Ottavia (Alfieri, 1946)/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Ottavia, Seneca.

Ottav. Vieni, o Seneca, vieni; almen ch’io pianga

con te: niun con chi piangere mi resta.
Seneca Donna, e fia ver? mentita accusa infame...
Ottav. Tutto aspettava io da Neron, men questo
ultimo oltraggio; e sol quest’uno avanza
ogni mia sofferenza.
Seneca   Or, chi mai vide
insania in un sí obbrobriosa, e stolta?
Tu vivo specchio d’innocenza e fede,
tu pieghevole, tenera, modesta,
e ancor che stata di Nerone al fianco,
pure incorrotta sempre; e a te fia tolta
or tua fama cosí! non fia, no; spero.
Io vivo ancora, io testimonio vivo
di tua virtú; spender mia voce estrema
in gridarti innocente udrammi Roma:
chi fia sí duro, che pietá non n’abbia?
Deh! non mi dir (che mal può dirsi) or quanta
sia l’amarezza del tuo pianto: io tutto
sento e divido il dolor tuo...
Ottav.   Ma invano
tu speri. Nulla avermi tolto estima

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Neron, fin ch’ei la fama a me non toglie.

Tutto soggiace al voler suo: te stesso
tu perderesti, e indarno: ah! per te pure
tremar mi fai. Ma in salvo, è ver, che posta
da lunga serie di virtudi omai
è la tua fama: il fosse al par la mia!...
Ma, giovin, donna, infra corrotta corte
cresciuta, oh cielo! esser tenuta io posso
rea di sozzo delitto. Altri non crede,
né creder de’, ch’io per Neron tuttora
amor conservi: eppur, per quanto in seno
in mille guise egli il pugnal m’immerga,
per me il vederlo d’altra donna amante
è il rio dolor, che ogni dolor sorpassa.
Seneca Neron mi serba in vita ancora: ignota
m’è la cagion; né so qual mio destino
me dall’orme ritrae di Burro, e d’altri
pochi seguaci di virtú, ch’ei spense.
Ma pur Neron, per l’indugiarmi alquanto,
tolto non m’ha dal suo libro di morte.
Io, di mia mano stessa, avrei giá tronco
lo stame debil mio; sol men rattenne
speme, (ahi fallace, e poco accorta speme!)
di ricondurlo a dritta via. — Ma, trargli
di mano almeno un innocente, a costo
di questo avanzo di mia vita, io spero.
Deh, fossi tu pur quella! o almen potessi
risparmiarti l’infamia! Oh come lieto
morrei di ciò!
Ottav.   ...Nel rientrare in queste
soglie, ho deposto ogni pensier di vita.
Non ch’io morir non tema; in me tal forza
donde trarrei? La morte, è vero, io temo:
eppur la bramo; e sospiroso il guardo
a te, maestro del morire, io volgo.
Seneca Deh!... pensa... Il cor mi squarci... Oimè!...

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Ottav.   Sottrarmi

il puoi tu solo; dalla infamia almeno...
L’infamia! or vedi, onde a me vien: Poppea
bassi amori mi appone.
Seneca   Oh degna sposa
di Neron fero!
Ottav.   Ei di virtú per certo
non s’innamora: prepotenti modi,
liberi, audaci, a lui son esca, e giogo;
teneri, a lui recan fastidio. Oh cielo!
io, per piacergli, e che non fea? Qual legge
io rispettava ogni suo cenno: io sacro
il suo voler tenea. Di furto piansi
l’ucciso fratel mio: se da me laude
non ne ottenea Neron, biasmo non n’ebbe.
Piansi, e tacqui; e non lordo di quel sangue
crederlo finsi: invano. Ognor spiacergli,
era il destin mio crudo.
Seneca   Amarti mai
potea Neron, s’empia e crudel non eri? —
Ma pur, ti acqueta alquanto. Ecco novello
giá sorge il dí. Tosto che udrá la plebe
del tuo ritorno, e rivederti, e prove
darti vorrá dell’amor suo. Non poco
spero in essa; feroci eran le grida
al tuo partire; e il susurrar non tacque
nella tua breve assenza. Iniquo molto,
ma tremante piú assai, Neron per anco
tutto non osa; il popol sempre ei teme.
Fero è, superbo; eppur mal fermo in trono
finor vacilla: e forse un dí...
Ottav.   Qual odo
alto fragore?...
Seneca   Il popol, parmi...
Ottav.   Oh cielo!
alla reggia appressarsi...

