Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/279

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atto quarto 271

          che ne potrei contar piú di trecento
          millia novanta dodici. E ben spesso
          mi sogno: e poi, svegliato, mi ritrovo
          sotto una scala o in cánova o in cucina
          o sotto un desco; e poi non mi ricordo
          se andai la sera al letto o se vi fui
          portato da qualcuno. E si mi pare
          aver sognato le piú nuove cose
          del mondo! Cosí loro ancora abbracciano
          il loro amore in sogno e di poi, desti,
          non fan che lamentarsi. Dice l’uno:
          — Beato insogno! — e, di languir contento,
          d’abbracciar l’ombre e imbrattar le lenzuola
          d’un dolce pianto...
          Artemona  Ah! ca! A quanti intraviene!
          Pilastrino  Dunque non mento. L’altro chiama il cielo
          crudel che in quella tanta dolcitudine
          non l’ha fatto morire o ver concesso
          di non destarsi mai. Cosí face’ io,
          se mi truovo, in quel sogno, ben pasciuto.
          Allor vorrei che ’l mondo stesse sempre
          in quello stato. Ma poi, come indugio
          ogni poco, incomincio a sentir dentro
          gli asprissimi dolori de la fame:
          ond’io mi adiro e squarto e maledico;
          e, se pur sono in luogo che non possa
          farlo forte a mio modo, da me dico
          la messa piana, come ne l’incanto
          faceva Girifalco. Ma vo’ dirti.
          Sento un sonno assalirmi che non posso
          tener piú gli occhi aperti.
          Artemona  Si: t’ho inteso.
          Va’ dormi; n’hai bisogno. Io ’l vidi al primo,
          ch’era cotto a l’usato.