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146 lirici marinisti

     Del troian l’urna è de la bocca il vaso,
son picciole vigilie i bianchi denti;
son l’aquila in prontezza e ’l gran Pegaso,
cigno e cetra in dolcezza i lieti accenti;
libra due poli, ed orto sono e occaso
le due del bianco sen poma sorgenti;
la donna è un ciel, ma al moto suo giranti
son caduchi elementi i fidi amanti. —
     A tal canto, a tal ballo, al divo aspetto
ch’offre ignuda beltá d’almi candori,
tacquer gli uccelli e sul depinto letto
trattenne il rivo i fughivi umori;
gli elementi arrestarsi, e per diletto
fermâr le sfere i sempiterni errori:
le vidde e tenne in lor stupide e fisse
l’eterne luci il sommo Giove, e disse:
     — Che veggio? or che vaghezze oggi apparîro,
che indizi son d’alte bellezze eterne?
Non formar tai concetti unqua s’udîro
né sí vaghe girar le sfere eterne.
Piú non dimori in terra un sí bel giro,
ma faccia adorne le maggion superne,
e dal candor di quelle nevi intatte
si figuri nel ciel strada di latte. —
     Cosí diss’egli e, chini e riverenti,
gl’imi abissi tremâr, tremâr le sfere;
veggonsi in ciel di fiamme e d’òr lucenti,
le donzelle poggiar ratte e leggiere;
s’alzan tra l’aria, e tra le nubi e i venti
sparivan giá; ma allor che in vesti nere
dal bel terrestre sen la notte uscia
n’apparve impressa in ciel la Lattea via.
     Cosí per sommo eroe spiegava il canto
Opico pastorel presso a Peloro;
poi disse: — O gran Borgesi, accetta intanto
frutto immaturo di toscano alloro;