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Seneca   Odo le grida

di mossa plebe.
Ottav.   Oimè! che fia?
Seneca   Che temi?
Soli noi siam, che in questa orribil reggia
paventar non dobbiamo...
Ottav.   Ognor piú cresce
il tumulto. Ahi me misera! in periglio
forse è Neron... Ma chi vegg’io?
Seneca   Nerone;
eccolo, e viene.
Ottav.   Oh, di qual rabbia egli arde
nei sanguinosi occhi feroci! — Io tremo...


SCENA SECONDA

Nerone, Ottavia, Seneca.

Ner. Chi sei, chi sei, perfida tu, che intera

vaneggi Roma al tuo tornare; ed osi
gridar tuo nome? Or quí, che fai? che imprendi
con questo iniquo traditore? entrambi
state in mia possa. Invan la plebe stolta
vederti chiede. Ah! se mostrarti io deggio,
spero, qual merti, almen mostrarti; estinta.
Ottav. Di me, Neron, come piú il vuoi, disponi.
Ma di ogni moto popolar, deh! credi
che innocente son io. Nulla (tel giuro)
chieggo, né spero, io dalla plebe: e dove
nuocerti pur, mal grado mio, potessi,
col mio supplizio il non mio error previeni.
Ner. Rea, qual ti sei, pria di punirti, io voglio
che ogni uom te sappia.
Seneca   Ed ingannar tu speri
con sí turpe menzogna il popol tutto?
Ner. Tu pur, tu pure, instigator codardo

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dei tumulti, che sfuggi; ascoso capo

di ribellanti moti; all’ira mia
tu pur vendetta un dí sarai; ma, poca.


SCENA TERZA

Tigellino, Nerone, Ottavia, Seneca.

Tigel. Signor...

Ner.   Che rechi, o Tigellin? favella.
Tigel. Vieppiú feroce la tempesta ferve:
rimedio sol, resta il tuo senno. — Appena
ode la plebe, che un sovran comando
Ottavia in Roma ha ricondotto, a gara
chiede ogni uom di vederla. In te cangiato
credono, stolti, il tuo primier consiglio:
e v’ha chi accerta, che di nuovo accolta
nel tuo talamo l’hai. Chi corre insano
al Campidoglio, e gioja sparge, e voti;
altri di alloro tríonfal corona
ripon sopra le immagini neglette
di Ottavia: altri, ebro d’allegrezza, ardisce
atterrar quelle di Poppea: tant’oltre
giunge l’audacia, che infra grida ed urli
nel limo indegnamente strascinate
giacciono infrante. Ogni piú infame scherno
di lei si fa: colmo è Neron di laudi:
ma in bando almen voglion Poppea: né manca
chi temerario anco sua morte grida.
Inni festivi, e in un minacce udresti;
poi preghi, indi minacce, e preghi ancora.
Arde ogni cor; dell’obbedire è nulla.
Tentan duci e soldati argine farsi
alla bollente rapidissim’onda;
invan; disgiunti, sbaragliati, o uccisi,
è un sol momento. — Omai, che far? Che imponi?

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Ner. Che far?... Si mostri or questa Ottavia al volgo;

su via, si mostri; — indi si sveni.
Ottav.   Il petto
eccoti inerme: svenami, se il vuoi.
Pur che a te giovi!... Alla infiammata plebe
mostrami spenta: ogni colpevol gioja
rintuzzerai tosto cosí. Sol chieggio,
che un’urna stessa il freddo cener mio
di Britannico in un col cener serri.
Base al tuo seggio alta e perenne il nostro
sepolcro avrai. Perché piú indugi? or questo
mio capo prendi; al tuo furore il debbo.
Seneca Se perder vuoi seggio ad un tempo e vita,
Neron, sicuro è il mezzo; Ottavia uccidi.
Ner. Vendetta avronne ad ogni costo.
Ottav.   Ah! mille
morti vogl’io, non ch’una, anzi che danno
lieve arrecare al signor mio.
Tigel.   Ma il tempo
piú stringe ognora. Odi tu gli urli atroci?
Impeto tal non vidi io mai; di tanto
meno affrontabil, che di gioja è figlio.
Sceglier partito è forza.
Ottav.   E dubbio fia?
Nerone, a tor per ora ogni tumulto,
ei t’è mestier l’uccidermi, o l’amarmi:
l’uno, né mai pur finger tu il potevi;
l’altro brami, è gran tempo: osa tu dunque;
svenami; ardisci: o se da ciò l’istante
fausto or non è, temporeggiar momenti
ben puoi. La plebe credula, e ognor vinta
pur che deluso sia l’impeto primo,
per te s’inganni: è lieve assai; sol basta,
ch’io m’appresenti in placida sembianza,
come se in tuo favor tornata io fossi;
sol, ch’io mi finga tua. Cosí la calca

