Pagina:Albertazzi - Novelle umoristiche.djvu/19

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il suicidio del maestro bonarca 5

certi amici. Dopo, la preghiera; che non commoveva neppure la platea e che appunto per ciò i critici avevano definita un canto di sirena nordica, senza rammentarsi che la Sposa selvaggia era affricana. Poi, il coro; elaborato senza dubbio per quella rispondenza degli ottoni al richiamo degli archi, ma privo di originalità; lento; fiacco; lungo; eterno. E il terzetto?... Il terzetto.... Ah il terzetto, vivaddio, no e poi no! Questo era bello; c’era tant’anima! c’era il cuore del pubblico che sobbalzava rapito quasi una volta a quello dei Lombardi! Bellissimo! Un pezzo simile sfidava la critica, sfidava la malignità degl’invidi, sfidava il tempo; nè chi l’aveva scritto moriva! No e poi no! Non morirebbe quantunque s’annegasse, umilmente, nel canal Torbo!

Un tal pezzo bastava a ribattere l’accusa di vanità al secondo atto; come la romanza del tenore, nel terzo, bastava a render celebre un nome!

Sposa selvaggia, addio!
Io morirò per te!

Così soave e così semplice, questa soave e semplice e limpida sorella della «Casta Diva» attesterebbe al mondo che nella terra di Bellini, non ostante le diavolerie dei wagneriani e i disaccordi che mortificano ingegni, anime e gusto; nella terra di Bellini nulla, mai, nessuno, mai, spegnerà il senso della melodia, l’amore dell’armonia, lo spirito dell’amore meridionale,