Pagina:Alberti, Leon Battista – Opere volgari, Vol. II, 1966 – BEIC 9707880.djvu/156

Da Wikisource.
150 profugiorm ab ærumna

dicea ad Achille: «Doma questo tuo animo sbardellato, quando gli dii, quali certo ti superano di virtù e dignità, sono flessibili». Domeremo noi stessi, fletteremo più a facilità e indulgenza che a severità e austerità. E forse non rarissimo gioverà fare come fece Agrippina, quale, avvedutasi in quella nave del suo pericolo sotto le macchine tese da Nerone per opprimerla e sfracellarla, iudicò utile e solo rimedio de’ suoi mali el mostrare di non le conoscere e dimenticarle. Ultimo e ottime fine di qualunque ingiuria sempre fu el dimenticarla. E quando pure el conceputo sdegno ne contamini in modo che a nulla ci sia lecito el dimenticarlo, almeno lo asconderemo o dissimuleremo. Presso a Curzio istorico, quello Eustemon, uno de’ iiij M. presi e stagliuzzati da’ Persi, quando e’ si consigliavano insieme se dovessero ritornare in Grecia così deformati, senza naso, senza occhi e senza mani, dicea: «Coloro sopportano bene le sue miserie quali le ascondono; agli afflitti la patria è solitudine; niuno ama chi e’ fastidia; e la calamità si è querula, e la felicità è superba. Ciascuno si consiglia colla fortuna sua quando e’ delibera della fortuna altrui. Se noi non fussimo insieme così a un modo miseri, l’uno sarebbe fastidio all’altro. Che maraviglia se e’ fortunati cercano e’ pari a sé fortunati». Parole degne di memoria; però le raccontai.

Ma quanto a noi bisogni, così faremo: consiglierenci colla nostra fortuna, e in le calamità saremo non queruli, e in le buone speranze del vendicarci saremo non rigidi né superbi. E intanto asconderemo e’ nostri mali aspettando qualche accommodata occasione e luogo di satisfarci. E faremo come presso a Silio poeta fece Annibal, udita la morte del fratello, quale:

compescit lacrimas... vincitque ferendo
constanter mala, et inferias in tempore longo'
missurum fratri, clauso immurmurat ore.

E se pur ti duole né puoi sofferire te stessi, e forse te conosci tale quale conoscea Tibullo poeta sé, ove e’ dicea:

Non ego firmus in hoc, non haec patientia nostro
ingenio, frangit fortia corda dolor,