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fia spersa tosto; ogni rumor fia queto;

tempo cosí di sguaínar tua spada,
e di segnar tue vittime t’acquisti.
Ner. A Roma, io sí, te mostrerò: ma pria
chiarir voglio, se in Roma il signor vero
son io. — Tu corri, Tigellino, al campo;
tacitamente i pretoriani aduna;
terribil quindi esci improvviso in armi
sovra gli audaci; e i passi tuoi sien morte
di quanto incontri.
Tigel.   Io l’ardirò; ma incerto
ne fia l’evento assai. Feroce l’atto
parrá, col ferro il rintuzzar la gioja.
E se in furor si volge? è breve il passo. —
Mal si resiste a una cittá; supponi
ch’io co’ miei forti cada; in tua difesa
chi resta allora?
Ner.   È ver... Ma, il ceder pure
parrebbe...
Tigel.   Or credi a me: periglio grave
non far di lieve: il sol tuo aspetto forse
può dissiparli appieno.
Ner.   ... Io di costei
rimango a guardia. In nome mio tu vanne,
mostrati lor: ben sai che sia la plebe;
seco indugiar fia il peggio. A piacer tuo,
fingi, accorda, prometti, inganna, uccidi:
oro, terror, ferro, parole adopra;
pur che sien vinti. Va, vola, ritorna.


SCENA QUARTA

Nerone, Ottavia, Seneca.

Ner. Seneca, e tu, guai se d’uscir ti attenti

della reggia:... ma statti da me lungi,

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ch’io non ti vegga. Iniqui voti intanto

fare a tua posta puoi; spera, desia;
giá giá si appressa anco il tuo dí.
Seneca   Lo aspetto.


SCENA QUINTA

Nerone, Ottavia.

Ner. E tu, fia questo il tuo trionfo estremo,

godine pur; che breve...
Ottav.   Il dí, ma tardo,
anco verrá, che Ottavia a te fia nota.


SCENA SESTA

Poppea, Nerone, Ottavia.

Poppea Dimmi, o Nerone: al fianco tuo m’hai posto

sul trono tu, perch’io bersaglio fossi
alla insolenza del tuo popol vile?
Ma che veggio? mentr’io son presa a scherno,
tacito, e dubbio, e inulto, stai tu appresso
alla cagion d’ogni tuo danno? In vero,
signor del mondo egli è Nerone! il volgo
pur la sua donna a lui prefigge.
Ottav.   Hai sola
tu di Nerone il core: omai, che temi?
Io prigioniera vile, io son l’ostaggio
della ondeggiante fe d’audace plebe.
Ti allegra tu: queta ogni cosa appena,
le tue superbe lagrime rasciutte
tosto saranno con tutto il mio sangue.
Ner. Tosto in luce verran gli obbrobrj tuoi;
Roma vedrá qual sozzo idol s’ha fatto.
Gli avuti oltraggi, a te, Poppea, verranno

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ascritti a onor; a infamia sua gli onori.

