Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/367

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atto terzo 359


Fabrizio. Maestro, che faremo?

Pedante. Etiam atque etiam cogitandum.

Stragualcia. O corpo mio, fatti capanna; ch’io so che, per una volta, alzarò il fianco.

Pedante. Io penso, Fabrizio, che noi aviam pochi denari.

Stragualcia. Maestro, io ci ho veduto un figliuol dell’oste bello come uno angiolo.

Pedante. Orsú! Stiam qui. In ogni modo, tuo padre, se lo troviamo, pagará l’oste.

Stragualcia. Parti che ’l cimbel fusse a tempo per far calare il tordo? Io ho giá bevuto tre volte e ho detto una. Io non mi partirò di cucina, ch’io assaggiarò ciò che v’è; e poi dormirò intorno a quel buon fuoco. E cancar venga a chi vuol far robba!

Agiato. Ricordati, Frulla, che tu me n’hai fatte troppo e, un di, ci spezzarem la testa; e bene.

Frulla. A tua posta. Non posso piú presto che ora.

SCENA III

Virginio vecchio e Clemenzia balia.


Virginio. Questi sono i costumi che tu gli hai insegnati? Questo è l’onore ch’ella mi fa? Oh sfortunato a me! Per questo ho io campato tante fortune? per veder la mia robba senza erede? per veder la mia casa disfatta, la mia figliuola una puttana? per diventare una fabula del vulgo? per non piú potere alzar la fronte fra gli uomini? per esser mostrato a dito da’ fanciulli, deleggiato dai vecchi, messo in comedia dagli Intronati, posto per essempio nelle novelle e portato per bocca dalle donne di questa terra?

E forse che non son novelliere! forse che non gli piace di dir male! Giá credo che si sappia per tutto; anzi, ne son certo, che basta ch’una sola il sappia che, fra tre ore, va per tutta lati terra. Disgraziato padre! misero e doloroso vecchio troppo vis- ’* suto! Virginio, che farò io? che pensiero ha da essere il mio?