Pagina:Alcuni discorsi sulla botanica.djvu/117

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Era ben naturale adunque, che i Greci dapprima, e poscia ad esempio di essi i Romani traessero gli alberi ad aver parte in tutte le relazioni della vita pubblica e privata nelle più solenni circostanze. In Grecia gli egregi cittadini si coronavano di pieghevoli ramiceili di quercia; d’alloro si fregiavano le chiome del Poeta e del Monarca, onde il Petrarca l’ebbe a dire «Onor d’Imperatori e di Poeti», di Pioppo si coronavano gli atleti, mentre le grazie ivano liete del Mirto. I carri trionfali, e i trofei avevano tutto all’intorno gli ornamenti di frondi d’alloro. L’Oleandro si donava al vincitore nei giuochi olimpici, la Palma al vincitore sul campo di battaglia; simbolo di pace l’Olivo sta nella mano degli Ambasciatori e in quella dei supplicanti. Degli alberi ancora si giovarono Greci e Romani a interpretare prodigi; degli alberi a spiegare i sogni; dagli alberi traevano responsi ed oracoli venerati. E a chi non sono note le vocali quercie di Dodona, l’oracolo pelasgico più famoso innanzi che gli Elleni si fossero di tutta Grecia impadroniti?

Isolati e aggruppati gli alberi erano ad un modo oggetto di venerazione e di ossequio, quelli come simbolo di solitaria grandezza, questi come caro soggiorno dei Numi,


Haec fuere numinum templa, (Plinio.)


e Virgilio cantava;

Habitarunt Di quoque sylvas.


Giove, Apollo, Minerva, Venere, Cupido, Bacco ave-