oh rabbia!... Oh ardire

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Finché non giungon l’armi, io son quí dunque

minor d’ogni uomo? Or da ogni parte ho stretta
di diversi rispetti: ad uno ad uno,
costor che a un tratto io svenerei, m’è forza,
con lunghi indugj, ad uno ad un svenarli.
Poppea Oh quai punture al cor mi sento! oh quanto
meco mi adiro! Io son la ria cagione
d’ogni tuo affanno, io sola.
Ner.   A me piú cara
sei, quanto piú mi costi.
Poppea   È tempo al fine,
tempo è, Neron, ch’alto rimedio in opra
da me si ponga, poiché sola io ’l tengo.
Queta mai non sperar l’audace plebe,
finch’io son teco. Ah! generosa prole,
qual darle io pur di Cesari son presta,
Roma or la sdegna. Alla prosapia infame
di egizio schiavo un dí pervenga, è meglio,
la imperíal possanza. — Animo forte,
qual non m’avrò fors’io, sveller può solo
or da radice il male. — Ancor ch’io presti
velo, e non altro, al popolar tumulto
che altronde vien, pure in mio core ho fermo,...
ahi, sí, pur troppo!... e il deggio, e il voglio...
Ner.   Ah! cessa.
Tempo acquistar m’era mestier col tempo;
e giá ne ottenni alquanto. Omai, che temi?
Trionferemo, accertati...
Poppea   Deh! soffri,
che, s’io pure a’ tuoi piedi ora non spiro,...
l’ultimo addio ti doni...
Ner.   Oh! che favelli?
Deh! sorgi. Io mai lasciarti?...
Poppea   A te che giova
meco infingerti? Appien fors’io non veggo,
signor, che tu, sol per calmar miei spirti,

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or di celarmi il tuo timor ti sforzi?

Non leggo io tutti i tuoi piú interni affetti
nel volto amato? occhio di donna amante,
sagace vede. — Attonito, da prima,
dalle insolenti popolari grida
fosti, al tornar di Ottavia; or, crescer odi
l’ardire; onde atterrito...
Ner.   Atterrito io?...
Poppea So, che il forte tuo core ognor persiste
nella vendetta: ma, son dubbj i mezzi:
e intanto esposto a replicati oltraggi
rimani tu. Le irriverenti fole
per anco udir di un Seneca t’è forza:
ben vedi...
Ner.   Atterrito io?
Poppea   Sí; per me il sei: —
né in te potrebbe altro timor; tu tremi,
che il popolar furore in me non cada. —
Amar potresti, e non tremare? Il tuo
stato mi è lieve argomentar dal mio.
Del tuo periglio, e di tua immago io piena,
e di me stessa immemore, ad un lampo
di passeggiera pace, or non mi acqueto.
Ai terror nostri io vo’ dar fine, e trarre
te d’ogni rischio, a costo mio. Per sempre
perder ti vo’, per conservarti il core
del popol tuo.
Ner.   Ma che? mi credi?...
Poppea   Ah! lascia:
farti in tuo pro forza vogl’io: son ferma
di abbandonare il trono tuo; sbandirmi
di Roma; e, s’uopo fia, dal vasto impero.
Quella che il volgo in seggio or vuole, in seggio
donna rimanga, poiché il volgo è fatto
l’arbitro del tuo core: abbiasi il trono,
(ma questo è il men) del mio Nerone ell’abbia,

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e il talamo, e l’amore... Ahi me infelice!...

Cosí tu pace, e sicurezza avrai. —
Sollievo a me, s’io pur merto sollievo,
e s’io posso non tua restare in vita,
bastante a me sollievo fia, l’averti,
col mio partir, tolto ogni danno...
Ner.   Ai preghi
del tuo consorte arrenditi; o i comandi
del tuo signor rispetta. A me non puoi,
neppur tu stessa, toglierti; né il puote
umana forza, se il mio impero pria
non m’è tolto, e la vita. All’ira immensa
ch’entro in petto mi bolle, alla vendetta
ch’esser de’ tanta, (anch’io lo veggio) i mezzi
son lenti; e il pajon piú: ma il venir tarda
nocque a vendetta mai?
Poppea   Credi, a salvarti,
o a piú tempo acquistar, giovar può solo
il mio partir: vuoi che sforzata io parta,
mentre il posso buon grado? Il popol s’ode
ciò minacciare; e la minor fia questa
di sue minacce: a Ottavia altro marito
sceglier pretende, e che con essa ei regni.
Sta il trono in lei; tu il vedi. Or, ch’io ti lasci
scambiar Poppea pel trono? Ah! Neron, prendi
l’ultimo addio...
Ner.   Non piú: troppo m’irrita...
Poppea E s’anco il dí pur giunge, ove tu palma
abbi d’Ottavia, e della plebe a un tempo,
odio pur sempre ne trarrai, non poco.
E allor; chi sa? ne incolperesti forse
la misera Poppea. Quel ch’or mi porti
verace amor, chi sa se in odio allora
nol volgeresti, ripentito? Oh cielo!...
A un tal pensier di tema agghiaccio. Ah lungi
io da te morrò pria;... ma intero almeno

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cosí il tuo amor ne porto io meco in tomba...

Ner. Basta omai, basta; in me giá l’ira è troppa...
d’abbandonarmi ogni pensier deponi.
E Roma, e il mondo, e il ciel nol voglian, mia
sarai tu sempre: a te Neron lo giura.


SCENA QUARTA

Tigellino, Nerone, Poppea.

Tigel. Viva Neron.

Ner.   Gli hai tu dispersi? spenti?
Signor son io di Roma? — E che? tu torni
senza sangue sul brando?
Tigel.   Ancor di sangue
tempo non è; ma ben si appressa, io spero.
Pur, grand’arte esser vuole: io fei piú grida
sparger fra ’l volgo: or, che ti appresti forse
a ripigliare Ottavia; ov’ella possa
d’alcune taccie di maligne lingue
purgar sua fama: or, che gli oltraggi insani
fatti a Poppea, destato a nobil ira
aveano il cor d’Ottavia stessa; e ch’ella
di pace in Roma apportatrice riede,
non di scompiglio...
Poppea   E crede il popol stolto,
ch’io la di lei pietá?...
Ner.   Sempre arte, sempre?
Non ferro mai?
Tigel.   La men probabil cosa,
vera talvolta al popol pare. O stanco
fosse, o convinto, a queste varie voci,
ei rattemprò di sua ribelle gioja
il gran bollore in parte. Il dí frattanto
si muore; e fian segnal funesto l’ombre
di ragioni ben altre. Giá giá taciti

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i pretoriani schieransi; proscritte

giá son piú teste. Il nuovo sol vedrassi
sorger nel sangue; e nel silenzio, quindi.
Ma, se pur spento ogni tumulto affatto
doman tu vuoi; se a breve gaudio falso,
lungo terribil lagrimar verace
vuoi che sottentri; ad evidenza piena
or t’è mestiero trar le accuse gravi
giá intentate ad Ottavia: in altra guisa
mai non verresti del tuo intento a fine.
Tutti uccider non puoi...
Ner.   Men duol.
Tigel.   Ma tutti
convincer puoi. L’ultima strage è questa,
ove adoprar l’arte omai debbi.
Ner.   Vanne,
poich’è pur forza; e le intentate accuse
caldamente prosiegui. Andiam, Poppea;
vendetta avrem di quest’iniqua. Intanto
il dí verrá, che compier mie vendette,
piú mestier non mi fia l’altrui soccorso.