Ottav. E se pur v’ha chi me convincer possa
d’infamia a schiette prove, io giá t’ho scelta,
in mio pensier, Poppea; giudice sola
te voglio. Il varíar del cor gli affetti,
tu sai qual sia delitto, e qual mercede
a chi n’è rea si debba. — Ma innocente
io son, pur troppo, anco ai vostr’occhi. Or via,
tu, che sí altera in tua virtú ti stai;
tu, né pur osi or sostener miei sguardi.
Ner. Che ardisci tu? Del tuo signor rispetta
la sposa; trema...
Poppea   Eh! lascia. Ella ben sceglie
il suo giudice in me: qual mai ne avrebbe
benigno piú? qual potrei dare io pena
a chi l’amor del mio Neron tradisce,
quale altra mai, che il perderlo per sempre?
E pena a te, qual fia piú lieve? il vile
tuo amor, che ascondi invano, appien ti fora
per me concesso il pubblicarlo: degna
d’Eucero amante, degnamente io farti
d’Eucero voglio sposa.
Ottav.   Eucero è velo
a iniquítá piú vil di lui. Ma teco
io non contendo: a ciò non nacqui: ardita
non son io tanto...
Ner.   A chi se’ omai tu pari?
Te fa minor d’ogni piú vile ancella
tua turpe fiamma: appien dal prisco grado,
dalla tua stirpe appien scaduta sei.
Ottav. Tu meno assai mi abborriresti, s’io
scaduta fossi or d’ogni cosa; o s’anco
tu il pur credessi. Ma, se il vuoi, ti dono,
tranne sol l’innocenza, ogni mia cosa. —
Crudel Neron, qual che tu sii, né posso
cessar d’amarti, né arrossirne: immensa

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ben m’è vergogna in ver, rival nomarmi

di Poppea: ma nol son; mai non ti amava
costei: tuo grado, il trono, e quanto intorno
ti sta, ciò tutto, e non Nerone ell’ama.
Ner. Perfida, or ora...
Ottav.   E tu, quand’io t’impresi
ad amar, tale, ah! tu non eri: al bene
nato eri forse: indole tal ne’ primi
anni tuoi, no, mai non mostrasti. Or, ecco
chi cangia in te l’animo, e il cor; costei
ti affascinò la mente; ella primiera,
ella ti apprese a saporare il sangue:
l’eccidio ell’è di Roma. Io tacio i danni
miei, che i minori fieno: ma sanguigno
corre il Tebro per te; fratello, e madre...
Ner. Cessa, taci, ritratti, o ch’io...
Poppea   Lo sdegno
merta costei del signor mio? Gli oltraggi
son le usate de’ rei discolpe vane.
Se offendermi ella, o se prestarle fede
potessi tu, solo un de’ motti suoi
punto m’avria. Che disse? ch’io non t’amo?
tu sai...
Ottav.   Tu il sai piú ch’egli: ei lo sapria,
se il trono un dí perdesse: appien qual sei
conosceriati allora. — Ahi! perché il trono,
sola cagion per cui Neron mi abborre,
era mia culla? ah! che non nacqui io pure
di oscuro sangue! a te spiacevol meno,
meno odiosa, e men sospetta io t’era.
Ner. Meno odiosa a me? Tu sempre il fosti;
e il sei vieppiú: ma, omai per poco.
Poppea   E s’io
avi non vanto imperíali, nata
di sangue vil son io perciò? Ma, s’anco
il fossi pur, non figlia esser mi basta

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di Messalina.

Ottav.   Avean miei padri regno;
noti ad ogni uomo i loro error son quindi:
ma, degli oscuri o ignoti tuoi chi seppe
cosa giammai? Pur, se librar te meco
alcun si ardisse, a Ottavia appor potria
gli scambiati mariti? avanzo forse
son io d’un Rufo, o d’un Ottone?
Ner.   Avanzo
di morte sei, per breve tempo. Omai
del tuo perire, incerto è solo il modo;
ma nol cangi, che in peggio. — Esci; e frattanto
t’abbian tue stanze: va; ch’io piú non t’oda.


SCENA SETTIMA

Nerone, Poppea.

Ner. Poppea, te meglio, e il tuo Neron conosci.

Roma dovessi a fuoco e a sangue io porre,
meco il mio impero seppellir dovessi,
non ti fia fatto oltraggio piú (tel giuro)
per cagion di costei; né a me di mano
ella fia tratta mai. — Ti acqueta; in calma
ritorna; in me ti affida...
Poppea   Altro non temo,
che di morir non tua...
Ner.   Deh! cessa. Insorto
rapidamente è il rio tumulto, e ratto
disperderassi: all’opra anch’io mi accingo. —
Secura sta: d’ogni tua ingiuria e danno
vendicator me rivedrai, fra breve.