Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/372

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364 gl’ingannati


Pasquella. Dice il vero. Oh quanto ben faceva quella meschina! Eran piú le discipline ch’ella si dava e i cilici ch’ella portava che non è quanto bene l’altre fanno oggi: limosiniera per la vita; e, se non fusse stato per amor di voi, non capitava né frate né prete né povarello a quello uscio che non ricettasse e non gli desse ciò ch’ella aveva.

Virginio. Coteste eran buone parti.

Pasquella. Vi dico piú oltre che la si levò dugento volte, una e due ore innanzi di, per andar alla prima messa de’ frati di San Francesco, che non voleva esser veduta né tenuta una pòrchita come fanno certe graffiasanti ch’io conosco.

Gherardo. Come «pòrchita»? Che vuo’ tu dire?

Pasquella. Pòrchita, si; come si dice?

Virginio. Cotesta è una mala parola.

Pasquella. So ch’io sentivo dir cosí a lei.

Gherardo. Tu vuoi dire ipocrita, tu.

Pasquella. Forse. Ma vi dico che sua figliuola sará ancor piú di lei.

Gherardo. Dio il voglia.

Virginio. Oh Gherardo, Gherardo! Questa è colei di che aviam ragionato. Oh scontento padre! Forse che si nasconde o che si fugge per avermi veduto? Accostiamoglici.

Gherardo. Vedi di non far errore, che forse non è essa e Virginio. Chi non la conoscerla? Non vegg’io tutti i segnali che m’ha dati suor Novellante?

Pasquella. La cosa va male. Che si ch’io n’arò le mie!

SCENA VII

Virginio, Gherardo e Fabrizio giovinetto.


Virginio. Addio, buona fanciulla. Parti che questo sia abito conveniente a una tua pari? Questo è l’onor che tu fai alla casa tua? Questo è il contento che tu dai a questo povero vecchio? Almen fuss’io morto quando io t’ingenerai! che non sei nata